Torquato Tasso
Gerusalemme Liberata
POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO
AL SERENISSIMO SIGNORE
IL SIGNOR DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA
CANTO DECIMO
Solimano sale in groppa a un cavallo ormai senza cavaliere e anonimo si allontana dalla battaglia, disponendosi infine ad andare nel campo del Re d'Egitto, e quando tutto tace nella notte si addormenta. Gli appare in sogno il mago Ismeno, che gli promette di portarlo tra le mura di Gerusalemme; all'alba salgono su un carro reso invisibile da una nube. Meravigliato Solimano gli chiede chi sia e il mago gli parla brevemente di sé, mentre col carro passano sopra il campo cristiano. Smontano dal carro e si avviano a piedi verso il monte su cui sorge Gerusalemme, ai piedi del quale s'apre una grotta: al centro si trova una porta che nasconde un sotterraneo cammino. Arrivano in una sala dove sono a consiglio i capi arabi e il re Aladino. Solimano ascolta Aladino, Argante e Orcano, che cerca di persuadere Aladino alla prudenza. Dissoltasi la nube, appare allora Solimano, che minaccia Orcano affermando che Francesi e Arabi mai potranno vivere su una stessa terra, ed è accolto con stupore e gioia da Aladino e dagli altri. Intanto Goffredo, completate le esequie dei caduti, chiama alla presenza di pochi intimi e di Pietro l'Eremita i cinquanta cavalieri che avevano salvato le sorti della battaglia e si fa raccontare cos'era successo con Armida; parla Guglielmo, il figlio minore di Goffredo, e racconta come Armida con arti magiche aveva mutato ogni loro pensiero e chiesto che si facessero pagani e combattessero contro i Cristiani, ma tutti si ribellarono; come un giorno vi sia capitato Tancredi, che viene tenuto ancora prigioniero; come furono inviati in catene come dono al re d'Egitto, ma durante il viaggio vennero liberati da Rinaldo. Che Rinaldo sia vivo, viene confermato anche da Pietro l'Eremita che, trasfigurato in volto, predice le grandi future glorie della Casa d'Este, cui Rinaldo appartiene.
Argomento |
Al Soldan che dormìa, si mostra Ismeno, E occultamente entro a Sion l'ha posto. Quivi il vigor dell'animo, che meno Nel Re venia, costui rinfranca tosto. De' suoi Goffredo ode gli errori appieno; Ma poi che di Rinaldo ha ognun deposto, Ch'ei sia morto il timor, fa Piero aperto De' nepoti di lui le lodi e 'l merto. |
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Cosí dicendo ancor vicino scorse un destrier ch'a lui volse errante il passo; tosto al libero fren la mano ei porse e su vi salse, ancorch'afflitto e lasso. Già caduto è il cimier ch'orribil sorse, fasciando l'elmo inonorato e basso; rotta è la sopravesta, e di superba pompa regal vestigio alcun non serba. Come dal chiuso ovil cacciato viene lupo talor che fugge e si nasconde, che, se ben del gran ventre omai ripiene ha l'ingorde voragini profonde, avido pur di sangue anco fuor tiene la lingua e 'l sugge da le labra immonde, tale ei se 'n gía dopo il sanguigno strazio, de la sua cupa fame anco non sazio. E come è sua ventura, a le sonanti quadrella, ond'a lui intorno un nembo vola, a tante spade, a tante lancie, a tanti instrumenti di morte alfin s'invola, e sconosciuto pur camina inanti per quella via ch'è piú deserta e sola; e rivolgendo in sé quel che far deggia, in gran tempesta di pensieri ondeggia. Disponsi alfin di girne ove raguna oste sí poderosa il re d'Egitto, e giunger seco l'arme, e la fortuna ritentar anco di novel conflitto. Ciò prefisso tra sé, dimora alcuna non pone in mezzo e prende il camin dritto, ché sa le vie, né d'uopo ha di chi il guidi di Gaza antica a gli arenosi lidi. Né perché senta inacerbir le doglie de le sue piaghe, e grave il corpo ed egro, vien però che si posi e l'arme spoglie, ma travagliando il dí ne passa integro. Poi quando l'ombra