Torquato Tasso
Gerusalemme Liberata
POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO
AL SERENISSIMO SIGNORE
IL SIGNOR DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA
CANTO QUATTORDICESIMO
Durante la notte Dio vigila dal Cielo e manda il suo sguardo favorevole a Goffredo che vede in sogno Ugone, che gli consiglia di permettere il ritorno di Rinaldo. Il giorno dopo Guelfo, per ispirazione di Dio, propone a Goffredo, che acconsente, di richiamare l'eroe. Si offrono Carlo ed Ubaldo, che, dopo essere stati ricevuti da Pietro l'Eremita, vanno alla ricerca di Rinaldo; si dirigono verso il mare, raggiungendo Ascalona: qui appare loro un mago, un vecchio che era nato di fede pagana e li conduce con sé nella sua grotta sottomarina, nel grembo immenso della terra dove si convertì al cristianesimo e acquisì la sua grande cultura. Parlando di sé, li conduce nella meravigliosa dimora in cui abita e narra come Armida prese prigioniero Rinaldo e con quali arti lo trattiene; svela che si nasconde nell'oceano, nell'isola Fortuna, dove nessuna nave arriva mai, che incontreranno una giovinetta che tenterà di ammaliarli; infine raggiungeranno il castello posto sopra una montagna, dove troveranno Rinaldo. Finito di parlare, li porta a riposare.
Argomento |
Intende
in sogno il Capitan Franzese, Come Dio vuol che si richiami all'oste Il buon Rinaldo: ond'egli poi cortese De' principi risponde alle proposte. Ma Piero che già prima il tutto intese, I messi invia là dov'han cortese oste Un mago; il qual lor pria d'Armia scopre Gli occulti inganni indi gli aiuta all'opre. |
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Usciva omai
dal molle e fresco grembo de la gran madre sua la notte oscura, aure lievi portando e largo nembo di sua rugiada preziosa e pura; e scotendo del vel l'umido lembo, ne spargeva i fioretti e la verdura, e i venticelli, dibattendo l'ali, lusingavano il sonno de' mortali. Ed essi ogni pensier che 'l dí conduce tuffato aveano in dolce oblio profondo. Ma vigilando ne l'eterna luce sedeva al suo governo il Re del mondo, e rivolgea dal Cielo al franco duce lo sguardo favorevole e giocondo; quinci a lui ne inviava un sogno cheto perché gli rivelasse alto decreto. Non lunge a l'auree porte ond'esce il sole è cristallina porta in oriente, che per costume inanti aprir si sòle che si dischiuda l'uscio al dí nascente. Da questa escono i sogni, i quai Dio vòle mandar per grazia a pura e casta mente; da questa or quel ch'al pio Buglion discende l'ali dorate inverso lui distende. Nulla mai vision nel sonno offerse altrui sí vaghe imagini o sí belle come ora questa a lui, la qual gli aperse i secreti del cielo e de le stelle; onde, sí come entro uno speglio, ei scerse ciò che là suso è veramente in elle. Pareagli esser traslato in un sereno candido e d'auree fiamme adorno e pieno; e mentre ammira in quell'eccelso loco l'ampiezza, i moti, i lumi e l'armonia, ecco cinto di rai, cinto di foco, un cavaliero incontra a lui venia, e 'n suono, a lato a cui sarebbe roco qual piú dolce è qua giú, parlar l'udia: "Goffredo, non m'accogli? e non ragione al fido amico? or non conosci Ugone?" Ed ei gli rispondea: "Quel novo aspetto che par d'un sol mirabilmente adorno, da l'antica notizia il mio intelletto sviat' ha sí che tardi a lui ritorno." Gli stendea poi con dolce amico affetto tre fiate le braccia al collo intorno, e tre fiate invan cinta l'imago fuggia, qual leve sogno od aer vago. Sorridea quegli, e: "Non già, come credi," dicea "son cinto di terrena veste: semplice forma e nudo spirto vedi qui cittadin de la città celeste. Questo è tempio di Dio: qui son le sedi de' suoi guerrieri, e tu avrai loco in queste." "Quando ciò fia?" rispose "il