Torquato Tasso
Gerusalemme Liberata
POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO
AL SERENISSIMO SIGNORE
IL SIGNOR DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA
CANTO QUINDICESIMO
All'alba, il mago d'Ascalona accomiata i due cavalieri dopo aver dato loro un foglio, uno scudo e una verga. Sono accolti nella barca guidata dalla Fortuna, cominciano il viaggio attraverso il Mediterraneo, e sulle spiagge di Gaza e verso l'interno vedono le nuove truppe che si stanno riunendo per muovere contro l'esercito cristiano a Gerusalemme. Attraversano il Mediterraneo, passano oltre le rovine della grande Cartagine e dopo quattro giorni, oltrepassate le colonne d'Ercole, cominciano la navigazione nell'Oceano; chiedono alla Fortuna se altri mai hanno già intrapreso la navigazione nell'aperto Oceano; e la donna parla di Ercole e soprattutto di Ulisse, per cui è ignoto il mare che stanno solcando. Ma un giorno un uomo, ligure, di nome Colombo, lo attraverserà. Giungono finalmente nelle isole Felici, sette abitate e tre disabitate; sbarcano nell'isola dove si trova il palazzo d'Armida e s'incamminano verso un alto monte, vincendo via via gli ostacoli che loro si presentano per mezzo dei talismani del mago (un serpente con la verga, un leone con un fischio). Salgono il monte e giungono presso il fonte del riso, che contiene pericoli mortali, rappresentati da due donzelle nude che nuotano nell'acqua e che cercano di allettarli a sè; ma memori dei consigli ricevuti, essi passano oltre.
Argomento |
Dal Mago instrutti i duo guerrier sen vanno, Dove il pino fatal gli attende in porto: Spiegan la vela, e pria del gran Tiranno D'Egitto i legni e l'apparecchio han scorto: Poi tale il vento, e tale il nocchiero hanno, Che ben lungo viaggio estiman corto. All'isola remota alfine spinti, Da lor le forze sono, e i vezzi vinti. |
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Già richiamava il bel nascente raggio a l'opre ogni animal ch'in terra alberga, quando venendo a i due guerrieri il saggio portò il foglio e lo scudo e l'aurea verga. "Accingetevi" disse "al gran viaggio prima che 'l dí, che spunta, omai piú s'erga. Eccovi qui quanto ho promesso e quanto può de la maga superar l'incanto." Erano essi già sorti e l'arme intorno a le robuste membra avean già messe, onde per vie che non rischiara il giorno tosto seguono il vecchio, e son l'istesse vestigia ricalcate or nel ritorno che furon prima nel venire impresse; ma giunti al letto del suo fiume: "Amici, io v'accommiato:" ei disse "ite felici." Gli accoglie il rio ne l'alto seno, e l'onda soavemente in su gli spinge e porta, come suol inalzar leggiera fronda la qual da violenza in giú fu torta, e poi gli espon sovra la molle sponda. Quinci miràr la già promessa scorta, vider picciola nave e in poppa quella che guidar li dovea fatal donzella. Crinita fronte essa dimostra, e ciglia cortesi e favorevoli e tranquille; e nel sembiante a gli angioli somiglia, tanta luce ivi par ch'arda e sfaville. La sua gonna or azzurra ed or vermiglia diresti, e si colora in guise mille, sí ch'uom sempre diversa a sé la vede quantunque volte a riguardarla riede. Cosí piuma talor, che di gentile amorosa colomba il collo cinge, mai non si scorge a se stessa simile, ma in diversi colori al sol si tinge. Or d'accesi rubin sembra un monile, or di verdi smeraldi il lume finge, or insieme gli mesce, e varia e vaga in cento modi i riguardanti appaga. "Entrate," dice "o fortunati, in questa nave ond'io l'ocean secura varco, cui destro è ciascun vento, ogni tempesta tranquilla, e lieve ogni gravoso incarco. Per ministra e per duce or me vi appresta il mio signor, del favor suo non