oscura al mondo toglie i vari aspetti e i color tinge in negro, smonta e fascia le piaghe, e come pote meglio, d'un'alta palma i frutti scote; e cibato di lor, su 'l terren nudo cerca adagiare il travagliato fianco, e la testa appoggiando al duro scudo quetar i moti del pensier suo stanco. Ma d'ora in ora a lui si fa piú crudo sentire il duol de le ferite, ed anco roso gli è il petto e lacerato il core da gli interni avoltoi, sdegno e dolore. Alfin, quando già tutto intorno chete ne la piú alta notte eran le cose, vinto egli pur da la stanchezza, in Lete sopí le cure sue gravi e noiose, e in una breve e languida quiete l'afllitte membra e gli occhi egri compose; e mentre ancor dormia, voce severa gli intonò su l'orecchie in tal maniera: "Soliman, Solimano, i tuoi sí lenti riposi a miglior tempo omai riserva, ché sotto il giogo di straniere genti la patria ove regnasti ancor è serva. In questa terra dormi, e non rammenti ch'insepolte de' tuoi l'ossa conserva? ove sí gran vestigio è del tuo scorno, tu neghittoso aspetti il novo giorno?" Desto il Soldan alza lo sguardo, e vede uom che d'età gravissima a i sembianti co 'l ritorto baston del vecchio piede ferma e dirizza le vestigia erranti. "E chi sei tu," sdegnoso a lui richiede "che fantasma importuno a i viandanti rompi i brevi lor sonni? e che s'aspetta a te la mia vergngna o la vendetta?" "Io mi son un" risponde il vecchio "al quale in parte è noto il tuo novel disegno, e sí come uomo a cui di te piú cale che tu forse non pensi, a te ne vegno; né il mordace parlare indarno è tale, perché de la virtú cote è lo sdegno. Prendi in grado, signor, che 'l mio sermone al tuo pronto valor sia sferza e sprone. Or perché, s'io m'appongo, esser dée vòlto al gran re de l'Egitto il tuo camino, che inutilmente aspro viaggio tolto avrai, s'inanzi segui, io m'indovino; ché, se ben tu non vai, fia tosto accolto e tosto mosso il campo saracino, né loco è là dove s'impieghi e mostri la tua virtú contra i nemici nostri. Ma se 'n duce me prendi, entro quel muro, che da l'arme latine è intorno astretto, nel piú chiaro del dí pórti securo, senza che spada impugni, io ti prometto. Quivi con l'arme e co' disagi un duro contrasto aver ti fia gloria e diletto; difenderai la terra insin che giugna l'oste d'Egitto a rinovar la pugna." Mentre ei ragiona ancor, gli occhi e la voce de l'uomo antico il fero turco ammira, e dal volto e da l'animo feroce tutto depone omai l'orgoglio e l'ira. "Padre," risponde "io già pronto e veloce sono a seguirti: ove tu vuoi mi gira. A me sempre miglior parrà il consiglio ove ha piú di fatica e di periglio." Loda il vecchio i suoi detti; e perché l'aura notturna avea le piaghe incrudelite, un suo licor v'instilla, onde ristaura le forze e salda il sangue e le ferite. Quinci veggendo omai ch'Apollo inaura le rose che l'aurora ha colorite: "Tempo è" disse "al partir, ché già ne scopre le strade il sol ch'altrui richiama a l'opre." E sovra un carro suo, che non lontano quinci attendea, co 'l fer niceno ei siede; le briglie allenta, e con maestra mano ambo i corsieri alternamente fiede. Quei vanno sí che 'l polveroso piano non ritien de la rota orma o del piede; fumar li vedi ed anelar nel corso, e tutto biancheggiar di spuma il morso. Maraviglie dirò: s'aduna e stringe l'aer d'intorno in nuvolo raccolto, sí che 'l gran carro ne ricopre e cinge, ma non appar la nube o poco o molto, né sasso, che mural machina spinge, penetraria per lo suo chiuso e folto; ben veder ponno i duo dal curvo seno la nebbia intorno e fuori il ciel sereno. Stupido il cavalier le ciglia inarca, ed increspa la fronte, e mira fiso la nube e 'l carro ch'ogni intoppo varca veloce sí che di volar gli è aviso. L'altro, che di stupor l'anima carca gli scorge a l'atto de l'immobil viso, gli rompe quel silenzio