mortal laccio sciolgasi omai, s'al restar qui m'è impaccio." "Ben" replicogli Ugon "tosto raccolto ne la gloria sarai de' trionfanti; pur militando converrà che molto sangue e sudor là giú tu versi inanti. Da te prima a i pagani esser ritolto deve l'imperio de' paesi santi, e stabilirsi in lor cristiana reggia in cui regnare il tuo fratel poi deggia. Ma perché piú lo tuo desir s'avvive ne l'amor di qua su, piú fiso or mira questi lucidi alberghi e queste vive fiamme che mente eterna informa e gira, e 'n angeliche tempre odi le dive sirene e 'l suon di lor celeste lira. China" poi disse (e gli additò la terra) "gli occhi a ciò che quel globo ultimo serra. Quanto è vil la cagion ch'a la virtude umana è colà giú premio e contrasto! in che picciolo cerchio e fra che nude solitudini è stretto il vostro fasto! Lei come isola il mare intorno chiude, e lui, ch'or ocean chiamat'è or vasto, nulla eguale a tai nomi ha in sé di magno, ma è bassa palude e breve stagno." Cosí l'un disse; e l'altro in giuso i lumi volse, quasi sdegnando, e ne sorrise, ché vide un punto sol, mar, terre e fiumi, che qui paion distinti in tante guise, ed ammirò che pur a l'ombre, a i fumi, la nostra folle umanità s'affise, servo imperio cercando e muta fama, né miri il ciel ch'a sé n'invita e chiama. Onde rispose: "Poi ch'a Dio non piace del mio carcer terreno anco disciorme, prego che del camin, ch'è men fallace fra gli errori del mondo, or tu m'informe." "È" replicogli Ugon "la via verace questa che tieni; indi non torcer l'orme: sol che richiami dal lontano essiglio il figliuol di Bertoldo io ti consiglio. Perché se l'alta Providenza elesse te de l'impresa sommo capitano, destinò insieme ch'egli esser dovesse de' tuoi consigli essecutor soprano. A te le prime parti, a lui concesse son le seconde: tu sei capo, ei mano di questo campo; e sostener sua vece altrui non pote, e farlo a te non lece. A lui sol di troncar non fia disdetto il bosco c'ha gli incanti in sua difesa; e da lui il campo tuo che, per difetto di gente, inabil sembra a tanta impresa, e par che sia di ritirarsi astretto, prenderà maggior forza a nova impresa; e i rinforzati muri e d'Oriente supererà l'essercito possente." Tacque, e 'l Buglion rispose: "Oh quanto grato fòra a me che tornasse il cavaliero! Voi che vedete ogni pensier celato, sapete s'amo lui, se dico il vero. Ma di', con quai proposte od in qual lato si deve a lui mandarne il messaggiero? Vuoi ch'io preghi o comandi? e come questo atto sarà legitimo ed onesto?" Allor ripigliò l'altro: "Il Rege eterno, che te di tante somme grazie onora, vuol che da quegli onde ti diè il governo tu sia onorato e riverito ancora. Però non chieder tu (né senza scherno forse del sommo imperio il chieder fòra), ma richiesto concedi; ed al perdono scendi degli altrui preghi al primo suono. Guelfo ti pregherà (Dio sí l'inspira) ch'assolva il fer garzon di quell'errore in cui trascose per soverchio d'ira, sí che al campo egli torni ed al suo onore. E bench'or lunge il giovene delira e vaneggia ne l'ozio e ne l'amore, non dubitar però che 'n pochi giorni opportuno a grand'uopo ei non ritorni; ché 'l vostro Piero, a cui lo Ciel comparte l'alta notizia de' secreti sui, saprà drizzare i messaggieri in parte ove certe novelle avran di lui, e sarà lor dimostro il modo e l'arte di liberarlo e di condurlo a vui. Cosí al fin tutti i tuoi compagni erranti ridurrà il Ciel sotto i tuoi segni santi. Or chiuderò il mio dir con una breve conclusion che so ch'a te fia cara: sarà il tuo sangue al suo commisto, e deve progenie uscirne gloriosa e chiara." Qui tacque, e sparve come fumo leve al vento o nebbia al sole arida e rara; e sgombrò il sonno, e gli lasciò nel petto di gioia e di