parco." Cosí parlò la donna, e piú vicino fece poscia a la sponda il curvo pino. Come la nobil coppia ha in sé raccolta, spinge la ripa e gli rallenta il morso, ed avendo la vela a l'aure sciolta, ella siede al governo e regge il corso. Gonfio è il torrente sí ch'a questa volta i navigli portar ben può su 'l dorso, ma questo è sí leggier che 'l sosterebbe qual altro rio per novo umor men crebbe. Veloce sovra il natural costume spingon la vela inverso il lido i venti: biancheggian l'acque di canute spume, e rotte dietro mormorar le senti. Ecco giungono omai là dove il fiume queta in letto maggior l'onde correnti, e ne l'ampie voragini del mare disperso o divien nulla o nulla appare. A pena ha tocco la mirabil nave de la marina allor turbata il lembo, che spariscon le nubi e cessa il grave Noto che minacciava oscuro nembo: spiana i monti de l'onde aura soave e solo increspa il bel ceruleo grembo, e d'un dolce seren diffuso ride il ciel, che sé piú chiaro unqua non vide. Trascorse oltre Ascalona ed a mancina andò la navicella invèr ponente, e tosto a Gaza si trovò vicina che fu porto di Gaza anticamente, ma poi, crescendo de l'altrui ruina, città divenne assai grande e possente; ed eranvi le piagge allor ripiene quasi d'uomini sí come d'arene. Volgendo il guardo a terra i naviganti scorgean di tende numero infinito: miravan cavalier, miravan fanti ire e tornar da la cittade al lito, e da cameli onusti e da elefanti l'arenoso sentier calpesto e trito; poi del porto vedean ne' fondi cavi sorte e legate a l'ancore le navi, altre spiegar le vele, e ne vedieno altre i remi trattar veloci e snelle, e da essi e da' rostri il molle seno spumar percosso in queste parti e in quelle. Disse la donna allor: "Benché ripieno il lido e 'l mar sia de le genti felle, non ha insieme però le schiere tutte il potente tiranno anco ridutte. Sol dal regno d'Egitto e dal contorno raccolte ha queste; or le lontane attende, ché verso l'oriente e 'l mezzogiorno il vasto imperio suo molto si stende. Sí che sper'io che prima assai ritorno fatto avrem noi che mova egli le tende: egli o quel ch'in sua vece esser soprano de l'essercito suo de' capitano." Mentre ciò dice, come aquila sòle tra gli altri augelli trapassar secura e sorvolando ir tanto appresso il sole che nulla vista piú la raffigura, cosí la nave sua sembra che vóle tra legno e legno, e non ha tema o cura che vi sia chi l'arresti o chi la segua; e da lor s'allontana e si dilegua. E 'n un momento incontra Raffia arriva, città la qual in Siria appar primiera a chi d'Egitto move; indi a la riva sterilissima vien di Rinocera. Non lunge un monte poi le si scopriva che sporge sovra 'l mar la chioma altera e i piè si lava ne l'instabil onde, che l'ossa di Pompeo nel grembo asconde. Poi Damiata scopre, e come porte al mar tributo di celesti umori per sette il Nilo sue famose porte e per cento altre ancor foci minori; e naviga oltre la città dal forte greco fondata a i greci abitatori, ed oltra Faro, isola già che lunge giacque dal lido, al lido or si congiunge. Rodi e Creta lontane inverso al polo non scerne, e pur lungo Africa se 'n viene, su 'l mar culta e ferace, a dentro solo fertil di mostri e d'infeconde arene. La Marmarica rade, e rade il suolo dove cinque cittadi ebbe Cirene. Qui Tolomitta e poi con l'onde chete sorger si mira il fabuloso Lete. La maggior Sirte a' naviganti infesta, trattasi in alto, invèr le piaggie lassa, e 'l capo di Giudeca indietro resta, e la foce di Magra indi trapassa. Tripoli appar su 'l lido, e 'ncontra a questa giace Malta fra l'onde occulta e bassa; e poi riman con l'altre Sirti a tergo Alzerbe, già de' Lotofagi albergo. Nel curvo lido poi Tunisi