Torquato Tasso
Gerusalemme Liberata
POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO
AL SERENISSIMO SIGNORE
IL SIGNOR DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA
CANTO DICIANNOVESIMO
Solo Argante resiste sulle mura, ma
viene raggiunto da Tancredi: fra i due si rinnova la sfida interrotta, escono dalla città e si accende il combattimento, Argante rimane ucciso, mentre Tancredi cade ferito presso di
lui e sviene. Rinaldo assale il tempio di Salomone e lo
conquista dopo una grande strage. Intanto Solimano e Aladino
si sono rifugiati nella torre di David. Sopraggiunge Raimondo
che viene abbattuto e tramortito da Solimano, che si batte con grande coraggio; Aladino ordina che Raimondo sia fatto prigioniero, ma il
principe viene difeso da tutti i suoi mentre da due opposti lati sopraggiungono Goffredo e Rinaldo. Goffredo rimanda all'indomani l'assalto
alla torre di David per poter raccogliere e curare i feriti.
Intanto Vafrino, giunto nel campo pagano, può rendersi
conto della grandezza dell'esercito raccolto; girando per l'accampamento, giunge vicino
alla tenda del re egiziano, si ferma e ascolta le voci che
provengono dal suo interno; viene così a conoscenza di una congiura contro Goffredo e del
pericolo che corre Rinaldo. Il giorno dopo marcia con l'esercito egiziano, e alla sera,
durante la sosta, gira di tenda in tenda e vede Armida con
Adrasto, Tisaferno e Altamoro; alla fine, per puro caso, viene a sapere come sarebbe stata
attuata la congiura contro Goffredo. Una giovane donna lo riconosce: è Erminia, che lo rassicura confessandogli il
suo amore per Tancredi; è la stessa Erminia a svelargli le
modalità della congiura e poi, spinta da Vafrino, racconta come
s'innamorò del principe cristiano. Insieme ritornano a Gerusalemme, per una strada
diversa da quella seguita dall'esercito egiziano. Arrivano sotto le mura della Città e si imbattono nel corpo esanime di Tancredi;
piange Erminia credendolo morto, ma all'improvviso sente
un debole lamento uscire dalle labbra di Tancredi, e gli
presta le prime cure; Tancredi apre gli occhi e riconosce Vafrino;
intanto accorrono in molti e preparano una barella colla quale il principe viene
trasportato nella città insieme al corpo di Argante, al quale vuole dare degna sepoltura,
perché come un grande aveva combattuto. Vafrino va in cerca di Goffredo, lo trova presso
il letto di Raimondo ferito e gli rende conto del suo
operato, svelandogli congiure e pericoli. Goffredo decide
di combattere gli Egizi in campo aperto. Viene la notte.
Argomento |
Intera
palma del famoso Argante Tancredi ottiene in signolar tenzone. Salvo è il Re nella rocca. Erminia ha innante Vafrino; e questa a lui gran cose espone. Riede instrutto: ella è seco; e 'l caro amante Di lei trovano esangue in sul sabbione. Piange ella, e 'l cura poi. Goffredo intende Quali insidie il Pagan contra gli tende. |
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Già
la morte o il consiglio o la paura da le difese ogni pagano ha tolto, e sol non s'è da l'espugnate mura il pertinace Argante anco rivolto. Mostra ei la faccia intrepida e secura e pugna pur fra gli inimici avolto, piú che morir temendo esser respinto; e vuol morendo anco parer non vinto. Ma sovra ogn'altro feritore infesto sovragiunge Tancredi e lui percote. Ben è il circasso a riconoscer presto al portamento, a gli atti, a l'arme note, lui che pugnò già seco, e 'l giorno sesto tornar promise, e le promesse ír vòte. Onde gridò: "Cosí la fé, Tancredi, mi servi tu? cosí a la pugna or riedi? Tardi riedi, e non solo; io non rifiuto però combatter teco e riprovarmi, benché non qual guerrier, ma qui venuto quasi inventor di machine tu parmi. Fatti scudo de' tuoi, trova in aiuto novi ordigni di guerra e insolite armi, ché non potrai da le mie mani, o forte de le donne uccisor, fuggir la morte." Sorrise il buon Tancredi un cotal riso di sdegno, e in detti alteri ebbe risposto: "Tardo è il ritorno mio, ma pur aviso che frettoloso ti parrà ben tosto, e bramerai che te da me diviso o l'alpe avesse o fosse il mar fraposto; e che del mio indugiar non fu cagione tema o viltà, vedrai co 'l paragone. Vienne in disparte pur tu ch'omicida sei de' giganti solo e de gli eroi: l'uccisor de le femine ti sfida." Cosí gli dice; indi si volge a i suoi e fa ritrarli da l'offesa, e grida: "Cessate pur di molestarlo or voi, ch'è proprio mio piú che comun nemico questi, ed a lui mi stringe obligo antico." "Or discendine giú, solo o seguito come piú vuoi"; ripiglia il fer circasso "va' in frequentato loco od in romito, ché per dubbio o svantaggio io non ti lasso." Sí fatto ed accettato il fero invito, movon concordi a la gran lite il passo: l'odio in un gli accompagna, e fa il rancore l'un nemico de l'altro or difensore. Grande è il zelo d'onor, grande il desire che Tancredi del sangue ha del pagano, né la sete ammorzar crede de l'ire se n'esce stilla fuor per l'altrui mano; e con lo scudo il copre, e: "Non ferire" grida a quanti rincontra anco lontano; sí che salvo il nimico infra gli amici tragge da l'arme irate e vincitrici. Escon de la cittade e dan le spalle a i padiglion de le accampate genti, e se ne van dove un girevol calle li porta per secreti avolgimenti; e ritrovano ombrosa angusta valle tra piú colli giacer, non altrimenti che se fosse un teatro o fosse ad uso di battaglie e di caccie intorno chiuso. Qui si fermano entrambi, e pur sospeso