e lui rappella, ond'ei si scote e poi cosí favella: "O chiunque tu sia, che fuor d'ogni uso pieghi natura ad opre altere e strane, e spiando i secreti, entro al piú chiuso spazii a tua voglia de le menti umane, s'arrivi co 'l saper, ch'è d'alto infuso, a le cose remote anco e lontane, deh! dimmi qual riposo o qual ruina ai gran moti de l'Asia il Ciel destina. Ma pria dimmi il tuo nome, e con qual arte far cose tu sí inusitate soglia, ché se pria lo stupor da me non parte, com'esser può ch'io gli altri detti accoglia?" Sorrise il vecchio, e disse: "In una parte mi sarà leve l'adempir tua voglia. Son detto Ismeno, e i Siri appellan mago me che de l'arti incognite son vago. Ma ch'io scopra il futuro e ch'io dispieghi de l'occulto destin gli eterni annali, troppo è audace desio, troppo alti preghi: non è tanto concesso a noi mortali. Ciascun qua giú le forze e 'l senno impieghi per avanzar fra le sciagure e i mali, ché sovente adivien che 'l saggio e 'l forte fabro a se stesso è di beata sorte. Tu questa destra invitta, a cui fia poco scoter le forze del francese impero, non che munir, non che guardar il loco che strettamente oppugna il popol fero, contra l'arme apparecchia e contra 'l foco: osa, soffri, confida; io bene spero. Ma pur dirò, perché piacer ti debbia, ciò che oscuro vegg'io quasi per nebbia. Veggio o parmi vedere, anzi che lustri molti rivolga il gran pianeta eterno, uom che l'Asia ornerà co' fatti illustri, e del fecondo Egitto avrà il governo. Taccio i pregi de l'ozio e l'arti industri, mille virtú che non ben tutte io scerno; basti sol questo a te, che da lui scosse non pur saranno le cristiane posse, ma insin dal fondo suo l'imperio ingiusto svelto sarà ne l'ultime contese, e le afflitte reliquie entro uno angusto giro sospinte e sol dal mar difese. Questi fia del tuo sangue." E qui il vetusto mago si tacque, e quegli a dir riprese: "O lui felice, eletto a tanta lode!" e parte ne l'invidia e parte gode. Soggiunse poi: "Girisi pur Fortuna o buona o rea, come è là su prescritto, ché non ha sovra me ragione alcuna e non mi vedrà mai se non invitto. Prima dal corso distornar la luna e le stelle potrà, che dal diritto torcere un sol mio passo." E in questo dire sfavillò tutto di focoso ardire. Cosí gír ragionando insin che furo là 've presso vedean le tende alzarse. Che spettacolo fu crudele e duro! E in quante forme ivi la morte apparse! Si fe' ne gli occhi allor torbido e scuro, e di doglia il Soldano il volto sparse. Ahi con quanto dispregio ivi le degne mirò giacer sue già temute insegne! E scorrer lieti i Franchi, e i petti e i volti spesso calcar de' suoi piú noti amici, e con fasto superbo a gli insepolti l'arme spogliare e gli abiti infelici; molti onorare in lunga pompa accolti gli amati corpi de gli estremi uffici, altri suppor le fiamme, e 'l vulgo misto d'Arabi e Turchi a un foco arder ha visto. Sospirò dal profondo, e 'l ferro trasse e dal carro lanciossi e correr volle, ma il vecchio incantatore a sé il ritrasse sgridando, e raffrenò l'impeto folle; e fatto che di novo ei rimontasse, drizzò il suo corso al piú sublime colle. Cosí alquanto n'andaro, insin ch'a tergo lasciàr de' Franchi il militare albergo. Smontaro allor del carro, e quel repente sparve; e presono a piedi insieme il calle ne la solita nube occultamente discendendo a sinistra in una valle, sin che giunsero là dove al ponente l'alto monte Siòn volge le spalle. Quivi si ferma il mago e poi s'accosta quasi mirando, a la scoscesa costa. Cava grotta s'apria nel duro sasso, di lunghissimi tempi avanti fatta; ma disusando, or riturato il passo era tra i pruni e l'erbe ove s'appiatta. Sgombra il mago gli intoppi, e curvo e basso per l'angusto sentiero a gir s'adatta, e l'una man precede e il varco tenta, l'altra per guida al principe appresenta. Dice