stupor confuso affetto. Apre allora le luci il pio Buglione e nato vede e già cresciuto il giorno, onde lascia i riposi, e sovrapone l'arme a le membra faticose intorno. E poco stante a lui nel padiglione venieno i duci al solito soggiorno, ove a consiglio siedono, e per uso ciò ch'altrove si fa quivi è concluso. Quivi il buon Guelfo, che 'l novel pensiero infuso avea ne l'inspirata mente, incominciando a ragionar primiero disse a Goffredo: "O principe clemente, perdono a chieder ne vegn'io, ch'in vero è perdon di peccato anco recente, onde potrà parer per aventura frettolosa dimanda ed immatura; ma pensando che chiesto al pio Goffredo per lo forte Rinaldo è tal perdono, e riguardando a me che in grazia il chiedo che vile a fatto intercessor non sono, agevolmente d'impetrar mi credo questo ch'a tutti fia giovevol dono. Deh! consenti ch'ei rieda e che, in ammenda del fallo, in pro comune il sangue spenda. E chi sarà, s'egli non è, quel forte ch'osi troncar le spaventose piante? chi girà incontra a i rischi de la morte con piú intrepido petto e piú costante? Scoter le mura ed atterrar le porte vedrailo, e salir solo a tutti inante. Rendi al tuo campo omai, rendi per Dio lui ch'è sua alta speme e suo desio. Rendi il nipote a me, sí valoroso e pronto essecutor rendi a te stesso; né soffrir ch'egli torpa in vil riposo, ma rendi insieme la sua gloria ad esso. Segua il vessillo tuo vittorioso, sia testimonio a sua virtú concesso, faccia opre di sé degne in chiara luce e rimirando te maestro e duce." Cosí pregava, e ciascun altro i preghi con favorevol fremito seguia. Onde Goffredo allor, quasi egli pieghi la mente a cosa non pensata in pria, "Come esser può" dicea "che grazia i' neghi che da voi si dimanda e si desia? Ceda il rigore, e sia ragione e legge ciò che 'l consenso universale elegge. Torni Rinaldo, e da qui inanzi affrene piú moderato l'impeto de l'ire, e risponda con l'opre a l'alta spene di lui concetta ed al comun desire. Ma il richiamarlo, o Guelfo, a te conviene: frettoloso egli fia, credo, al venire; tu scegli il messo, e tu l'indrizza dove pensi che 'l fero giovene si trove." Tacque, e disse sorgendo il guerrier dano: "Esser io chieggio il messaggier che vada, né ricuso camin dubbio o lontano per far il don de l'onorata spada." Questi è di cor fortissimo e di mano, onde al buon Guelfo assai l'offerta aggrada: vuol che sia l'un de' messi e che sia l'altro Ubaldo, uom cauto ed aveduto e scaltro. Veduti Ubaldo in giovenezza e cerchi vari costumi avea, vari paesi, peregrinando da i piú freddi cerchi del nostro mondo a gli Etiopi accesi, e come uom che virtute e senno merchi, le favelle, l'usanze e i riti appresi; poscia in matura età da Guelfo accolto fu tra' compagni, e caro a lui fu molto. A tai messaggi l'onorata cura di richiamar l'alto campion si diede; e gli indrizzava Guelfo a quelle mura tra cui Boemondo ha la sua regia sede, ché per publica fama, e per secura opinion, ch'egli vi sia si crede. Ma 'l buon romito, che lor mal diretti conosce, entra fra loro e turba i detti, e dice: "O cavalier, seguendo il grido de la fallace opinion vulgare, duce seguite temerario e infido che vi fa gire indarno e traviare. Or d'Ascalona nel propinquo lido itene, dove un fiume entra nel mare. Quivi fia che v'appaia uom nostro amico: credete a lui; ciò che diravvi, io 'l dico. Ei molto per sé vede, e molto intese del preveduto vostro alto viaggio (già gran tempo ha) da me: so che cortese altrettanto vi fia quanto egli è saggio." Cosí lor disse: e piú da lui non chiese Carlo o l'altro che seco iva messaggio, ma furo ubidienti a le parole che spirito divin dettar gli suole. Preser commiato, e sí il desio gli sprona che, senza indugio alcun posti