vede che d'ambo i lati del suo golfo ha un monte. Tunisi, ricca ed onorata sede a par di quante n'ha Libia piú conte. A lui di costa la Sicilia siede, ed il gran Lilibeo gli inalza a fronte. Or quivi addita la donzella a i due guerrieri il loco ove Cartagin fue. Giace l'alta Cartago: a pena i segni de l'alte sue ruine il lido serba. Muoiono le città, muoiono i regni, copre i fasti e le pompe arena ed erba, e l'uom d'esser mortal par che si sdegni: oh nostra mente cupida e superba! Giungon quinci a Biserta, e piú lontano han l'isola de' Sardi a l'altra mano. Trascorser poi le piaggie ove i Numidi menàr gia vita pastorale erranti. Trovàr Bugia ed Algieri, infami nidi di corsari, ed Oràn trovàr piú inanti; e costeggiàr di Tingitana i lidi, nutrice di leoni e d'elefanti, ch'or di Marocco è il regno, e quel di Fessa; e varcàr la Granata incontro ad essa. Son già là dove il mar fra terra inonda per via ch'esser d'Alcide opra si finse; e forse è ver ch'una continua sponda fosse, ch'alta ruina in due distinse. Passovvi a forza l'oceano, e l'onda Abila quinci e quindi Calpe spinse; Spagna e Libia partio con foce angusta: tanto mutar può lunga età vetusta! Quattro volte era apparso il sol ne l'orto da che la nave si spiccò dal lito, né mai (ch'uopo non fu) s'accolse in porto, e tanto del camino ha già fornito. Or entra ne lo stretto e passa il corto varco, e s'ingolla in pelago infinito. Se 'l mar qui è tanto ove il terreno il serra, che fia colà dov'egli ha in sen la terra? Piú non si mostra omai tra gli alti flutti la fertil Gade e l'altre due vicine. Fuggite son le terre e i lidi tutti: de l'onda il ciel, del ciel l'onda è confine. Diceva Ubaldo allor: "Tu che condutti n'hai, donna, in questo mar che non ha fine, di' s'altri mai qui giunse, o se piú inante nel mondo ove corriamo have abitante." Risponde: "Ercole, poi ch'uccisi i mostri ebbe di Libia e del paese ispano, e tutti scòrsi e vinti i lidi vostri, non osò di tentar l'alto oceano: segnò le mète, e 'n troppo brevi chiostri l'ardir ristrinse de l'ingegno umano; ma quei segni sprezzò ch'egli prescrisse. di veder vago e di saper, Ulisse. Ei passò le Colonne, e per l'aperto mare spiegò de' remi il volo audace; ma non giovogli esser ne l'onde esperto, perché inghiottillo l'ocean vorace, e giacque co 'l suo corpo anco coperto il suo gran caso, ch'or tra voi si tace. S'altri vi fu da' venti a forza spinto, o non tornovvi o vi rimase estinto; sí ch'ignoto è 'l gran mar che solchi: ignote isole mille e mille regni asconde; né già d'abitator le terre han vòte, ma son come le vostre anco feconde: son esse atte al produr, né steril pote esser quella virtú che 'l sol n'infonde." Ripiglia Ubaldo allor: "Del mondo occulto, dimmi quai sian le leggi e quale il culto." Gli soggiunse colei: "Diverse bande diversi han riti ed abiti e favelle: altri adora le belve, altri la grande comune madre, il sole altri e le stelle; v'è chi d'abominevoli vivande le mense ingombra scelerate e felle. E 'n somma ognun che 'n qua da Calpe siede barbaro è di costume, empio di fede." "Dunque" a lei replicava il cavaliero "quel Dio che scese a illuminar le carte vuol ogni raggio ricoprir del vero a questa che del mondo è sí gran parte?" "No." rispose ella "anzi la fé di Piero fiavi introdotta ed ogni civil arte; né già sempre sarà che la via lunga questi da' vostri popoli disgiunga. Tempo verrà che fian d'Ercole i segni favola vile a i naviganti industri, e i mar riposti, or senza nome, e i regni ignoti ancor tra voi saranno illustri. Fia che 'l piú ardito allor di tutti i legni quanto circonda il mar circondi e lustri, e la terra misuri, immensa mole, vittorioso ed emulo del sole. Un uom de