Torquato Tasso
Gerusalemme Liberata
POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO
AL SERENISSIMO SIGNORE
IL SIGNOR DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA
CANTO DODICESIMO
Durante la notte, mentre con Argante assiste al febbrile lavoro per rimettere in sesto le difese, Clorinda promette a se stessa di andare a incendiare la grande torre dei Cristiani; Argante le dice allora che vorrà essere vicino a lei nell'impresa. Concordi si recano dal re Aladino ed espongono il piano; anche Solimano vuol partecipare all'impresa, ma il re lo dissuade mentre Ismeno chiede che attendano qualche ora per preparare un miscuglio che possa incendiare bene la torre. Mentre Clorinda si veste, Arsete, che per tutta la vita era stato suo fedele servitore, le chiede di rinunciare all'impresa, ma è inutile; allora le svela quali sono le sue vere origini: figlia di Senapo, re cristiano d'Etiopia, era nata bianca da madre nera e per non urtare la gelosia del re, era stata abbandonata alla nascita con gran dolore dalla madre e raccolta da Arsete, che la nascose e la crebbe nella religione pagana, valorosa e ardita nelle armi. Clorinda lo rasserena dicendogli che sempre avrebbe seguito la fede nella quale era stata educata. A notte alta, Clorinda, Argante e Ismeno escono dalla città e incendiano la torre; accorrono due squadre di cristiani: breve è la battaglia mentre i pagani rientrano in città attraverso l'Aurea Porta; ma Clorinda è in ritardo, e allora si mischia ai soldati cristiani. Solo Tancredi la riconosce e la sfida a duello, ingaggiando un mortale combattimento senza essere riconosciuta. Colpita a morte, prima di spirare chiede di essere battezzata. Tancredi le scopre allora il viso: grande è il suo dolore nel riconoscerla, un dolore che si calma solo alle parole di Pietro l'Eremita. Nella notte prima dei funerali, Tancredi sogna Clorinda, che gli si mostra in tutta la sua bellezza celeste. Al mattino l'eroe si sveglia consolato. Si diffonde nella città la notizia delle morte di Clorinda; piange Arsete, mentre Argante giura di uccidere il rivale per vendicare l'amica.
Argomento |
Prima da un suo fedel Clorinda ascolta Del suo natal l'istoria, e poi sen viene Ignota al campo, a grand'impresa volta. Questa tragge ella a fine, indi s'avviene In Tancredi, da cui l'alma l'è tolta; Ma ben, anzi 'l morir, battesmo ottiene. Piange l'estinta il Prenze. Argante giura Di dar a chi l'uccise aspra ventura. |
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Era la notte,
e non prendean ristoro co 'l sonno ancor le faticose genti: ma qui vegghiando nel fabril lavoro stavano i Franchi a la custodia intenti, e là i pagani le difese loro gian rinforzando tremule e cadenti e reintegrando le già rotte mura, e de' feriti era comun la cura. Curate al fin le piaghe, e già fornita de l'opere notturne era qualcuna; e rallentando l'altre, al sonno invita l'ombra omai fatta piú tacita e bruna. Pur non accheta la guerriera ardita l'alma d'onor famelica e digiuna, e sollecita l'opre ove altri cessa. Va seco Argante, e dice ella a se stessa: "Ben oggi il re de' Turchi e 'l buon Argante fèr meraviglie inusitate e strane, ché soli uscír fra tante schiere e tante e vi spezzàr le machine cristiane. Io (questo è il sommo pregio onde mi vante) d'alto rinchiusa oprai l'arme lontane, sagittaria, no 'l nego, assai felice. Dunque sol tanto a donna e piú non lice? Quanto me' fòra in monte od in foresta a le fère aventar dardi e quadrella, ch'ove il maschio valor si manifesta