in camino, drizzano il lor corso ad Ascalona dove a i lidi si frange il mar vicino. E non udian ancor come risuona il roco ed alto fremito marino, quando giunsero a un fiume il qual di nova acqua accresciuto è per novella piova, sí che non può capir dentro al suo letto, e se 'n va piú che stral corrente e presto. Mentre essi stan sospesi, a lor d'aspetto venerabile appare un vecchio onesto, coronato di faggio, in lungo e schietto vestir che di lin candido è contesto. Scote questi una verga, e 'l fiume calca co' piedi asciutti e contra il corso il valca. Sí come soglion là vicino al polo, s'avien che 'l verno i fiumi agghiacci e indure, correr su 'l Ren le villanelle a stuolo con lunghi strisci e sdrucciolar secure, cosí ei ne vien sovra l'instabil suolo di queste acque non gelide e non dure; e tosto colà giunse onde in lui fisse tenean le luci i due guerrieri, e disse: "Amici, dura e faticosa inchiesta seguite; e d'uopo è ben ch'altri vi guidi, ché 'l cercato guerrier lunge è da questa terra in paesi incogniti ed infidi. Quanto, oh quanto de l'opra anco vi resta! quanti mar correrete e quanti lidi! E convien che si stenda il cercar vostro oltre i confini ancor del mondo nostro. Ma non vi spiaccia entrar ne le nascose spelonche ov'ho la mia secreta sede, ch'ivi udrete da me non lievi cose e ciò ch'a voi saper piú si richiede." Disse, e ch'a lor dia loco a l'acqua impose; ed ella tosto si ritira e cede, e quinci e quindi di montagna in guisa curvata pende e 'n mezzo appar divisa. Ei, presili per man, ne le piú interne profondità sotto del rio lor mena. Debile e incerta luce ivi si scerne, qual tra boschi di Cinzia ancor non piena; ma pur gravide d'acqua ampie caverne veggiono, onde tra noi sorge ogni vena la qual rampilli in fonte, o in fiume vago discorra, o stagni o si dilati in lago. E veder ponno onde il Po nasca ed onde Idaspe, Gange, Eufrate, Istro derivi, ond'esca pria la Tana, e non asconde gli occulti suoi princípi il Nilo quivi. Trovano un rio piú sotto, il qual diffonde vivaci zolfi e vaghi argenti e vivi; questi il sol poi raffina, e 'l licor molle stringe in candide masse e in auree zolle. E miran d'ogni intorno il ricco fiume di care pietre il margine dipinto; onde, come a piú fiaccole s'allume, splende quel loco, e 'l fosco orror n'è vinto. Quivi scintilla con ceruleo lume il celeste zafiro ed il giacinto; vi fiammeggia il carbonchio, e luce il saldo diamante, e lieto ride il bel smeraldo. Stupidi i guerrier vanno e ne le nove cose sí tutto il lor pensier s'impiega che non fanno alcun motto. Al fin pur move la voce Ubaldo e la sua scorta prega: "Deh, padre, dinne ove noi siamo ed ove ci guidi, e tua condizion ne spiega, ch'io non so se 'l ver miri o sogno od ombra, cosí alto stupore il cor m'ingombra." Risponde: "Sète voi nel grembo immenso de la terra, che tutto in sé produce; né già potreste penetrar nel denso de le viscere sue senza me duce. Vi scòrgo al mio palagio, il qual accenso tosto vedrete di mirabil luce. Nacqui io pagan, ma poi ne le sant'acque rigenerarmi a Dio per grazia piacque. Né in virtú fatte son d'angioli stigi l'opere mie meravigliose e conte (tolga Dio ch'usi note o suffumigi per isforzar Cocito e Flegetonte), ma spiando me 'n vo' da' lor vestigi qual in sé virtú celi o l'erba o 'l fonte, e gli altri arcani di natura ignoti contemplo, e de le stelle i vari moti. Però che non ognor lunge dal cielo tra sotterranei chiostri è la mia stanza, ma su 'l Libano spesso e su 'l Carmelo in aerea magion fo dimoranza; ivi spiegansi a me senza alcun velo Venere e Marte in ogni lor sembianza, e veggio come ogn'altra o presto o tardi roti, o benigna o minaccievol guardi. E sotto i piè mi veggio or folte or rade le nubi, or