allora il Soldan: "Qual via furtiva è questa tua, dove convien ch'io vada? Altra forse miglior io me n'apriva, se 'l concedevi tu, con la mia spada." "Non sdegnar," gli risponde "anima schiva, premer co 'l forte piè la buia strada, ché già solea calcarla il grande Erode, quel c'ha ne l'arme ancor sí chiara lode. Cavò questa spelonca allor che porre volse freno a i soggetti il re ch'io dico, e per essa potea da quella torre, ch'egli Antonia appellò dal chiaro amico, invisibile a tutti il piè raccòrre dentro la soglia del gran tempio antico, e quindi occulto uscir de la cittate e trarne genti ed introdur celate. Ma nota è questa via solinga e bruna or solo a me de gli uomini viventi. Per questa andremo al loco ove raguna i piú saggi a conciglio e i piú potenti il re ch'al minacciar de la fortuna, piú forse che non dée, par che paventi. Ben tu giungi a grand'uopo: ascolta e taci, poi movi a tempo le parole audaci." Cosí gli disse, e 'l cavaliero allotta co 'l gran corpo ingombrò l'umil caverna, e per le vie dove mai sempre annotta seguí colui che 'l suo camin governa. Chini pria se n'andàr, ma quella grotta piú si dilata quanto piú s'interna, sí ch'asceser con agio e tosto furo a mezzo quasi di quell'antro oscuro. Apriva allora un picciol uscio Ismeno, e se ne gian per disusata scala a cui luce mal certo e mal sereno l'aer che giú d'alto spiraglio cala. In sotterraneo chiostro al fin venieno, e salian quindi in chiara e nobil sala. Qui con lo scettro e co 'l diadema in testa mesto sedeasi il re fra gente mesta. Da la concava nube il turco fero non veduto rimira e spia d'intorno, e ode il re fra tanto, il qual primiero incomincia cosí dal seggio adorno: "Veramente, o miei fidi, al nostro impero fu il trapassato assai dannoso giorno; e caduti d'altissima speranza, sol l'aiuto d'Egitto omai n'avanza. Ma ben vedete voi quanto la speme lontana sia da sí vicin periglio. Dunque voi tutti ho qui raccolti insieme perch'ognun porti in mezzo il suo consiglio." Qui tace, e quasi in bosco aura che freme suona d'intorno un picciolo bisbiglio. Ma con la faccia baldanzosa e lieta sorgendo Argante il mormorare accheta. "O magnanimo re," fu la risposta del cavaliero indomito e feroce "perché ci tenti? e cosa a nullo ascosta chiedi, ch'uopo non ha di nostra voce? Pur dirò: sia la speme in noi sol posta; e s'egli è ver che nulla a virtú noce, di questa armiamci, a lei chiediamo aita, né piú ch'ella si voglia amiam la vita. Né parlo io già cosí perch'io dispere de l'aiuto certissimo d'Egitto, ché dubitar, se le promesse vere fian del mio re, non lece e non è dritto; ma il dico sol perché desio vedere in alcuni di noi spirto piú invitto, ch'egualmente apprestato ad ogni sorte si prometta vittoria e sprezzi morte." Tanto sol disse il generoso Argante quasi uom che parli di non dubbia cosa. Poi sorse in autorevole sembiante Orcano, uom d'alta nobiltà famosa, e già ne l'arme d'alcun pregio inante; ma or congiunto a giovanetta sposa, e lieto omai di figli, era invilito ne gli affetti di padre e di marito. Disse questi: "O signor, già non accuso il fervor di magnifiche parole, quando nasce d'ardir che star rinchiuso tra i confini del cor non può né vòle; però se 'l buon circasso a te per uso troppo in vero parlar fervido sòle, ciò si conceda a lui che poi ne l'opre il medesmo fervor non meno scopre. Ma si conviene a te, cui fatto il corso de le cose e de' tempi han sí prudente, impor colà de' tuoi consigli il morso dove costui se ne trascorre ardente, librar la speme del lontan soccorso co 'l periglio vicino, anzi presente, e con l'arme e con l'impeto nemico i tuoi novi ripari e 'l muro antico. Noi (se lece a me dir quel ch'io ne sento) siamo in forte città di sito e d'arte, ma di machine grande e violento apparato si fa da l'altra parte. Quel che