mostrarmi qui tra cavalier donzella! Ché non riprendo la feminea vesta, s'io ne son degna e non mi chiudo in cella?" Cosí parla tra sé; pensa e risolve al fin gran cose ed al guerrier si volve: "Buona pezza è, signor, che in sé raggira un non so che d'insolito e d'audace la mia mente inquieta: o Dio l'inspira, o l'uom del suo voler suo Dio si face. Fuor del vallo nemico accesi mira i lumi; io là n'andrò con ferro e face e la torre arderò: vogl'io che questo effetto segua, il Ciel poi curi il resto. Ma s'egli averrà pur che mia ventura nel mio ritorno mi rinchiuda il passo, d'uom che 'n amor m'è padre a te la cura e de le care mie donzelle io lasso. Tu ne l'Egitto rimandar procura le donne sconsolate e 'l vecchio lasso. Fallo per Dio, signor, ché di pietate ben è degno quel sesso e quella etate." Stupisce Argante, e ripercosso il petto da stimoli di gloria acuti sente. "Tu là n'andrai," rispose "e me negletto qui lascierai tra la vulgare gente? E da secura parte avrò diletto mirar il fumo e la favilla ardente? No, no; se fui ne l'arme a te consorte, esser vo' ne la gloria e ne la morte. Ho core anch'io che morte sprezza e crede che ben si cambi con l'onor la vita." "Ben ne fèsti" diss'ella "eterna fede con quella tua sí generosa uscita. Pure io femina sono, e nulla riede mia morte in danno a la città smarrita; ma se tu cadi (tolga il Ciel gli augúri), or chi sarà che piú difenda i muri?" Replicò il cavaliero: "Indarno adduci al mio fermo voler fallaci scuse. Seguirò l'orme tue, se mi conduci; ma le precorrerò, se mi ricuse." Concordi al re ne vanno, il qual fra i duci e fra i piú saggi suoi gli accolse e chiuse. Incominciò Clorinda: "O sire, attendi a ciò che dir voglianti, e in grado il prendi. Argante qui (né sarà vano il vanto) quella macchina eccelsa arder promette. Io sarò seco, ed aspettiam sol tanto che stanchezza maggiore il sonno allette." Sollevò il re le palme, e un lieto pianto giú per le crespe guancie a lui cadette; e: "Lodato sia tu," disse "che a i servi tuoi volgi gli occhi e 'l regno anco mi servi. Né già sí tosto caderà, se tali animi forti in sua difesa or sono. Ma qual poss'io, coppia onorata, eguali dar a i meriti vostri o laude o dono? Laudi la fama voi con immortali voci di gloria, e 'l mondo empia del suono. Premio v'è l'opra stessa, e premio in parte vi fia del regno mio non poca parte." Sí parla il re canuto, e si ristringe or questa or quel teneramente al seno. Il Soldan, ch'è presente e non infinge la generosa invidia onde egli è pieno, disse: "Né questa spada in van si cinge; verravvi a paro o poco dietro almeno." "Ah!" rispose Clorinda "andremo a questa impresa tutti? e se tu vien, chi resta?" Cosí gli disse, e con rifiuto altero già s'apprestava a ricusarlo Argante; ma 'l re il prevenne, e ragionò primiero a Soliman con placido sembiante: "Ben sempre tu, magnanimo guerriero, ne ti mostrasti a te stesso sembiante, cui nulla faccia di periglio unquanco sgomentò, né mai fosti in guerra stanco. E so che fuora andando opre faresti degne di te; ma sconvenevol parmi che tutti usciate, e dentro alcun non resti di voi che sète i piú famosi in armi. Né men consentirei ch'andasser questi (ché degno è il sangue lor che si risparmi), s'o men util tal opra o mi paresse che fornita per altri esser potesse. Ma poi che la gran torre in sua difesa d'ogni intorno le guardie ha cosí folte che da poche mie genti esser offesa non pote, e inopportuno è uscir con molte, la coppia che s'offerse a l'alta impresa, e 'n simil rischio si trovò piú