volgeasi Argante a la cittade afflitta. Vede Tancredi che 'l pagan difeso non è di scudo, e 'l suo lontano ei gitta. Poscia lui dice: "Or qual pensier t'ha preso? pensi ch'è giunta l'ora a te prescritta? S'antivedendo ciò timido stai, è 'l tuo timore intempestivo omai." "Penso" risponde "a la città del regno di Giudea antichissima regina, che vinta or cade, e indarno esser sostegno io procurai de la fatal ruina, e ch'è poca vendetta al mio disdegno il capo tuo che 'l Cielo or mi destina." Tacque, e incontra si van con gran risguardo, ché ben conosce l'un l'altro gagliardo. È di corpo Tancredi agile e sciolto, e di man velocissimo e di piede; sovrasta a lui con l'alto capo, e molto di grossezza di membra Argante eccede. Girar Tancredi inchino in sé raccolto per aventarsi e sottentrar si vede; e con la spada sua la spada trova nemica, e 'n disviarla usa ogni prova. Ma disteso ed eretto il fero Argante dimostra arte simile, atto diverso. Quanto egli può, va co 'l gran braccio inante e cerca il ferro no, ma il corpo averso. Quel tenta aditi novi in ogni istante, questi gli ha il ferro al volto ognor converso: minaccia, e intento a proibirgli stassi furtive entrate e súbiti trapassi. Cosí pugna naval, quando non spira per lo piano del mare Africo o Noto, fra due legni ineguali egual si mira, ch'un d'altezza preval, l'altro di moto: l'un con volte e rivolte assale e gira da prora a poppa, e si sta l'altro immoto; e quando il piú leggier se gli avicina. d'alta parte minaccia alta ruina. Mentre il latin di sottentrar ritenta sviando il ferro che si vede opporre, vibra Argante la spada e gli appresenta la punta a gli occhi; egli al riparo accorre, ma lei sí presta allor, sí violenta cala il pagan che 'l difensor precorre e 'l fère al fianco; e visto il fianco infermo, grida: "Lo schermitor vinto è di schermo." Fra lo sdegno Tancredi e la vergogna si rode, e lascia i soliti riguardi, e in cotal guisa la vendetta agogna che sua perdita stima il vincer tardi. Sol risponde co 'l ferro a la rampogna e 'l drizza a l'elmo. Ove apre il passo a i guardi. Ribatte Argante il colpo, e risoluto Tancredi a mezza spada è già venuto. Passa veloce allor co 'l piè sinestro e con la manca al dritto braccio il prende, e con la destra intanto il lato destro di punte mortalissime gli offende. "Questa" diceva "al vincitor maestro il vinto schermidor risposta rende." Freme il circasso e si contorce e scote, ma il braccio prigionier ritrar non pote. Alfin lasciò la spada a la catena pendente, e sotto al buon latin si spinse. Fe' l'istesso Tancredi, e con gran lena l'un calcò l'altro e l'un l'altro recinse; né con piú forza da l'adusta arena sospese Alcide il gran gigante e strinse, di quella onde facean tenaci nodi le nerborute braccia in vari modi. Tai fur gli avolgimenti e tai le scosse ch'ambi in un tempo il suol presser co 'l fianco. Argante, od arte o sua ventura fosse, sovra ha il braccio migliore e sotto il manco. Ma la man ch'è piú atta a le percosse sottogiace impedita al guerrier franco; ond'ei, che 'l suo svantaggio e 'l rischio vede, si sviluppa da l'altro e salta in piede. Sorge piú tardi e un gran fendente, in prima che sorto ei sia, vien sopra al saracino. Ma come a l'Euro la frondosa cima piega e in un tempo la solleva il pino, cosí lui sua virtute alza e sublima quando ei n'è già per ricader piú chino. Or ricomincian qui colpi a vicenda: la pugna ha manco d'arte ed è piú orrenda. Esce a Tancredi in piú d'un loco il sangue, ma ne versa il pagan quasi torrenti. Già ne le sceme forze il furor langue, sí come fiamma in deboli alimenti. Tancredi che 'l vedea co 'l braccio essangue girar i colpi ad or ad or piú lenti, dal magnanimo cor deposta l'ira, placido gli ragiona e 'l piè ritira: "Cedimi, uom forte, o riconoscer voglia me per tuo vincitore o la fortuna; né ricerco da te trionfo o spoglia, né mi riserbo in te ragione alcuna." Terribile il pagan piú che mai soglia, tutte le furie sue desta e raguna; risponde: "Or dunque il meglio aver ti vante ed osi di viltà tentare Argante? Usa la sorte tua, ché nulla io temo né lascierò la tua follia impunita." Come face rinforza anzi l'estremo le fiamme, e luminosa esce di vita, tal riempiendo ei d'ira il sangue scemo rinvigorí la gagliardia smarrita, e l'ore de la morte omai vicine volse illustrar con generoso fine. La man sinistra a la compagna accosta, e con ambe congiunte il ferro abbassa; cala un fendente, e benché trovi opposta la spada ostil, la sforza ed oltre passa, scende a la spalla, e giú di costa in costa molte ferite in un sol punto lassa. Se non teme Tancredi, il petto audace non fe' natura di timor capace. Quel doppia il colpo orribile, ed al vento le forze e l'ire inutilmente ha sparte, perché Tancredi, a la percossa intento, se ne sottrasse e si lanciò in disparte. Tu, dal tuo peso tratto, in giú co 'l mento n'andasti, Argante, e non potesti aitarte: per te cadesti, aventuroso in tanto ch'altri non ha di tua caduta il vanto. Il cader dilatò le piaghe aperte, e 'l sangue espresso dilagando scese. Punta ei la manca in terra, e si converte ritto sovra un ginocchio a le difese. "Renditi" grida, e gli fa nove offerte, senza noiarlo, il vincitor cortese. Quegli di furto intanto il ferro caccia e su 'l tallone il fiede, indi il minaccia. Infuriossi allor Tancredi, e disse: "Cosí abusi, fellon, la pietà mia?" Poi la spada gli fisse e gli rifisse ne la visiera, ove accertò