sarà, non so; spero e pavento i giudizi incertissimi di Marte, e temo che s'a noi piú fia ristretto l'assedio, al fin di cibo avrem difetto. Però che quegli armenti e quelle biade ch'ieri tu ricettasti entro le mura, mentre nel campo a insanguinar le spade s'attendea solo, e fu alta ventura, picciol esca a gran fame, ampia cittade nutrir mal ponno se l'assedio dura; e forza è pur che duri, ancor che vegna l'oste d'Egitto il dí ch'ella disegna. Ma che fia, se piú tarda? Or sú, concedo che tua speme prevegna e sue promesse; la vittoria però, però non vedo liberate, o signor, le mura oppresse. Combattremo, o buon re, con quel Goffredo e con que' duci e con le genti istesse che tante volte han già rotti e dispersi gli Arabi, i Turchi, i Soriani e i Persi. E quali sian, tu 'l sai, che lor cedesti sí spesso il campo, o valoroso Argante, e sí spesso le spalle anco volgesti fidando assai ne le veloci piante; e 'l sa Clorinda teco ed io con questi ch'un piú de l'altro non convien si vante. Né incolpo alcuno io già, ché vi fu mostro quanto potea maggiore il valor nostro. E dirò pur (benché costui di morte bieco minacci e 'l vero udir si sdegni): veggio portar da inevitabil sorte il nemico fatale a certi segni, né gente potrà mai, né muro forte impedirlo cosí ch'al fin non regni; ciò mi fa dir (sia testimonio il Cielo) del signor, de la patria, amore e zelo. Oh saggio il re di Tripoli, che pace seppe impetrar da i Franchi e regno insieme! Ma il Soldano ostinato o morto or giace, or pur servil catena il piè gli preme, o ne l'essiglio timido e fugace si va serbando a le miserie estreme; e pur, cedendo parte, avria potuto parte salvar co' doni e co 'l tributo." Cosí diceva, e s'avolgea costui con giro di parole obliquo e incerto, ch'a chieder pace, a farsi uom ligio altrui già non ardia di consigliarlo aperto. Ma sdegnoso il Soldano i detti sui non potea omai piú sostener coperto, quando il mago gli disse: "Or vuoi tu darli agio, signor, ch'in tal materia parli?" "Io per me" gli risponde "or qui mi celo contra mio grado, e d'ira ardo e di scorno." Ciò disse a pena, e immantinente il velo de la nube, che stesa è lor d'intorno, si fende e purga ne l'aperto cielo, ed ei riman nel luminoso giorno, e magnanimamente in fero viso rifulge in mezzo, e lor parla improviso: "Io, di cui si ragiona, or son presente, non fugace e non timido Soldano, ed a costui ch'egli è codardo e mente m'offero di provar con questa mano. Io che sparsi di sangue ampio torrente, che montagne di strage alzai su 'l piano, chiuso nel vallo de' nemici e privo al fin d'ogni compagno, io fuggitivo? Ma se piú questi o s'altri a lui simíle, a la sua patria, a la sua fede infido, motto osa far d'accordo infame e vile, buon re, sia con tua pace, io qui l'uccido. Gli agni e i lupi fian giunti in un ovile e le colombe e i serpi in un sol nido, prima che mai di non discorde voglia noi co' Francesi alcuna terra accoglia." Tien su la spada, mentre ei sí favella, la fera destra in minaccievol atto. Riman ciascuno a quel parlar, a quella orribil faccia, muto e stupefatto. Poscia con vista men turbata e fella cortesemente inverso il re s'è tratto: "Spera," gli dice "alto signor, ch'io reco non poco aiuto: or Solimano è teco." Aladin, ch'a lui contra era già sorto, risponde: "Oh come lieto or qui ti veggio, diletto amico! Or del mio stuol ch'è morto non sento il danno; assai temea di peggio. Tu lo mio stabilire e in tempo corto puoi ridrizzar il tuo caduto seggio, se 'l Ciel no 'l vieta." Indi le braccia al collo, cosí detto, gli stese e circondollo. Finita l'accoglienza, il re concede il suo medesmo soglio al gran niceno. Egli poscia a sinistra in nobil sede si pone, ed al suo fianco alluoga Ismeno, e mentre seco parla ed a lui chiede di lor venuta, ed ei risponde a pieno, l'alta donzella