volte, vada felice pur, ch'ella è ben tale che sola piú che mille insieme vale. Tu, come al regio onor piú si conviene, con gli altri, prego, in su le porte attendi; e quando poi (ché n'ho secura spene) ritornino essi e desti abbian gli incendi, se stuol nemico seguitando viene, lui risospingi e lor salva e difendi." Cosí l'un re diceva, e l'altro cheto rimaneva al suo dir, ma non già lieto. Soggiunse allora Ismeno: "Attender piaccia a voi, ch'uscir dovete, ora piú tarda, sin che di varie tempre un misto i' faccia ch'a la machina ostil s'appigli e l'arda. Forse allora averrà che parte giaccia di quello stuol che la circonda e guarda." Ciò fu concluso, e in sua magion ciascuno aspetta il tempo al gran fatto opportuno. Depon Clorinda le sue spoglie inteste d'argento e l'elmo adorno e l'arme altere, e senza piuma o fregio altre ne veste (infausto annunzio!) ruginose e nere, però che stima agevolmente in queste occulta andar fra le nemiche schiere. È quivi Arsete eunuco, il qual fanciulla la nudrí da le fasce e da la culla, e per l'orme di lei l'antico fianco d'ogni intorno traendo, or la seguia. Vede costui l'arme cangiate, ed anco del gran rischio s'accorge ove ella gía, e se n'affligge, e per lo crin che bianco in lei servendo ha fatto e per la pia memoria de' suo' uffici instando prega che da l'impresa cessi; ed ella il nega. Onde ei le disse alfin: "Poi che ritrosa sí la tua mente nel suo mal s'indura che né la stanca età, né la pietosa voglia, né i preghi miei, né il pianto cura, ti spiegherò piú oltre, e saprai cosa di tua condizion che t'era oscura; poi tuo desir ti guidi o mio consiglio." Ei segue, ed ella inalza attenta il ciglio. "Resse già l'Etiopia, e forse regge Senapo ancor con fortunato impero, il qual del figlio di Maria la legge osserva, e l'osserva anco il popol nero. Quivi io pagan fui servo e fui tra gregge d'ancelle avolto in feminil mestiero, ministro fatto de la regia moglie che bruna è sí, ma il bruno il bel non toglie. N'arde il marito, e de l'amore al foco ben de la gelosia s'agguaglia il gelo. Si va in guisa avanzando a poco a poco nel tormentoso petto il folle zelo che da ogn'uom la nasconde, e in chiuso loco vorria celarla a i tanti occhi del cielo. Ella, saggia ed umil, di ciò che piace al suo signor fa suo diletto e pace. D'una pietosa istoria e di devote figure la sua stanza era dipinta. Vergine, bianca il bel volto e le gote vermiglia, è quivi presso un drago avinta. Con l'asta il mostro un cavalier percote: giace la fèra nel suo sangue estinta. Quivi sovente ella s'atterra, e spiega le sue tacite colpe e piange e prega. Ingravida fra tanto, ed espon fuori (e tu fosti colei) candida figlia. Si turba; e de gli insoliti colori, quasi d'un novo mostro, ha meraviglia. Ma perché il re conosce e i suoi furori, celargli il parto alfin si riconsiglia, ch'egli avria dal candor che in te si vede argomentato in lei non bianca fede. Ed in tua vece una fanciulla nera pensa mostrargli, poco inanzi nata. E perché fu la torre, ove chius'era, da le donne e da me solo abitata, a me, che le fui servo e con sincera mente l'amai, ti diè non battezzata; né già poteva allor battesmo darti, ché l'uso no 'l sostien di quelle parti. Piangendo a me ti porse, e mi commise ch'io lontana a nudrir ti conducessi. Chi può dire il suo affanno, e in quante guise lagnossi e raddoppiò gli ultimi amplessi? Bagnò i baci di pianto, e fur divise le sue querele da i singulti spessi. Levò alfin gli occhi, e disse: "O Dio, che scerni l'opre piú occulte, e nel