la via. Moriva Argante, e tal moria qual visse: minacciava morendo e non languia. Superbi, formidabili e feroci gli ultimi moti fur, l'ultime voci. Ripon Tancredi il ferro, e poi devoto ringrazia Dio del trionfal onore; ma lasciato di forze ha quasi vòto la sanguigna vittoria il vincitore. Teme egli assai che del viaggio al moto durar non possa il suo fievol vigore; pur s'incamina, e cosí passo passo per le già corse vie move il piè lasso. Trar molto il debil fianco oltra non pote e quanto piú si sforza piú s'affanna, onde in terra s'asside e pon le gote su la destra che par tremula canna. Ciò che vedea pargli veder che rote, e di tenebre il dí già gli s'appanna. Al fin isviene; e 'l vincitor dal vinto non ben saria nel rimirar distinto. Mentre qui segue la solinga guerra, che privata cagion fe' cosí ardente, l'ira de' vincitor trascorre ed erra per la città su 'l popolo nocente. Or chi giamai de l'espugnata terra potrebbe a pien l'imagine dolente ritrarre in carte od adeguar parlando lo spettacolo atroce e miserando? Ogni cosa di strage era già pieno, vedeansi in mucchi e in monti i corpi avolti: là i feriti su i morti, e qui giacieno sotto morti insepolti egri sepolti. Fuggian premendo i pargoletti al seno le meste madri co' capegli sciolti, e 'l predator, di spoglie e di rapine carco, stringea le vergini nel crine. Ma per le vie ch'al piú sublime colle saglion verso occidente, ond'è il gran tempio, tutto del sangue ostile orrido e molle Rinaldo corre e caccia il popolo empio. La fera spada il generoso estolle sovra gli armati capi e ne fa scempio; è schermo frale ogn'elmo ed ogni scudo: difesa è qui l'esser de l'arme ignudo. Sol contra il ferro il nobil ferro adopra, e sdegna ne gli inermi esser feroce; e que' ch'ardir non armi, arme non copra, caccia co l' guardo e con l'orribil voce. Vedresti, di valor mirabil opra, come or disprezza, ora minaccia, or noce, come con rischio disegual fugati sono egualmente pur nudi ed armati. Già co 'l piú imbelle vulgo anco ritratto s'è non picciolo stuol del piú guerriero nel tempio che, piú volte arso e disfatto, si noma ancor, dal fondator primiero, di Salamone; e fu per lui già fatto di cedri, d'oro e di bei marmi altero. Or non sí ricco già, pur saldo e forte è d'alte torri e di ferrate porte. Giunto il gran cavaliero ove raccolte s'eran le turbe in loco ampio e sublime, trovò chiuse le porte e trovò molte difese apparecchiate in su le cime. Alzò lo sguardo orribile e due volte tutto il mirò da l'alte parti a l'ime, varco angusto cercando, ed altrettante il circondò con le veloci piante. Qual lupo predatore a l'aer bruno le chiuse mandre insidiando aggira, secco l'avide fauci, e nel digiuno da nativo odio stimulato e d'ira, tale egli intorno spia s'adito alcuno (piano od erto che siasi) aprir si mira; si ferma alfin ne la gran piazza, e d'alto stanno aspettando i miseri l'assalto. In disparte giacea (qual che si fosse l'uso a cui si serbava) eccelsa trave, né cosí alte mai, né cosí grosse spiega l'antenne sue ligura nave. Vèr la gran porta il cavalier la mosse con quella man cui nessun pondo è grave, e recandosi lei di lancia in modo urtò d'incontro impetuoso e sodo. Restar non può marmo o metallo inanti al duro urtare, al riurtar piú forte. Svelse dal sasso i cardini sonanti, ruppe i serragli ed abbatté le porte. Non l'ariete di far piú si vanti, non la bombarda, fulmine di morte. Per la dischiusa via la gente inonda quasi un diluvio, e 'l vincitor seconda. Rende misera strage atra e funesta l'alta magion che fu magion di Dio. O giustizia del Ciel, quanto men presta tanto piú grave sovra il popol rio! Dal tuo secreto proveder fu desta l'ira ne' cor pietosi, e incrudelio. Lavò co 'l sangue suo l'empio pagano quel tempio che già fatto avea profano. Ma intanto Soliman vèr la gran torre ito se n'è che di David s'appella, e qui fa de' guerrier l'avanzo accòrre, e sbarra intorno a questa strada e quella; e 'l tiranno Aladino anco vi corre. Come il Soldan lui vede, a lui favella: "Vieni, o famoso re, vieni; e là sovra a la rocca fortissima ricovra, ché dal furor de le nemiche spade guardar vi puoi la tua salute e 'l regno." "Oimè," risponde "oimè, che la cittade strugge dal fondo suo barbaro sdegno, e la mia vita e 'l nostro imperio cade. Vissi, e regnai; non vivo piú, né regno. Ben si può dir: `Noi fummo.' A tutti è giunto l'ultimo dí, l'inevitabil punto." "Ov'è, signor la tua virtute antica?" disse il Soldan tutto cruccioso allora. "Tolgaci i regni pur sorte nemica, ché 'l regal pregio è nostro e 'n noi dimora. Ma colà dentro omai da la fatica le stanche e gravi tue membra ristora." Cosí gli parla, e fa che si raccoglia il vecchio re ne la guardata soglia. Egli ferrata mazza a due man prende e si ripon la fida spada al fianco, e stassi al varco intrepido e difende il chiuso de le strade al popol franco. Eran mortali le percosse orrende: quella che non uccide, atterra almanco. Già fugge ognun da la sbarrata piazza, dove appressar vede l'orribil mazza. Ecco da fera compagnia seguito sopragiungeva il tolosan Raimondo. Al periglioso passo il vecchio ardito corse, e sprezzò di quei gran colpi il pondo. Primo ei ferí, ma invano ebbe ferito; non ferí invano il feritor secondo, ch'in fronte il colse, e l'atterrò co 'l peso supin, tremante, a braccia aperte e steso. Finalmente ritorna anco ne' vinti la virtú che 'l timore avea fugata, e i Franchi vincitori o son respinti