ad onorar in pria vien Solimano; ogn'altro indi seguia. Seguí fra gl'altri Ormusse, il qual la schiera di quegli Arabi suoi a guidar tolse; e mentre la battaglia ardea piú fera, per disusate vie cosí s'avolse ch'aiutando il silenzio e l'aria nera lei salva al fin nella città raccolse, e con le biade e con rapiti armenti aita porse a l'affamate genti. Sol con la faccia torva e disdegnosa tacito si rimase il fer circasso, a guisa di leon quando si posa, girando gli occhi e non movendo il passo. Ma nel Soldan feroce alzar non osa Orcano il volto, e 'l tien pensoso e basso. Cosí a conciglio il palestin tiranno e 'l re de' Turchi e i cavalier qui stanno. Ma il pio Goffredo la vittoria e i vinti avea seguiti, e libere le vie, e fatto intanto a i suoi guerrieri estinti l'ultimo onor di sacre essequie e pie; ed ora a gli altri impon che siano accinti a dar l'assalto nel secondo die, e con maggiore e piú terribil faccia di guerra i chiusi barbari minaccia. E perché conosciuto avea il drapello, ch'aiutò lui contra la gente infida, esser de' suoi piú cari ed esser quello che già seguí l'insidiosa guida, e Tancredi con lor, che nel castello prigion restò de la fallace Armida, ne la presenza sol de l'Eremita e d'alcuni piú saggi a sé gli invita; e dice lor: "Prego ch'alcun racconti de' vostri brevi errori il dubbio corso, e come poscia vi trovaste pronti in sí grand'uopo a dar sí gran soccorso." Vergognando tenean basse le fronti, ch'era al cor picciol fallo amaro morso. Al fin del re britanno il chiaro figlio ruppe il silenzio, e disse alzando il ciglio: "Partimmo noi che fuor de l'urna a sorte tratti non fummo, ognun per sé nascoso, d'Amor, no 'l nego, le fallaci scorte seguendo e d'un bel volto insidioso. Per vie ne trasse disusate e torte fra noi discordi, e in sé ciascun geloso. Nutrian gli amori e i nostri sdegni (ah! tardi troppo il conosco) or parolette, or guardi. Al fin giungemmo al loco ove già scese fiamma dal cielo in dilatate falde, e di natura vendicò l'offese sovra le genti in mal oprar sí salde. Fu già terra feconda, almo paese, or acque son bituminose e calde e steril lago; e quanto ei torpe e gira, compressa è l'aria e grave il puzzo spira. Questo è lo stagno in cui nulla di greve si getta mai che giunga insino al basso, ma in guisa pur d'abete o d'orno leve l'uom vi sornuota e 'l duro ferro e 'l sasso. Siede in esso un castello, e stretto e breve ponte concede a' peregrini il passo. Ivi n'accolse, e non so con qual arte vaga è là dentro e ride ogni sua parte. V'è l'aura molle e 'l ciel sereno e lieti gli alberi e i prati e pure e dolci l'onde, ove fra gli amenissimi mirteti sorge una fonte e un fiumicel diffonde: piovono in grembo a l 'erbe i sonni queti con un soave mormorio di fronde, cantan gli augelli: i marmi io taccio e l'oro meravigliosi d'arte e di lavoro. Apprestar su l'erbetta, ov'è piú densa l'ombra e vicino al suon de l'acque chiare, fece di sculti vasi altera mensa e ricca di vivande elette e care. Era qui ciò ch'ogni stagion dispensa, ciò che dona la terra o manda il mare, ciò che l'arte condisce; e cento belle servivano al convito accorte ancelle. Ella d'un parlar dolce e d'un bel riso temprava altrui cibo mortale e rio. Or mentre ancor ciascuno a mensa assiso beve con lungo incendio un lungo oblio, sorse e disse: `Or qui riedo.' E con un viso ritornò poi non sí tranquillo e pio. Con una man picciola verga scote, tien l'altra un libro, e legge in basse note. Legge la maga, ed io pensiero e voglia sento mutar, mutar vita ed albergo. (Strana virtú) novo pensier m'invoglia: salto ne l'acqua, e mi vi tuffo e immergo. Non so come ogni gamba entro s'accoglia, come l'un braccio e l'altro entri nel tergo, m'accorcio e stringo, e su la pelle cresce squamoso il cuoio; e d'uom son fatto un pesce. Cosí ciascun