mio cor t'interni, s'immaculato è questo cor, s'intatte son queste membra e 'l marital mio letto, per me non prego, che mille altre ho fatte malvagità: son vile al tuo cospetto; salva il parto innocente, al qual il latte nega la madre del materno petto. Viva, e sol d'onestate a me somigli; l'essempio di fortuna altronde pigli. Tu, celeste guerrier, che la donzella togliesti del serpente a gli empi morsi, s'accesi ne' tuo' altari umil facella, s'auro o incenso odorato unqua ti porsi, tu per lei prega, sí che fida ancella possa in ogni fortuna a te raccòrsi." Qui tacque; e 'l cor le si rinchiuse e strinse, e di pallida morte si dipinse. Io piangendo ti presi, e in breve cesta fuor ti portai, tra fiori e frondi ascosa; ti celai da ciascun, che né di questa diedi sospizion né d'altra cosa. Me n'andai sconosciuto; e per foresta caminando di piante orride ombrosa, vidi una tigre, che minaccie ed ire avea ne gli occhi, incontr'a me venire. Sovra un arbore i' salsi e te su l'erba lasciai, tanta paura il cor mi prese. Giunse l'orribil fèra, e la superba testa volgendo, in te lo sguardo intese. Mansuefece e raddolcio l'acerba vista con atto placido e cortese; lenta poi s'avicina e ti fa vezzi con la lingua, e tu ridi e l'accarezzi; ed ischerzando seco, al fero muso la pargoletta man secura stendi. Ti porge ella le mamme e, come è l'uso di nutrice, s'adatta, e tu le prendi. Intanto io miro timido e confuso, come uom faria novi prodigi orrendi. Poi che sazia ti vede omai la belva del suo latte, ella parte e si rinselva; ed io giú scendo e ti ricolgo, e torno là 've prima fur vòlti i passi miei, e preso in picciol borgo alfin soggiorno, celatamente ivi nutrir ti fei. Vi stetti insin che 'l sol correndo intorno portò a i mortali e diece mesi e sei. Tu con lingua di latte anco snodavi voci indistinte, e incerte orme segnavi. Ma sendo io colà giunto ove dechina l'etate omai cadente a la vecchiezza, ricco e sazio de l'or che la regina nel partir diemmi con regale ampiezza, da quella vita errante e peregrina ne la patria ridurmi ebbi vaghezza, e tra gli antichi amici in caro loco viver, temprando il verno al proprio foco. Partomi, e vèr l'Egitto onde son nato, te conducendo meco, il corso invio, e giungo ad un torrente, e riserrato quinci da i ladri son, quindi dal rio. Che debbo far? te, dolce peso amato, lasciar non voglio, e di campar desio. Mi gitto a nuoto, ed una man ne viene rompendo l'onda e te l'altra sostiene. Rapidissimo è il corso, e in mezzo l'onda in se medesma si ripiega e gira; ma, giunto ove piú volge e si profonda, in cerchio ella mi torce e giú mi tira. Ti lascio allor, ma t'alza e ti seconda l'acqua, e secondo a l'acqua il vento spira, e t'espon salva in su la molle arena; stanco, anelando, io poi vi giungo a pena. Lieto ti prendo; e poi la notte, quando tutte in alto silenzio eran le cose, vidi in sogno un guerrier che minacciando a me su 'l volto il ferro ignudo pose. Imperioso disse: 'Io ti comando ciò che la madre sua primier t'impose: che battezzi l'infante; ella è diletta del Cielo, e la sua cura a me s'aspetta. Io la guardo e difendo, io spirto diedi di pietate a le fère e mente a l'acque. Misero te s'al sogno tuo non credi, ch'è del Ciel messaggiero.' E qui si tacque. Svegliaimi e sorsi, e di là mossi i piedi come del giorno il primo raggio nacque; ma perché mia fé vera e l'ombre false stimai, di tuo battesmo non mi calse, né de i preghi materni; onde nudrita pagana fosti, e 'l vero a te celai. Crescesti, e in arme valorosa e ardita vincesti