o pur caggiono uccisi in su l'entrata. Ma il Soldan, che giacere infra gli estinti il tramortito duce a i piè si guata, grida a i suoi cavalier: "Costui sia tratto dentro a le sbarre e prigionier sia fatto." Si movon quegli ad esseguir l'effetto, ma trovan dura e faticosa impresa perché non è d'alcun de' suoi negletto Raimondo, e corron tutti in sua difesa. Quinci furor, quindi pietoso affetto pugna, né vil cagione è di contesa: di sí grand'uom la libertà, la vita, questi a guardar, quegli a rapir invita. Pur vinto avrebbe a lungo andar la prova il Soldano ostinato a la vendetta, ch'a la fulminea mazza oppor non giova o doppio scudo o tempra d'elmo eletta; ma grande aita a i suoi nemici e nova di qua di là vede arrivare in fretta, ché da duo lati opposti in un sol punto il sopran duce e 'l gran guerriero è giunto. Come pastor, quando fremendo intorno il vento e i tuoni e balenando i lampi vede oscurar di mille nubi il giorno, ritrae le greggie da gli aperti campi, e sollecito cerca alcun soggiorno ove l'ira del ciel securo scampi, ei co 'l grido indrizzando e con la verga le mandre inanti, a gli ultimi s'atterga; cosí il pagan, che già venir sentia l'irreparabil turbo e la tempesta che di fremiti orrendi il ciel feria d'arme ingombrando e quella parte e questa le custodite genti inanzi invia ne la gran torre, ed egli ultimo resta: ultimo parte, e sí cede al periglio ch'audace appare in provido consiglio. Pur a fatica avien che si ripari dentro a le porte, e le riserra a pena che già, rotte le sbarre, a i limitari Rinaldo vien, né quivi anco s'affrena. Desio di superar chi non ha pari in opra d'arme, e giuramento il mena; ché non oblia che in voto egli promise di dar morte a colui che 'l dano uccise. E ben allor allor l'invitta mano tentato avria l'inespugnabil muro, né forse colà dentro era il Soldano dal fatal suo nemico assai securo; ma già suona a ritratta il capitano, già l'orizonte d'ogni intorno è scuro. Goffredo alloggia ne la terra, e vòle rinovar poi l'assalto al novo sole. Diceva a i suoi lietissimo in sembienza: "Favorito ha il gran Dio l'armi cristiane: fatto è il sommo de' fatti, e poco avanza de l'opra e nulla del timor rimane. La torre (estrema e misera speranza degli infedeli) espugnarem dimane. Pietà fra tanto a confortar v'inviti con sollecito amor gli egri e i feriti. Ite, e curate quei c'han fatto acquisto di questa patria a noi co 'l sangue loro. Ciò piú conviensi a i cavalier di Cristo, che desio di vendetta o di tesoro. Troppo, ahi! troppo di strage oggi s'è visto, troppa in alcuni avidità de l'oro; rapir piú oltra, e incrudelir i' vieto. Or divulghin le trombe il mio divieto." Tacque, e poi se n'andò là dove il conte riavuto dal colpo anco ne geme. Né Soliman con meno ardita fronte a i suoi ragiona, e 'l duol ne l'alma preme: "Siate, o compagni, di fortuna a l'onte invitti insin che verde è fior di speme, ché sotto alta apparenza di fallace spavento oggi men grave il danno giace. Prese i nemici han sol le mura e i tetti e 'l vulgo umil, né la cittade han presa, ché nel capo del re, ne' vostri petti, ne le man vostre è la città compresa. Veggio il re salvo e salvi i suoi piú eletti, veggio che ne circonda alta difesa. Vano trofeo d'abbandonata terra abbiansi i Franchi; alfin perdran la guerra. E certo i' son che perderanla alfine, ché ne la sorte prospera insolenti fian vòlti a gli omicidi, a le rapine ed a gli ingiuriosi abbracciamenti; e saran di leggier tra le ruine, tra gli stupri e le prede, oppressi e spenti, se in tanta tracotanza omai sorgiunge l'oste d'Egitto, e non pote esser lunge. Intanto noi signoreggiar co' sassi potrem de la città gli alti edifici, ed ogni calle onde al Sepolcro vassi torràn le nostre machine a i nemici. Cosí, vigor porgendo a i cor già lassi, la speme rinovò ne gli infelici. Or mentre qui tai cose eran passate, errò Vafrin tra mille schiere armate. A l'essercito avverso eletto in spia, già dechinando il sol, partí Vafrino; e corse oscura e solitaria via notturno e sconosciuto peregrino. Ascalona passò che non uscia dal balcon d'oriente anco il mattino; poi quando è nel meriggio il solar lampo, a vista fu del poderoso campo. Vide tende infinite e ventillanti stendardi in cima azzurri e persi e gialli, e tante udí lingue discordi e tanti timpani e corni e barbari metalli e voci di cameli e d'elefanti, tra 'l nitrir de' magnanimi cavalli, che fra sé disse: "Qui l'Africa tutta translata viene e qui l'Asia è condutta." Mira egli alquanto pria come sia forte del campo il sito, e qual vallo il circonde; poscia non tenta vie furtive e torte, né dal frequente popolo s'asconde, ma per dritto sentier tra regie porte trapassa, ed or dimanda ed or risponde. A dimande, a risposte astute e pronte accoppia baldanzosa audace fronte. Di qua di là sollecito s'aggira per le vie, per le piazze e per le tende. I guerrier, i destrier, l'arme rimira, l'arti e gli ordini osserva e i nomi apprende. Né di ciò pago, a maggior cose aspira: spia gli occulti disegni e parte intende. Tanto s'avolge, e cosí destro e piano, ch'adito s'apre al padiglion soprano. Vede, mirando qui, sdruscita tela, ond'ha varco la voce, onde si scerne, che là proprio risponde ove son de la stanza regal le ritirate interne, sí che i secreti del signor mal cela ad uom ch'ascolti da le parti esterne. Vafrin vi guata e par ch'ad altro intenda, come sia cura sua conciar la tenda. Stavasi il capitan