negre ed or pinte da Iri; e generar le pioggie e le rugiade risguardo, e come il vento obliquo spiri, come il folgor s'infiammi e per quai strade tortuose in giú rispinto ei si raggiri; scorgo comete e fochi altri sí presso che soleva invaghir già di me stesso. Di me medesmo fui pago cotanto ch'io stimai già che 'l mio saper misura certa fosse e infallibile di quanto può far l'alto Fattor de la natura; ma quando il vostro Piero al fiume santo m'asperse il crine e lavò l'alma impura, drizzò piú su il mio guardo, e 'l fece accorto ch'ei per se stesso è tenebroso e corto. Conobbi allor ch'augel notturno al sole è nostra mente a i rai del primo Vero, e di me stesso risi e de le fole che già cotanto insuperbir mi fèro; ma pur seguito ancor, come egli vòle, le solite arti e l'uso mio primiero. Ben son in parte altr'uom da quel ch'io fui, ch'or da lui pendo e mi rivolgo a lui, e in lui m'acqueto. Egli comanda e insegna, mastro insieme e signor sommo e sovrano, né già per nostro mezzo oprar disdegna cose degne talor de la sua mano. Or sarà cura mia ch'al campo vegna l'invitto eroe dal suo carcer lontano, ch'ei la m'impose; e già gran tempo aspetto il venir vostro, a me per lui predetto." Cosí con lor parlando, al loco viene ov'egli ha il suo soggiorno e 'l suo riposo. Questo è in forma di speco e in sé contiene camare e sale, grande e spazioso. E ciò che nudre entro le ricche vene di piú chiaro la terra e prezioso, splende ivi tutto; ed ei n'è in guisa ornato ch'ogni suo fregio è non fatto, ma nato. Non mancàr qui cento ministri e cento che accorti e pronti a servir gli osti foro, né poi in mensa magnifica d'argento mancàr gran vasi e di cristallo e d'oro; ma quando sazio il natural talento fu de' cibi e la sete estinta in loro: "Tempo è ben" disse a i cavalieri il mago "che 'l maggior desir vostro omai sia pago." Quivi ricominciò: "L'opre e le frodi note in parte a voi son de l'empia Armida: come ella al campo venne, e con quai modi molti guerrier ne trasse e lor fu guida. Sapete ancor che di tenaci nodi gli avinse poscia, albergatrice infida, e ch'indi a Gaza gli inviò con molti custodi, e che tra via furon disciolti. Or vi narrerò quel ch'appresso occorse, vera istoria da voi non anco intesa. Poi che la maga rea vide ritòrse la preda sua, già con tant'arte presa, ambe le mani per dolor si morse e fra sé disse di disdegno accesa: "Ah! vero unqua non fia che d'aver tanti miei prigion liberati egli si vanti. Se gli altri sciolse, ei serva ed ei sostegna le pene altrui serbate e 'l lungo affanno; né questo anco mi basta: i' vo' che vegna su gli altri tutti universale il danno." Cosí tra sé dicendo, ordir disegna questo ch'or udirete iniquo inganno. Viensene al loco ove Rinaldo vinse in pugna i suoi guerrieri, e parte estinse. Quivi egli avendo l'arme sue deposto, indosso quelle d'un pagan si pose; forse perché bramava irsene ascosto sotto insegne men note e men famose. Prese l'armi la maga, e in esse tosto un tronco busto avolse e poi l'espose; l'espose in ripa a un fiume ove doveva stuol de' Franchi arrivar, e 'l prevedeva. E questo antiveder potea ben ella che mandar mille spie solea d'intorno, onde spesso del campo avea novella e s'altri indi partiva o fea ritorno; oltre che con gli spirti anco favella sovente, e fa con lor lungo soggiorno. Collocò dunque il corpo morto in parte molto opportuna a sua ingannevol arte. Non lunge un sagacissimo valletto pose, di panni pastorai vestito, e impose lui ciò ch'esser fatto o detto fintamente doveva; e fu essequito. Questi parlò co' vostri, e di sospetto sparse quel seme in lor ch'indi nutrito fruttò risse e discordie, e quasi al fine sediziose guerre e cittadine. Ché fu, com'ella disegnò, creduto per opra