il sesso e la natura assai: fama e terre acquistasti, e qual tua vita sia stata poscia tu medesma il sai; e sai non men che servo insieme e padre io t'ho seguita fra guerriere squadre. Ier poi su l'alba, a la mia mente oppressa d'alta quiete e simile a la morte, nel sonno s'offerí l'imago stessa, ma in piú turbata vista e in suon piú forte: 'Ecco,' dicea 'fellon, l'ora s'appressa che dée cangiar Clorinda e vita e sorte: mia sarà mal tuo grado, e tuo fia il duolo.' Ciò disse, e poi n'andò per l'aria a volo. Or odi dunque tu che 'l Ciel minaccia a te, diletta mia, strani accidenti. Io non so; forse a lui vien che dispiaccia ch'altri impugni la fé de' suoi parenti. Forse è la vera fede. Ah! giú ti piaccia depor quest'arme e questi spirti ardenti." Qui tace e piagne; ed ella pensa e teme, ch'un altro simil sogno il cor le preme. Rasserenando il volto, al fin gli dice: "Quella fé seguirò che vera or parmi, che tu co 'l latte già de la nutrice sugger mi fèsti e che vuoi dubbia or farmi; né per temenza lascierò, né lice a magnanimo cor, l'impresa e l'armi, non se la morte nel piú fer sembiante che sgomenti i mortali avessi inante." Poscia il consola; e perché il tempo giunge ch'ella deve ad effetto il vanto porre, parte e con quel guerrier si ricongiunge che si vuol seco al gran periglio esporre. Con lor s'aduna Ismeno, e instiga e punge quella virtú che per se stessa corre; e lor porge di zolfo e di bitumi due palle, e 'n cavo rame ascosi lumi. Escon notturni e piani, e per lo colle uniti vanno a passo lungo e spesso, tanto che a quella parte ove s'estolle la machina nemica omai son presso. Lor s'infiamman gli spirti, e 'l cor ne bolle né può tutto capir dentro se stesso: gli invita al foco, al sangue, un fero sdegno. Grida la guardia, e lor dimanda il segno. Essi van cheti inanzi, onde la guarda "A l'arme! a l'arme!" in alto suon raddoppia; ma piú non si nasconde e non è tarda al corso allor la generosa coppia. In quel modo che fulmine o bombarda co 'l lampeggiar tuona in un punto e scoppia, movere ed arrivar, ferir lo stuolo, aprirlo e penetrar, fu un punto solo. E forza è pur che fra mill'arme e mille percosse il lor disegno al fin riesca. Scopriro i chiusi lumi, e le faville s'appreser tosto a l'accensibil esca, ch'a i legni poi l'avolse e compartille. Chi può dir come serpa e come cresca già da piú lati il foco? e come folto turbi il fumo a le stelle il puro volto? Vedi globi di fiamme oscure e miste fra le rote del fumo in ciel girarsi. Il vento soffia, e vigor fa ch'acquiste l'incendio e in un raccolga i fochi sparsi. Fère il gran lume con terror le viste de' Franchi, e tutti son presti ad armarsi. La mole immensa, e sí temuta in guerra, cade, e breve ora opre sí lunghe atterra. Due squadre de' cristiani intanto al loco dove sorge l'incendio accorron pronte. Minaccia Argante: "Io spegnerò quel foco co 'l vostro sangue", e volge lor la fronte. Pur ristretto a Clorinda, a poco a poco cede, e raccoglie i passi a sommo il monte. Cresce piú che torrente a lunga pioggia la turba, e li rincalza e con lor poggia. Aperta è l'Aurea porta, e quivi tratto è il re, ch'armato il popol suo circonda, per raccòrre i guerrier da sí gran fatto, quando al tornar fortuna abbian seconda. Saltano i due su 'l limitare, e ratto diretro ad essi il franco stuol v'inonda, ma l'urta e scaccia Solimano; e chiusa è poi la porta, e sol Clorinda esclusa. Sola esclusa ne fu perché in quell'ora ch'altri serrò le porte ella si mosse, e corse ardente e incrudelita fora a punir