la Liguria avrà ardimento a l'incognito corso esporsi in prima; né 'l minaccievol fremito del vento, né l'inospito mar, né 'l dubbio clima, né s'altro di periglio e di spavento piú grave e formidabile or si stima, faran che 'l generoso entro a i divieti d'Abila angusti l'alta mente accheti. Tu spiegherai, Colombo, a un novo polo lontane sí le fortunate antenne, ch'a pena seguirà con gli occhi il volo la fama c'ha mille occhi e mille penne. Canti ella Alcide e Bacco, e di te solo basti a i posteri tuoi ch'alquanto accenne, ché quel poco darà lunga memoria di poema dignissima e d'istoria." Cosí disse ella; e per l'ondose strade corre al ponente e piega al mezzogiorno e vede come incontra il sol giú cade e come a tergo lor rinasce il giorno. E quando a punto i raggi e le rugiade la bella aurora seminava intorno, lor s'offrí di lontano oscuro un monte che tra le nubi nascondea la fronte. E 'l vedean poscia procedendo avante, quando ogni nuvol già n'era rimosso, a l'acute piramidi sembiante, sottile invèr la cima e 'n mezzo grosso, e mostrarsi talor cosí fumante come quel che d'Encelado è su 'l dosso, che per propria natura il giorno fuma e poi la notte il ciel di fiamme alluma. Ecco altre isole insieme, altre pendici scoprian alfin, men erte ed elevate; ed eran queste l'isole Felici, cosí le nominò la prisca etate, a cui tanto stimava i cieli amici che credea volontarie e non arate quivi produr le terre, e 'n piú graditi frutti non culte germogliar le viti. Qui non fallaci mai fiorir gli olivi e 'l mèl dicea stillar da l'elci cave, e scender giú da lor montagne i rivi con acque dolci e mormorio soave, e zefiri e rugiade i raggi estivi temprarvi sí che nullo ardor v'è grave; e qui gli elisi campi e le famose stanze de le beate anime pose. A queste or vien la donna, ed: "Omai sète dal fin del corso" lor dicea "non lunge. L'isole di Fortuna ora vedete, di cui gran fama a voi ma incerta giunge. Ben son elle feconde e vaghe e liete, ma pur molto di falso al ver s'aggiunge." Cosí parlando, assai presso si fece a quella che la prima è de le diece. Carlo incomincia allor: "Se ciò concede, donna, quell'alta impresa ove ci guidi, lasciami omai por ne la terra il piede e veder questi inconosciuti lidi, veder le genti e 'l culto di lor fede e tutto quello ond'uom saggio m'invídi, quando mi gioverà narrar altrui le novità vedute e dir: `Io fui!'" Gli rispose colei: "Ben degna in vero la domanda è di te, ma che poss'io, s'egli osta inviolabile e severo il decreto de' Cieli al bel desio? ch'ancor vòlto non è lo spazio intero ch'al grande scoprimento ha fisso Dio, né lece a voi da l'ocean profondo recar vera notizia al vostro mondo. A voi per grazia e sovra l'arte e l'uso de' naviganti ir per quest'acque è dato, e scender là dove è il guerrier rinchiuso e ridurlo del mondo a l'altro lato. Tanto vi basti, e l'aspirar piú suso superbir fòra e calcitrar co 'l fato." Qui tacque, e già parea piú bassa farsi l'isola prima e la seconda alzarsi. Ella mostrando gía ch'a l'oriente tutte con ordin lungo eran dirette, e che largo è fra lor quasi egualmente quello spazio di mar che si framette. Pònsi veder d'abitatrice gente case e culture ed altri segni in sette; tre deserte ne sono, e v'han le belve securissima tana in monti e in selve. Luogo è in una de l'erme assai riposto, ove si curva il lido e in fuori stende due larghe corna, e fra lor tiene ascosto un ampio sen, e porto un scoglio rende, ch'a lui la fronte e 'l tergo a l'onda ha opposto che vien da l'alto e la respinge e fende. S'inalzan quinci e quindi, e torreggianti fan due gran rupi segno a' naviganti. Tacciono sotto i mar securi in pace sovra ha di negre selve opaca scena, e 