la testa ignudo, le membra armato e con purpureo ammanto. Lunge due paggi avean l'elmo e lo scudo: preme egli un'asta e vi s'appoggia alquanto. Guardava un uom di torvo aspetto e crudo, membruto ed alto, il qual gli era da canto. Vafrino è attento e, di Goffredo a nome parlar sentendo, alza gli orecchi al nome. Parla il duce a colui: "Dunque securo sei cosí tu di dar morte a Goffredo?" Risponde quegli: "Io sonne, e 'n corte giuro non tornar mai se vincitor non riedo. Preverrò ben color che meco furo al congiurare; e premio altro non chiedo se non ch'io possa un bel trofeo de l'armi drizzar nel Cairo, e sottopor tai carmi: `Queste arme in guerra al capitan francese, distruggitor de l'Asia, Ormondo trasse quando gli trasse l'alma, e le sospese perché memoria ad ogni età ne passe.'" "Non fia" l'altro dicea "che 'l re cortese l'opera grande inonorata lasse: ben ei darà ciò che per te si chiede, ma congiunta l'avrai d'alta mercede. Or apparecchia pur l'arme mentite, ché 'l giorno omai de la battaglia è presso. "Son" rispose "già preste." E qui, fornite queste parole, e 'l duce tacque ed esso. Restò Vafrino a le gran cose udite sospeso e dubbio, e rivolgea in se stesso qual arti di congiura e quali sieno le mentite arme, e no 'l comprese a pieno. Indi partissi e quella notte intera desto passò, ch'occhio serrar non volse; ma quando poi di novo ogni bandiera a l'aure matutine il campo sciolse, anch'ei marciò con l'altra gente in schiera, fermossi anch'egli ov'ella albergo tolse, e pur anco tornò di tenda in tenda per udir cosa onde il ver meglio intenda. Cercando, trova in sede alta e pomposa fra cavalieri Armida e fra donzelle, che stassi in sé romita e sospirosa: fra sé co' suoi pensier par che favelle. Su la candida man la guancia posa, e china a terra l'amorose stelle. Non sa se pianga o no: ben può vederle umidi gli occhi e gravidi di perle. Vedele incontra il fero Adrasto assiso che par ch'occhio non batta e che non spiri, tanto da lei pendea, tanto in lei fiso pasceva i suoi famelici desiri. Ma Tisaferno, or l'uno or l'altro in viso guardando, or vien che brami, or che s'adiri; e segna il nobil volto or di colore di rabbioso disdegno ed or d'amore. Scorge poscia Altamor, ch'in cerchio accolto fra le donzelle alquanto era in disparte. Non lascia il desir vago a freno sciolto, ma gira gli occhi cupidi con arte: volge un guardo a la mano, uno al bel volto, talora insidia piú guardata parte, e là s'interna ove mal cauto apria fra due mamme un bel vel secreta via. Alza alfin gli occhi Armida, e pur alquanto la bella fronte sua torna serena; e repente fra i nuvoli del pianto un soave sorriso apre e balena. "Signor," dicea "membrando il vostro vanto l'anima mia pote scemar la pena, ché d'esser vendicata in breve aspetta, e dolce è l'ira in aspettar vendetta." Risponde l'indian: "La fronte mesta deh, per Dio! rasserena, e 'l duolo alleggia, ch'assai tosto averrà che l'empia testa di quel Rinaldo a piè tronca ti veggia, o menarolti prigionier con questa ultrice mano, ove prigion tu 'l chieggia. Cosí promisi in vòto." Or l'altro ch'ode, moto non fa, ma tra suo cor si rode. Volgendo in Tisaferno il dolce sguardo: "Tu, che dici, signor?" colei soggiunge. Risponde egli infingendo: "Io che son tardo seguiterò il valor cosí da lunge di questo tuo terribile e gagliardo." E con tai detti amaramente il punge. Ripiglia l'indo allor: "Ben è ragione che lunge segua e tema il paragone." Crollando Tisaferno il capo altero, disse: "Oh foss'io signor del mio talento! libero avessi in questa spada impero! ché tosto ei si parria chi sia piú lento. Non temo io te né tuoi gran vanti, o fero; ma il Cielo e l'inimico Amor pavento." Tacque; e sorgeva Adrasto a far disfida, ma la prevenne e s'interpose Armida. Diss'ella: "O cavalier, perché quel dono, donatomi piú volte, anco togliete? Miei campion sète voi, pur esser buono dovria tal nome a por tra voi quiete. Meco s'adira chi s'adira: io sono ne l'offese l'offesa, e voi 'l sapete." Cosí lor parla, e cosí avien che accordi sotto giogo di ferro alme discordi. È presente Vafrino e 'l tutto ascolta, e sottrattone il vero indi si toglie. Spia de l'alta congiura, e lei ravvolta trova in silenzio e nulla ne raccoglie. Chiedene improntamente anco tal volta, e la difficoltà cresce le voglie. O qui lasciar la vita egli è disposto, o riportarne il gran secreto ascosto. Mille e piú vie d'accorgimento ignote, mille ripensa inusitate frodi, e pur con tutto ciò non gli son note de l'occulta congiura e l'arme e i modi. Fortuna alfin (quel che per sé non pote) isviluppò d'ogni suo dubbio i nodi, si ch'ei distinto e manifesto intese come l'insidie al pio Buglion sian tese. Era tornato ov'è pur anco assisa fra' suoi campioni la nemica amante, ch'ivi opportun l'investigarne avisa ove traean genti sí varie e tante. Or qui s'accosta a una donzella, in guisa che par che v'abbia conoscenza inante; par v'abbia d'amistade antica usanza, e ragiona in affabile sembianza. Egli dicea, quasi per gioco: " Anch'io vorrei d'alcuna bella esser campione, e troncar pensarei co 'l ferro mio il capo o di Rinaldo o del Buglione. Chiedila pure a me, se n'hai desio, la testa d'alcun barbaro barone." Cosí comincia, e pensa a poco a poco a piú grave parlar ridur il gioco. Ma in questo dir sorrise, e fe' ridendo un cotal atto suo nativo usato. Una de l'altre allor qui sorgiungendo l'udí, guardollo, e poi gli venne a lato; disse: "Involarti a ciascun'altra intendo, né ti dorrai d'amor male impiegato. In mio campion t'eleggo; ed in disparte, come a mio cavalier, vuo' ragionarte." Ritirollo, e parlò: "Riconosciuto ho te, Vafrin; tu me conoscer déi." Nel cor turbossi lo scudiero astuto, pur si rivolse sorridendo a lei: "Non t'ho (che mi sovenga) unqua veduto, e degna pur d'esser mirata sei. Questo so ben, ch'assai vario da quello che tu dicesti è il nome ond'io m'appello. Me su la piaggia di Biserta aprica Lesbin produsse, e mi nomò Almanzorre." Tosto disse ella: "Ho conoscenza antica d'ogn'esser tuo, né già mi voglio apporre. Non ti celar da me, ch'io sono amica, ed in tuo pro vorrei la vita esporre. Erminia son, già di re figlia, e serva poi di Tancredi un tempo, e tua conserva. Ne la dolce prigion due lieti mesi pietoso prigionier m'avesti in guarda, e mi servisti in bei modi cortesi. Ben dessa i' son, ben dessa i' son; riguarda." Lo scudier, come pria v'ha gli occhi intesi, la bella faccia a ravvisar non tarda. "Vivi" ella soggiungea "da me securo: per questo ciel, per questo sol te 'l giuro. Anzi pregar ti vo' che, quando torni, mi riconduca a la prigion mia cara. Torbide notti e tenebrosi giorni, misera, vivo in libertate amara. E se qui per ispia forse soggiorni, ti si fa incontro alta fortuna e rara: saprai da me congiure, e ciò ch'altrove malagevol sarà che tu ritrove." Cosí gli parla, e intanto ei mira e tace; pensa a l'essempio de la falsa Armida. "Femina è cosa garrula e fallace: vòle e disvòle; è folle uom che se 'n fida." Sí tra sé volge. "Or, se venir ti piace," alfin le disse "io ne sarò tua guida. Sia fermato tra noi questo e conchiuso, serbisi il parlar d'altro a miglior uso." Gli ordini danno di salire in sella anzi il mover del campo allora allora. Parte Vafrin dal padiglione, ed ella si torna a l'altre e alquanto ivi dimora. Di scherzar fa sembianza e pur favella del campion novo, e se ne vien poi fora; viene al loco prescritto e s'accompagna, ed escon poi del campo a la campagna. Già eran giunti in parte assai romita e già sparian le saracine tende, quando ei le disse: "Or di' come a la vita del pio Goffredo altri l'insidie tende." Allor colei de la congiura ordita l'iniqua tela a lui dispiega e stende. "Son" gli divisa "otto guerrier di corte, tra' quali il piú famoso è Ormondo il forte. Questi (che che lor mova, odio o disegno) han conspirato, e l'arte lor fia tale: quel dí ch'in lite verrà d'Asia il regno tra' due gran campi in gran pugna campale, avran su l'arme de la Croce il segno, e l'arme avranno a la francesca; e quale la guardia di Goffredo ha bianco e d'oro il suo vestir, sarà l'abito loro. Ma ciascun terrà cosa in su l'elmetto che noto a i suoi per uom pagano il faccia. Quando fia poi rimescolato e stretto l'un campo e l'altro, elli porransi in traccia, e insidieranno al valoroso petto mostrando di custodi amica faccia; e 'l ferro armato di veneno avranno, perché mortal sia d'ogni piaga il danno. E perché fra' pagani anco risassi ch'io so vostr'usi ed arme e sopraveste, fèr che le false insegne io divisassi; e fui costretta ad opere moleste. Queste son le cagion che 'l campo io lassi: fuggo l'imperiose altrui richieste; schivo ed aborro in qual si voglia modo contaminarmi in atto alcun di frodo. Queste son le cagion, ma non già sole." E qui si tacque, e di rossor si tinse e chinò gli occhi, e l'ultime parole ritener volle e non ben le distinse. Lo scudier, che da lei ritrar pur vòle ciò ch'ella vergognando in sé ristrinse, "Di poca fede," disse "or perché cele le piú vere cagioni al tuo fedele?" Ella dal petto un gran sospiro apriva, e parlava con suon tremante e roco: "Mal guardata vergogna intempestiva, vattene omai, non hai tu qui piú loco; a che pur tenti, o in van ritrosa, o schiva, celar co 'l fuoco tuo d'amor il foco? Debiti fur questi rispetti inante, non or che fatta son donzella errante." Soggiunse poi: "La notte a me fatale ed a la patria mia che giacque oppressa, perdei piú che non parve; e 'l mio gran male non ebbi in lei, ma derivò da essa. Leve perdita è il regno, io co 'l regale mio alto stato anco perdei me stessa: per mai non ricovrarla, allor perdei la mente, folle, e 'l core e i sensi miei. Vafrin, tu sai che timidetta accorsi, tanta strage vedendo e tante prede, al tuo signor e mio, che prima i' scorsi armato por ne la mia reggia il piede; e chinandomi a lui tai voci porsi: `Invitto vincitor, pietà, mercede! non prego io te per la mia vita: il fiore salvami sol del verginale onore.' Egli, la sua porgendo a la mia mano, non aspettò che 'l mio pregar fornisse: `Vergine bella, non ricorri in vano, io ne sarò tuo difensor' mi disse. Allor un non so che soave e piano sentii ch'al cor mi scese e vi s'affisse, che serpendomi poi per l'alma vaga, non so come, divenne incendio e piaga. Visitommi poi spesso e 'n dolce suono consolando il mio duol, meco si dolse. Dicea: `L'intera libertà ti dono' e de le spoglie mie spoglia non volse. Oimè! che fu rapina e parve dono, ché rendendomi a me da me mi tolse. Quel mi rendé ch'è via men caro e degno, ma s'usurpò del core a forza il regno. Mal amor si nasconde. A te sovente desiosa chiedea del mio signore. Veggendo i segni tu d'inferma mente: `Erminia,' mi dicesti `ardi d'amore.' Io te 'l negai, ma un mio sospiro ardente fu piú verace testimon del core; e 'n vece forse della lingua, il guardo manifestava il foco onde tutt'ardo. Sfortunato