de gli altri anco fu vòlto e guizzò meco in quel vivace argento. Quale allor mi foss'io, come di stolto vano e torbido sogno, or me 'n rammento. Piacquele al fin tornarci il proprio volto; ma tra la meraviglia e lo spavento muti eravam, quando turbata in vista in tal guisa ne parla e ne contrista: `Ecco, a voi noto è il mio poter' ne dice `e quanto sopra voi l'imperio ho pieno. Pende dal mio voler ch'altri infelice perda in prigione eterna il ciel sereno, altri divenga augello, altri radice faccia e germogli nel terrestre seno, o che s'induri in scelce, o in molle fonte si liquefaccia, o vesta irsuta fronte. Ben potete schivar l'aspro mio sdegno, quando servire al mio piacer v'aggrade: farvi pagani, e per lo nostro regno contra l'empio Buglion mover le spade.' Ricusàr tutti ed aborrír l'indegno patto; solo a Rambaldo il persuade. Noi (ché non val difesa) entro una buca di lacci avolse ove non è che luca. Poi nel castello istesso a sorte venne Tancredi, ed egli ancor fu prigioniero. Ma poco tempo in carcere ci tenne la falsa maga; e (s'io n'intesi il vero) di seco trarne da quell'empia ottenne del signor di Damasco un messaggiero, ch'al re d'Egitto in don fra cento armati ne conduceva inermi e incatenati. Cosí ce n'andavamo; e come l'alta providenza del Cielo ordina e move, il buon Rinaldo, il qual piú sempre essalta la gloria sua con opre eccelse e nove, in noi s'aviene, e i cavalieri assalta nostri custodi e fa l'usate prove: gli uccide e vince, e di quell'arme loro fa noi vestir che nostre in prima foro. Io 'l vidi, e 'l vider questi; e da lui porta ci fu la destra, e fu sua voce udita. Falso è il romor che qui risuona e porta sí rea novella, e salva è la sua vita; ed oggi è il terzo dí che con la scorta d'un peregrin fece da noi partita per girne in Antiochia, e pria depose l'arme che rotte aveva e sanguinose." Cosí parlava, e l'Eremita intanto volgeva al cielo l'una e l'altra luce. Non un color, non serba un volto: oh quanto piú sacro e venerabile or riluce! Pieno di Dio, rapto dal zelo, a canto a l'angeliche menti ei si conduce; gli si svela il futuro, e ne l'eterna serie de gli anni e de l'età s'interna. e la bocca sciogliendo in maggior suono scopre le cose altrui ch'indi verranno. Tutti conversi a le sembianze, al tuono de l'insolita voce attenti stanno. "Vive" dice "Rinaldo, e l'altre sono arti e bugie di femminile inganno. Vive, e la vita giovanetta acerba a piú mature glorie il Ciel riserba. Presagi sono e fanciulleschi affanni questi ond'or l'Asia lui conosce e noma. Ecco chiaro vegg'io, correndo gli anni, ch'egli s'oppone a l'empio Augusto e 'l doma e sotto l'ombra de gli argentei vanni l'aquila sua copre la Chiesa e Roma, che de la fèra avrà tolte a gli artigli; e ben di lui nasceran degni i figli. De' figli i figli, e chi verrà da quelli, quinci avran chiari e memorandi essempi; e da' Cesari ingiusti e da' rubelli difenderan le mitre e i sacri tèmpi. difender gli innocenti e punir gli empi, fian l'arti lor: cosí verrà che vóle l'aquila estense oltra le vie del sole. E dritto è ben che, se 'l ver mira e 'l lume, ministri a Pietro i folgori mortali. U' per Cristo si pugni, ivi le piume spiegar dée sempre invitte e trionfali, ché ciò per suo nativo alto costume dielle il Cielo e per leggi a lei fatali. Onde piace là su che in questa degna impresa, onde partí, chiamato vegna." Qui dal soggetto vinto il saggio Piero stupido tace, e 'l cor ne l'alma faccia troppo gran cose de l'estense altero valor ragiona, onde tutto altro spiaccia. Sorge intanto la notte, e 'l velo nero per l'aria spiega e l'ampia terra abbraccia; vansene gli altri e dan le membra al sonno, ma i suoi pensieri in lui dormir non ponno. |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi @mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998