'n mezzo d'esse una spelonca giace, d'edera e d'ombre e di dolci acque amena. Fune non lega qui, né co 'l tenace morso le stanche navi ancora frena. La donna in sí solinga e queta parte entrava, e raccogliea le vele sparte. "Mirate" disse poi "quell'alta mole ch'a quel gran monte in su la cima siede. Quivi fra cibi ed ozio e scherzi e fole torpe il campion de la cristiana fede. Voi con la guida del nascente sole su per quell'erto moverete il piede; né vi gravi il tardar, però che fòra, se non la matutina, infausta ogn'ora. Ben co 'l lume del dí ch'anco riluce insino al monte andar per voi potrassi." Essi al congedo de la nobil duce poser nel lido desiato i passi, e ritrovàr la via ch'a lui conduce agevol sí ch'i piè non ne fur lassi; ma quando v'arrivàr, da l'oceano era il carro di Febo anco lontano. Veggion che per dirupi e fra ruine s'ascende a la sua cima alta e superba, e ch'è fin là di nevi e di pruine sparsa ogni strada: ivi ha poi fiori ed erba. Presso al canuto mento il verde crine frondeggia, e 'l ghiaccio fede a i gigli serba ed a le rose tenere: cotanto puote sovra natura arte d'incanto. I duo guerrier, in luogo ermo e selvaggio chiuso d'ombre, fermàrsi a piè del monte; e come il ciel rigò co 'l novo raggio il sol, de l'aurea luce eterno fonte: "Su su" gridaro entrambi, e 'l lor viaggio ricominciàr con voglie ardite e pronte. Ma esce non so donde, e s'attraversa fèra serpendo orribile e diversa. Inalza d'oro squallido squamose le creste e 'l capo, e gonfia il collo d'ira, arde ne gli occhi, e le vie tutte ascose tien sotto il ventre, e tòsco e fumo spira; or rientra in se stessa, or le nodose ruote distende, e sé dopo sé tira. Tal s'appresenta a la solita guarda, né però de' guerrieri i passi tarda. Già Carlo il ferro stringe e 'l serpe assale, ma l'altro grida a lui: "Che fai? che tente? per isforzo di man, con arme tale vincer avisi il difensor serpente?" Egli scote la verga aurea immortale sí che la belva il sibilar ne sente, e impaurita al suon, fuggendo ratta, lascia quel varco libero e s'appiatta. Piú suso alquanto il passo a lor contende fero leon che rugge e torvo guata, e i velli arrizza, e le caverne orrende de la bocca vorace apre e dilata. Si sferza con la coda e l'ire accende, ma non è pria la verga a lui mostrata ch'un secreto spavento al cor gli agghiaccia l'ira e 'l nativo orgoglio, e 'n fuga il caccia. Segue la coppia il suo camin veloce, ma formidabile oste han già davante di guerrieri animai, vari di voce, vari di moto, vari di sembiante. Ciò che di mostruoso e di feroce erra fra 'l Nilo e i termini d'Atlante par qui tutto raccolto, e quante belve l'Ercinia ha in sen, quante l'ircane selve. Ma pur sí fero essercito e sí grosso non vien che lor respinga o che resista, anzi (miracol novo) in fuga è mosso da un picciol fischio e da una breve vista. La coppia omai vittoriosa il dosso de la montagna senza intoppo acquista, se non se in quanto il gelido e l'alpino de le rigide vie tarda il camino. Ma poi che già le nevi ebber varcate e superato il discosceso e l'erto, un bel tepido ciel di dolce state trovaro, e 'l pian su 'l monte ampio ed aperto. Aure fresche mai sempre ed odorate vi spiran con tenor stabile e certo, né i fiati lor, sí come altrove sòle; né, come altrove suol, ghiacci ed ardori nubi e sereni a quelle piaggie alterna, ma il ciel di candidissimi splendori sempre s'ammanta e non s'infiamma o verna, e nudre a i prati l'erba, a l'erba i fiori, a i fior l'odor, l'ombra a le piante eterna. Siede su 'l lago e signoreggia intorno i monti e i mari il bel palagio adorno. I cavalier per l'alta aspra salita sentiansi alquanto affaticati e lassi, onde ne gian per quella