silenzio! avessi almeno chiesta allor medicina al gran martire, s'esser poscia dovea lentato il freno, quando non giovarebbe, ai mio desire. Partimmi in somma, e le mie piaghe in seno portai celate e ne credei morire. Al fin cercando al viver mio soccorso, mi sciolse amor d'ogni rispetto il morso; sí ch'a trovarne il mio signor io mossi ch'egra mi fece e mi potea far sana. Ma tra via fero intoppo attraversossi di gente inclementissima e villana. Poco mancò che preda lor non fossi, pur in parte fuggimmi erma e lontana; e colà vissi in solitaria cella, cittadina de' boschi e pastorella. Ma poi che quel desio che fu ripresso molti dí per la tema anco risorse, tornarmi ritentando al loco stesso, la medesma sciagura anco m'occorse. Fuggir non potei già, ch'era omai presso predatrice masnada e troppo corse. Cosí fui presa, e quei che mi rapiro Egizi fur ch'a Gaza indi se 'n giro, e 'n don menàrmi al capitano, a cui diedi di me contezza, e 'l persuasi sí ch'onorata e inviolata fui quei dí che con Armida ivi rimasi. Cosí venni piú volte in forza altrui, e me 'n sottrassi. Ecco i miei duri casi. Pur le prime catene anco riserva la tante volte liberata e serva. Oh, pur colui che circondolle intorno a l'alma, sí che non fia chi le scioglia, non dica: `Errante ancella, altro soggiorno cércati pure,' e me seco non voglia; ma pietoso gradisca il mio ritorno e ne l'antica mia prigion m'accoglia!" Cosí diceagli Erminia, e insieme andaro la notte e 'l giorno ragionando a paro. Il piú usato sentier lasciò Vafrino, calle cercando o piú securo o corto. Giunsero in loco a la città vicino quando è il sol ne l'occaso e imbruna l'orto, e trovaron di sangue atro il camino; e poi vider nel sangue un guerrier morto che le vie tutte ingombra, e la gran faccia tien volta ai cielo e morto anco minaccia. L'uso de l'arme e 'l portamento estrano pagàn mostràrlo, e lo scudier trascorse; un altro alquanto ne giacea lontano che tosto a gli occhi di Vafrino occorse. Egli disse fra sé: "Questi è cristiano." Piú il mise poscia il vestir bruno in forse. Salta di sella e gli discopre il viso, ed: "Oimè," grida "è qui Tancredi ucciso." A riguardar sovra il guerrier feroce la male aventurosa era fermata, quando dal suon de la dolente voce per lo mezzo del cor fu saettata. Al nome di Tancredi ella veloce accorse in guisa d'ebra e forsennata. Vista la faccia scolorita e bella, non scese no, precipitò di sella; e in lui versò d'inessicabil vena lacrime e voce di sospiri mista: "In che misero punto or qui mi mena fortuna? a che veduta amara e trista? Dopo gran tempo i' ti ritrovo a pena, Tancredi, e ti riveggio e non son vista: vista non son da te benché presente, e trovando ti perdo eternamente. Misera! non credea ch'a gli occhi miei potessi in alcun tempo esser noioso. Or cieca farmi volentier torrei per non vederti, e riguardar non oso. Oimè, de' lumi già sí dolci e rei ov'è la fiamma? ov'è il bel raggio ascoso? de le fiorite guancie il bel vermiglio ov'è fuggito? ov'è il seren del ciglio? Ma che? squallido e scuro anco mi piaci. Anima bella, se quinci entro gire, s'odi il mio pianto, a le mie voglie audaci perdona il furto e 'l temerario ardire: da le pallide labra i freddi baci, che piú caldi sperai, vuo' pur rapire; parte torrò di sue ragioni a morte, baciando queste labra essangui e smorte. Pietosa bocca che solevi in vita consolar il mio duol di tue parole, lecito sia ch'anzi la mia partita d'alcun tuo caro bacio io mi console; e forse allor, s'era a cercarlo ardita, quel davi tu ch'ora conven ch'invole. Lecito sia ch'ora ti stringa e poi versi lo spirto mio fra i labri tuoi. Raccogli tu l'anima mia seguace, drizzala tu dove la tua se 'n gio." Cosí parla gemendo, e si disface quasi per gli occhi, e par conversa in rio. Rivenne quegli a quell'umor vivace e le languide labra alquanto aprio: aprí le labra e con le luci chiuse un suo sospir con que' di lei confuse. Sente la donna il cavalier che geme, e forza è pur che si conforti alquanto: "Apri gli occhi, Tancredi, a queste estreme essequie" grida "ch'io ti fo co 'l pianto; riguarda me che vuo' venirne insieme la lunga strada e vuo' morirti a canto. Riguarda me, non te 'n fuggir sí presto: l'ultimo don ch'io ti dimando è questo." Apre Tancredi gli occhi e poi gli abbassa torbidi e gravi, ed ella pur si lagna. Dice Vafrino a lei: "Questi non passa: curisi adunque prima, e poi si piagna." Egli il disarma, ella tremante e lassa porge la mano a l'opere compagna, mira e tratta le piaghe e, di ferute giudice esperta, spera indi salute. Vede che 'l mal da la stanchezza nasce e da gli umori in troppa copia sparti. Ma non ha fuor ch'un velo onde gli fasce le sue ferite, in sí solinghe parti. Amor le trova inusitate fasce, e di pietà le insegna insolite arti: l'asciugò con le chiome e rilegolle pur con le chiome che troncar si volle, però che 'l velo suo bastar non pote breve e sottile a le sí spesse piaghe. Dittamo e croco non avea, ma note per uso tal sapea potenti e maghe. Già il mortifero sonno ei da sé scote, già può le luci alzar mobili e vaghe. Vede il suo servo, e la pietosa donna sopra si mira in peregrina gonna. Chiede: "O Vafrin, qui come giungi e quando? E tu chi sei, medica mia pietosa?" Ella, fra lieta e dubbia sospirando, tinse il bel volto di color di rosa: "Saprai" rispose "il tutto, or (te 'l comando come medica tua) taci e riposa. Salute avrai, prepara il guiderdone." Ed al suo