Arimon che la percosse. Punillo; e 'l fero Argante avisto ancora non s'era ch'ella sí trascorsa fosse, ché la pugna e la calca e l'aer denso a i cor togliea la cura, a gli occhi il senso. Ma poi che intepidí la mente irata nel sangue del nemico e in sé rivenne, vide chiuse le porte e intorniata sé da' nemici, e morta allor si tenne. Pur veggendo ch'alcuno in lei non guata, nov'arte di salvarsi le sovenne. Di lor gente s'infinge, e fra gli ignoti cheta s'avolge; e non è chi la noti. Poi, come lupo tacito s'imbosca dopo occulto misfatto, e si desvia, da la confusion, da l'aura fosca favorita e nascosa, ella se 'n gía. Solo Tancredi avien che lei conosca; egli quivi è sorgiunto alquanto pria; vi giunse allor ch'essa Arimon uccise: vide e segnolla, e dietro a lei si mise. Vuol ne l'armi provarla: un uom la stima degno a cui sua virtú si paragone. Va girando colei l'alpestre cima verso altra porta, ove d'entrar dispone. Segue egli impetuoso, onde assai prima che giunga, in guisa avien che d'armi suone, ch'ella si volge e grida: "O tu, che porte, che corri sí?" Risponde: "E guerra e morte." "Guerra e morte avrai;" disse "io non rifiuto darlati, se la cerchi", e ferma attende. Non vuol Tancredi, che pedon veduto ha il suo nemico, usar cavallo, e scende. E impugna l'uno e l'altro il ferro acuto, ed aguzza l'orgoglio e l'ire accende; e vansi a ritrovar non altrimenti che duo tori gelosi e d'ira ardenti. Degne d'un chiaro sol, degne d'un pieno teatro, opre sarian sí memorande. Notte, che nel profondo oscuro seno chiudesti e ne l'oblio fatto sí grande, piacciati ch'io ne 'l tragga e 'n bel sereno a le future età lo spieghi e mande. Viva la fama loro; e tra lor gloria splenda del fosco tuo l'alta memoria. Non schivar, non parar, non ritirarsi voglion costor, né qui destrezza ha parte. Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi: toglie l'ombra e 'l furor l'uso de l'arte. Odi le spade orribilmente urtarsi a mezzo il ferro, il piè d'orma non parte; sempre è il piè fermo e la man sempre 'n moto, né scende taglio in van, né punta a vòto. L'onta irrita lo sdegno a la vendetta, e la vendetta poi l'onta rinova; onde sempre al ferir, sempre a la fretta stimol novo s'aggiunge e cagion nova. D'or in or piú si mesce e piú ristretta si fa la pugna, e spada oprar non giova: dansi co' pomi, e infelloniti e crudi cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi. Tre volte il cavalier la donna stringe con le robuste braccia, ed altrettante da que' nodi tenaci ella si scinge, nodi di fer nemico e non d'amante. Tornano al ferro, e l'uno e l'altro il tinge con molte piaghe; e stanco ed anelante e questi e quegli al fin pur si ritira, e dopo lungo faticar respira. L'un l'altro guarda, e del suo corpo essangue su 'l pomo de la spada appoggia il peso. Già de l'ultima stella il raggio langue al primo albor ch'è in oriente acceso. Vede Tancredi in maggior copia il sangue del suo nemico, e sé non tanto offeso. Ne gode e superbisce. Oh nostra folle mente ch'ogn'aura di fortuna estolle! Misero, di che godi? oh quanto mesti fiano i trionfi ed infelice il vanto! Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) di quel sangue ogni stilla un mar di pianto. Cosí tacendo e rimirando, questi sanguinosi guerrier cessaro alquanto. Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse, perché il suo nome a lui l'altro scoprisse: "Nostra sventura è ben che qui s'impieghi tanto valor, dove silenzio il copra. Ma poi che sorte rea vien che ci neghi e lode e testimon degno de l'opra, pregoti (se fra l'arme han loco i preghi) che 'l tuo nome e 'l tuo stato a me tu scopra, acciò ch'io sappia, o vinto o vincitore, chi la mia morte o la vittoria onore." Risponde la feroce: "Indarno chiedi quel c'ho per uso di non far palese. Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi un di quei due che la gran torre accese." Arse di sdegno a quel parlar Tancredi, e: "In mal punto il dicesti"; indi riprese "il tuo dir e 'l tacer di par m'alletta, barbaro discortese, a la vendetta." Torna l'ira ne' cori, e li trasporta, benché debili in guerra. Oh fera pugna, u' l'arte in bando, u' già la forza è morta, ove, in vece, d'entrambi il furor pugna! Oh che sanguigna e spaziosa porta fa l'una e l'altra spada, ovunque giugna, ne l'arme e ne le carni! e se la vita non esce, sdegno tienla al petto unita. Qual l'alto Egeo, perché Aquilone o Noto cessi, che tutto prima il volse e scosse, non s'accheta ei però, ma 'l suono e 'l moto ritien de l'onde anco agitate e grosse, tal, se ben manca in lor co 'l sangue vòto quel vigor che le braccia a i colpi mosse, serbano ancor l'impeto primo, e vanno da quel sospinti a giunger danno a danno. Ma ecco omai l'ora fatale è giunta che 'l viver di Clorinda al suo fin deve. Spinge egli il ferro nel bel sen di punta che vi s'immerge e 'l sangue avido beve; e la veste, che d'or vago trapunta le mammelle stringea tenera e leve, l'empie d'un caldo fiume. Ella già sente morirsi, e 'l piè le manca egro e languente. Segue egli la vittoria, e la trafitta vergine minacciando incalza e preme. Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole estreme; parole ch'a lei novo un spirto ditta, spirto di fé, di carità, di speme: virtú ch'or Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella. "Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave, a l'alma sí; deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch'ogni mia colpa lave." In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza. Poco quindi lontan nel sen del monte scaturia mormorando un picciol rio. Egli v'accorse e l'elmo empié nel fonte, e tornò mesto al grande ufficio e pio. Tremar sentí la man, mentre la fronte non conosciuta ancor sciolse e scoprio. La vide, la conobbe, e restò senza e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza! Non morí già, ché sue virtuti accolse tutte in quel punto e in guardia al cor le mise, e premendo il suo affanno a dar si volse vita con l'acqua a chi co 'l ferro uccise. Mentre egli il suon de' sacri detti sciolse, colei di gioia trasmutossi, e rise; e in atto di morir lieto e vivace, dir parea: "S'apre il cielo; io vado in pace." D'un bel pallore ha il bianco volto asperso, come a' gigli sarian miste viole, e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso sembra per la pietate il cielo e 'l sole; e la man nuda e fredda alzando verso il cavaliero in vece di parole gli dà pegno di pace. In questa forma passa la bella donna, e par che dorma. Come l'alma gentile uscita ei vede, rallenta quel vigor ch'avea raccolto; e l'imperio di sé libero cede al duol già fatto impetuoso e stolto, ch'al cor si stringe e, chiusa in breve sede la vita, empie di morte i sensi e 'l volto. Già simile a l'estinto il vivo langue al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue. E ben la vita sua sdegnosa e schiva, spezzando a forza il suo ritegno frale, la bella anima sciolta al fin seguiva, che poco inanzi a lei spiegava l'ale; ma quivi stuol de' Franchi a caso arriva, cui trae bisogno d'acqua o d'altro tale, e