via fiorita lenti or movendo ed or fermando i passi. Quando ecco un fonte, che a bagnar gli invita l'asciutte labbia, alto cader da' sassi e da una larga vena, e con ben mille zampilletti spruzzar l'erbe di stille. Ma tutta insieme poi tra verdi sponde in profondo canal l'acqua s'aduna, e sotto l'ombra di perpetue fronde mormorando se 'n va gelida e bruna, ma trasparente sí che non asconde de l'imo letto suo vaghezza alcuna; e sovra le sue rive alta s'estolle l'erbetta, e vi fa seggio fresco e molle. "Ecco il fonte del riso, ed ecco il rio che mortali perigli in sé contiene. Or qui tener a fren nostro desio ed esser cauti molto a noi conviene: chiudiam l'orecchie al dolce canto e rio di queste del piacer false sirene, cosí n'andrem fin dove il fiume vago si spande in maggior letto e forma un lago." Quivi de' cibi preziosa e cara apprestata è una mensa in su le rive, e scherzando se 'n van per l'acqua chiara due donzellette garrule e lascive, ch'or si spruzzano il volto, or fanno a gara chi prima a un segno destinato arrive. Si tuffano talor, e 'l capo e 'l dorso scoprono alfin dopo il celato corso. Mosser le natatrici ignude e belle de' duo guerrieri alquanto i duri petti, sí che fermàrsi a riguardarle; ed elle seguian pur i lor giochi e i lor diletti. Una intanto drizzossi, e le mammelle e tutto ciò che piú la vista alletti mostrò dal seno in suso, aperto al cielo; e 'l lago a l'altre membra era un bel velo. Qual matutina stella esce de l'onde rugiadosa e stillante, o come fuore spuntò nascendo già da le feconde spume de l'ocean la dea d'amore, tal apparve costei, tal le sue bionde chiome stillavan cristallino umore. Poi girò gli occhi, e pur allor s'infinse que' duo vedere e in sé tutta si strinse; e 'l crin, ch'in cima al capo avea raccolto in un sol nodo, immantinente sciolse, che lunghissimo in giú cadendo e folto d'un aureo manto i molli avori involse. Oh che vago spettacolo è lor tolto! ma non men vago fu chi loro il tolse. Cosí da l'acque e da' capelli ascosa a lor si volse lieta e vergognosa. Rideva insieme e insieme ella arrossia, ed era nel rossor piú bello il riso e nel riso il rossor che le copria insino al mento il delicato viso. Mosse la voce poi sí dolce e pia che fòra ciascun altro indi conquiso: "Oh fortunati peregrin, cui lice giungere in questa sede alma e felice! Questo è il porto del mondo; e qui è il ristoro de le sue noie, e quel piacer si sente che già sentí ne' secoli de l'oro l'antica e senza fren libera gente. L'arme, che sin a qui d'uopo vi foro, potete omai depor securamente e sacrarle in quest'ombra a la quiete, ché guerrier qui solo d'Amor sarete, e dolce campo di battaglia il letto fiavi e l'erbetta morbida de' prati. Noi menarenvi anzi il regale aspetto di lei che qui fa i servi suoi beati, che v'accorrà nel bel numero eletto di quei ch'a le sue gioie ha destinati. Ma pria la polve in queste acque deporre vi piaccia, e 'l cibo a quella mensa tòrre." L'una disse cosí, l'altra concorde l'invito accompagnò d'atti e di sguardi, sí come al suon de le canore corde s'accompagnano i passi or presti or tardi. Ma i cavalieri hanno indurate e sorde l'alme a que' vezzi perfidi e bugiardi, e 'l lusinghiero aspetto e 'l parlar dolce di fuor s'aggira e solo i sensi molce. E se di tal dolcezza entro trasfusa parte penètra onde il desio germoglie, tosto ragion ne l'arme sue rinchiusa sterpa e riseca le nascenti voglie. L'una coppia riman vinta e delusa, l'altra se 'n va, né pur congedo toglie. Essi entràr nel palagio, esse ne l'acque tuffàrsi: la repulsa a lor sí spiacque. |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi @mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998