del Buglion Rinaldo ucciso, benché alfine il sospetto a torto avuto del ver si dileguasse al primo aviso. Cotal d'Armida l'artificio astuto primieramente fu qual io diviso. Or udirete ancor come seguisse poscia Rinaldo, e quel ch'indi avenisse. Qual cauta cacciatrice, Armida aspetta Rinaldo al varco. Ei su l'Oronte giunge, ove un rio si dirama e, un'isoletta formando, tosto a lui si ricongiunge; e 'n su la riva una colonna eretta vede, e un picciol battello indi non lunge. Fisa egli tosto gli occhi al bel lavoro del bianco marmo e legge in lettre d'oro: "O chiunque tu sia, che voglia o caso peregrinando adduce a queste sponde, meraviglie maggior l'orto o l'occaso non ha di ciò che l'isoletta asconde. Passa, se vuoi vederla." È persuaso tosto l'incauto a girne oltra quell'onde; e perché mal capace era la barca, gli scudieri abbandona ed ei sol varca. Come è là giunto, cupido e vagante volge intorno lo sguardo, e nulla vede fuor ch'antri ed acque e fiori ed erbe e piante, onde quasi schernito esser si crede; ma pur quel loco è cosí lieto e in tante guise l'alletta ch'ei si ferma e siede, e disarma la fronte e la ristaura al soave spirar di placid'aura. Il fiume gorgogliar fra tanto udio con novo suono, e là con gli occhi corse, e mover vide un'onda in mezzo al rio che in se stessa si volse e si ritorse; e quinci alquanto d'un crin biondo uscio, e quinci di donzella un volto sorse, e quinci il petto e le mammelle, e de la sua forma infin dove vergogna cela. Cosí dal palco di notturna scena o ninfa o dea, tarda sorgendo, appare. Questa, benché non sia vera sirena ma sia magica larva, una ben pare di quelle che già presso a la tirrena piaggia abitàr l'insidioso mare; né men ch'in viso bella, in suono è dolce, e cosí canta, e 'l cielo e l'aure molce: `O giovenetti, mentre aprile e maggio v'ammantan di fiorite e verdi spoglie, di gloria e di virtú fallace raggio la tenerella mente ah non v'invoglie! Solo chi segue ciò che piace è saggio, e in sua stagion de gli anni il frutto coglie. Questo grida natura. Or dunque voi indurarete l'alma a i detti suoi? Folli, perché gettate il caro dono, che breve è sí, di vostra età novella? Nome, e senza soggetto idoli sono ciò che pregio e valore il mondo appella. La fama che invaghisce a un dolce suono voi superbi mortali, e par sí bella, è un'ecco, un sogno, anzi del sogno un'ombra, ch'ad ogni vento si dilegua e sgombra. Goda il corpo sicuro, e in lieti oggetti l'alma tranquilla appaghi i sensi frali; oblii le noie andate, e non affretti le sue miserie in aspettando i mali. Nulla curi se 'l ciel tuoni o saetti, minacci egli a sua voglia e infiammi strali. Questo è saver, questa è felice vita: sí l'insegna natura e sí l'addita.' Sí canta l'empia, e 'l giovenetto al sonno con note invoglia sí soavi e scórte. Quel serpe a poco a poco, e si fa donno sovra i sensi di lui possente e forte; né i tuoni omai destar, non ch'altri, il ponno da quella queta imagine di morte. Esce d'aguato allor la falsa maga e gli va sopra, di vendetta vaga. Ma quando in lui fissò lo sguardo e vide come placido in vista egli respira, e ne' begli occhi un dolce atto che ride, benché sian chiusi (or che fia s'ei li gira?), pria s'arresta sospesa, e gli s'asside poscia vicina, e placar sente ogn'ira mentre il risguarda; e 'n su la vaga fronte pende omai sí che par Narciso al fonte. E quei ch'ivi sorgean vivi sudori accoglie lievemente in un suo velo, e con un dolce ventillar gli ardori gli va temprando de l'estivo cielo. Cosí (chi 'l crederia?) sopiti ardori d'occhi nascosi distempràr quel gelo che s'indurava al cor piú che diamante, e di nemica ella divenne amante. Di ligustri, di gigli e de le rose le quai fiorian per quelle piaggie