capo il grembo indi suppone. Pensa intanto Vafrin come a l'ostello agiato il porti anzi piú fosca sera, ed ecco di guerrier giunge un drapello: conosce ei ben che di Tancredi è schiera. Quando affrontò il circasso e per appello di battaglia chiamollo, insieme egli era; non seguí lui perché non volse allora, poi dubbioso il cercò de la dimora. Seguian molti altri la medesma inchiesta, ma ritrovarlo avien che lor succeda. De le stesse lor braccia essi han contesta quasi una sede ov'ei s'appoggi e sieda. Disse Tancredi allora: "Adunque resta il valoroso Argante a i corvi in preda? Ah per Dio non si lasci, e non si frodi o de la sepoltura o de le lodi. Nessuna a me co 'l busto essangue e muto riman piú guerra; egli morí qual forte, onde a ragion gli è quell'onor devuto che solo in terra avanzo è de la morte." Cosí da molti ricevendo aiuto fa che 'l nemico suo dietro si porte. Vafrino al fianco di colei si pose, sí come uom sòle a le guardate cose. Soggiunse il prence: "A la città regale, non a le tende mie, vuo' che si vada, ché s'umano accidente a questa frale vita sovrasta, è ben ch'ivi m'accada; ché 'l loco ove morí l'Uomo immortale può forse al Cielo agevolar la strada, e sarà pago un mio pensier devoto d'aver peregrinato al fin del voto." Disse, e colà portato egli fu posto sovra le piume, e 'l prese un sonno cheto. Vafrino a la donzella, e non discosto, ritrova albergo assai chiuso e secreto. Quinci s'invia dov'è Goffredo, e tosto entra, ché non gli è fatto alcun divieto, se ben allor de la futura impresa in bilance i consigli appende e pesa. Del letto, ove la stanca egra persona posa Raimondo, il duce è su la sponda, e d'ogn'intorno nobile corona de' piú potenti e piú saggi il circonda. Or, mentre lo scudiero a lui ragiona, non v'è chi d'altro chieda o chi risponda. "Signor," dicea "come imponesti, andai tra gli infedeli e 'l campo lor cercai. Ma non aspettar già che di quell'oste l'innumerabil numero ti conti. I' vidi ch'al passar le valli ascoste sotto e' teneva e i piani tutti e i monti; vidi che dove giunga, ove s'accoste, spoglia la terra e secca i fiumi e i fonti, perché non bastan l'acque a la lor sete, e poco è lor ciò che la Siria miete. Ma sí de' cavalier, sí de' pedoni sono in gran parte inutili le schiere: gente che non intende ordini o suoni, né stringe ferro e di lontan sol fère. Ben ve ne sono alquanti eletti e buoni che seguite di Persia han le bandiere, e forse squadra anco migliore è quella che la squadra immortal del re s'appella. Ella è detta immortal perché difetto in quel numero mai non fu pur d'uno, ma empie il loco vòto e sempre eletto sottentra uom novo ove ne manchi alcuno. Il capitan del campo, Emiren detto, pari ha in senno e valor pochi o nessuno, e gli commanda il re che provocarti debba a pugna campal con tutte l'arti. Né credo già ch'al dí secondo tardi l'essercito nemico a comparire. Ma tu, Rinaldo, assai conven che guardi il capo, ond'è fra lor tanto desire, ché i piú famosi in arme e i piú gagliardi gli hanno incontra arrotato il ferro e l'ire; perché Armida se stessa in guiderdone a qual di loro il troncherà propone. Fra questi è il valoroso e nobil perso: dico Altamoro, il re di Sarmacante, Adrasto v'è, c'ha il regno suo là verso i confin de l'aurora ed è gigante, uom d'ogni umanità cosí diverso che frena per cavallo un elefante. V'è Tisaferno, a cui ne l'esser prode concorde fama dà sovrana lode." Cosí dice egli, e 'l giovenetto in volto tutto scintilla ed ha negli occhi il foco. Vorria già tra' nemici essere avolto, né cape in sé, né ritrovar può loco. Quinci Vafrino al capitan rivolto: "Signor," soggiunse "il sin qui detto è poco; la somma de le cose or qui si chiuda: impugneransi in te l'arme di Giuda." Di parte in parte poi tutto gli espose ciò che di fraudolente in lui si tesse: l'arme e 'l venen, l'insegne insidiose, il vanto udito, i premi e le promesse. Molto chiesto gli fu, molto rispose; breve tra lor silenzio indi successe, poscia inalzando il capitano il ciglio chiede a Raimondo: "Or qual è il tuo consiglio?" Ed egli: "È mio parer ch'a i novi albori, come concluso fu, piú non s'assaglia, ma si stringa la torre, onde uscir fuori quel ch'è là dentro a suo piacer non vaglia, e posi il nostro campo e si ristori fra tanto ad uopo di maggior battaglia. Pensa poi tu s'è meglio usar la spada con forza aperta o 'l gir tenendo a bada. Mio giudizio è però che a te convegna di te stesso curar sovra ogni cura, ché per te vince l'oste e per te regna. Chi senza te l'indrizza e l'assecura? E perché i traditor non celi insegna, mutar l'insegne a' tuoi guerrier procura. Cosí la fraude a te palese fatta sarà da quel medesmo in chi s'appiatta." Risponde il capitan: "Come hai per uso, mostri amico voler e saggia mente; ma quel che dubbio lasci, or fia conchiuso. Uscirem contra a la nemica gente, né già star deve in muro o 'n vallo chiuso il campo domator de l'Oriente. Sia da quegli empi il valor nostro esperto ne la piú aperta luce, in loco aperto. Non sosterran de le vittorie il nome, non che de' vincitor l'aspetto altero, non che l'arme; e lor forze saran dome, fermo stabilimento al nostro impero. La torre o tosto renderassi o, come altri no 'l vieti, il prenderla è leggiero." Qui il magnanimo tace e fa partita, ché 'l cader de le stelle al sonno invita. |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi @mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998