amene, con nov'arte congiunte, indi compose lente ma tenacissime catene. Queste al collo, a le braccia, a i piè gli pose: cosí l'avinse e cosí preso il tiene; quinci, mentre egli dorme, il fa riporre sovra un suo carro, e ratta il ciel trascorre. Né già ritorna di Damasco al regno, né dove ha il suo castello in mezzo a l'onde; ma ingelosita di sí caro pegno, e vergognosa del suo amor, s'asconde ne l'oceano immenso, ove alcun legno rado, o non mai, va de le nostre sponde, fuor tutti i nostri lidi; e quivi eletta per solinga sua stanza è un'isoletta. Un'isoletta la qual nome prende con le vicine sue da la Fortuna. Quinci ella in cima a una montagna ascende disabitata e d'ombre oscura e bruna, e per incanto a lei nevose rende le spalle e i fianchi, e senza neve alcuna gli lascia il capo verdeggiante e vago, e vi fonda un palagio appresso un lago, ove in perpetuo april molle amorosa vita seco ne mena il suo diletto. Or da cosí lontana e cosí ascosa prigion trar voi dovete il giovenetto, e vincer de la timida e gelosa le guardie, ond'è difeso il monte e 'l tetto; e già non mancherà chi là vi scòrga, e chi per l'alta impresa arme vi porga. Trovarete, del fiume a pena sorti, donna giovin di viso, antica d'anni, ch'a i lunghi crini in su la fronte attorti fia nota ed al color vario de' panni. Questa per l'alto mar fia che vi porti piú ratta che non spiega aquila i vanni, piú che non vola il folgore; né guida la trovarete al ritornar men fida. A piè del monte ove la maga alberga, sibilando strisciar novi pitoni e cinghiali arrizzar l'aspre lor terga ed aprir la gran bocca orsi e leoni vedrete; ma scotendo una mia verga, temeranno appressarsi ove ella suoni. Poi via maggior (se dritto il ver s'estima) si troverà il periglio in su la cima. Un fonte sorge in lei che vaghe e monde ha l'acque sí che i riguardanti asseta; ma dentro a i freddi suoi cristalli asconde di tòsco estran malvagità secreta, ch'un picciol sorso di sue lucide onde inebria l'alma tosto e la fa lieta, indi a rider uom move, e tanto il riso s'avanza alfin ch'ei ne rimane ucciso. Lunge la bocca disdegnosa e schiva torcete voi da l'acque empie omicide, né le vivande poste in verde riva v'allettin poi, né le donzelle infide che voce avran piacevole e lasciva e dolce aspetto che lusinga e ride; ma voi, gli sguardi e le parole accorte sprezzando, entrate pur ne l'alte porte. Dentro è di muri inestricabil cinto che mille torce in sé confusi giri, ma in breve foglio io ve 'l darò distinto, sí che nessun error fia che v'aggiri. Siede in mezzo un giardin del labirinto che par che da ogni fronde amore spiri; quivi in grembo a la verde erba novella giacerà il cavaliero e la donzella. Ma come essa lasciando il caro amante in altra parte il piede avrà rivolto, vuo' ch'a lui vi scopriate, e d'adamante un scudo ch'io darò gli alziate al volto, sí ch'egli vi si specchi, e 'l suo sembiante veggia e l'abito molle onde fu involto, ch'a tal vista potrà vergogna e sdegno scacciar dal petto suo l'amor indegno. Altro che dirvi omai nulla m'avanza se non ch'assai securi ir ne potrete e penetrar de l'intricata stanza ne le piú interne parti e piú secrete, perché non fia che magica possanza a voi ritardi il corso o 'l passo viete; né potrà pur, cotal virtú vi guida, il giunger vostro antiveder Armida. Né men secura da gli alberghi suoi l'uscita vi sarà poscia e 'l ritorno. Ma giunge omai l'ora del sonno, e voi sorger diman dovete a par co 'l giorno." Cosí lor disse, e li menò dopoi ove essi avean la notte a far soggiorno. Ivi lasciando lor lieti e pensosi, si ritrasse il buon vecchio a i suoi riposi. |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi @mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998