con la donna il cavalier ne porta, in sé mal vivo e morto in lei ch'è morta. Però che 'l duce loro ancor discosto conosce a l'arme il principe cristiano, onde v'accorre, e poi ravisa tosto la vaga estinta, e duolsi al caso strano. E già lasciar non volle a i lupi esposto il bel corpo che stima ancor pagano, ma sovra l'altrui braccia ambi li pone, e ne vien di Tancredi al padiglione. A fatto ancor nel piano e lento moto non si risente il cavalier ferito; pur fievolmente geme, e quinci è noto che 'l suo corso vital non è fornito. Ma l'altro corpo tacito ed immoto dimostra ben che n'è lo spirto uscito. Cosí portati, è l'uno e l'altro appresso; ma in differente stanza al fine è messo. I pietosi scudier già sono intorno con vari uffici al cavalier giacente, e già se 'n riede a i languidi occhi il giorno, e le mediche mani e i detti ei sente; ma pur dubbiosa ancor del suo ritorno, non s'assecura attonita la mente. Stupido intorno ei guarda, e i servi e 'l loco al fin conosce; e dice afflitto e fioco: "Io vivo? io spiro ancora? e gli odiosi rai miro ancor di questo infausto die? Dí testimon de' miei misfatti ascosi, che rimprovera a me le colpe mie! Ahi! man timida e lenta, or ché non osi, tu che sai tutte del ferir le vie, tu, ministra di morte empia ed infame, di questa vita rea troncar lo stame? Passa pur questo petto, e feri scempi co 'l ferro tuo crudel fa' del mio core; ma forse, usata a' fatti atroci ed empi, stimi pietà dar morte al mio dolore. Dunque i' vivrò tra memorandi essempi misero mostro d'infelice amore: misero mostro, a cui sol pena è degna de l'immensa impietà la vita indegna. Vivrò fra i miei tormenti e le mie cure, mie giuste furie, forsennato, errante; paventarò l'ombre solinghe e scure che 'l primo error mi recheranno inante, e del sol che scoprí le mie sventure, a schivo ed in orrore avrò il sembiante. Temerò me medesmo; e da me stesso sempre fuggendo, avrò me sempre appresso. Ma dove, oh lasso me!, dove restaro le reliquie del corpo e bello e casto? Ciò ch'in lui sano i miei furor lasciaro, dal furor de le fère è forse guasto. Ahi troppo nobil preda! ahi dolce e caro troppo e pur troppo prezioso pasto! ahi sfortunato! in cui l'ombre e le selve irritaron me prima e poi le belve. Io pur verrò là dove sète; e voi meco avrò, s'anco sète, amate spoglie. Ma s'egli avien che i vaghi membri suoi stati sian cibo di ferine voglie, vuo' che la bocca stessa anco me ingoi, e 'l ventre chiuda me che lor raccoglie: onorata per me tomba e felice, ovunque sia, s'esser con lor mi lice." Cosí parla quel misero, e gli è detto ch'ivi quel corpo avean per cui si dole: rischiarar parve il tenebroso aspetto, qual le nube un balen che passe e vóle; e da i riposi sollevò del letto l'inferma de le membra e tarda mole; e traendo a gran pena il fianco lasso, colà rivolse vacillando il passo. Ma come giunse, e vide in quel bel seno, opera di sua man, l'empia ferita, e quasi un ciel notturno anco sereno senza splendor la faccia scolorita, tremò cosí che ne cadea, se meno era vicina la fedele aita. Poi disse: "Oh viso che poi far la morte dolce, ma raddolcir non puoi mia sorte! Oh bella destra che 'l soave pegno d'amicizia e di pace a me porgesti! quali or, lasso!, vi trovo? e qual ne vegno? E voi, leggiadre membra, or non son questi del mio ferino e scelerato sdegno vestigi miserabili e funesti? Oh di par con la man luci spietate: essa le piaghe fe', voi le mirate. Asciutte le mirate? or corra, dove nega d'andare il pianto, il sangue mio." Qui tronca le parole, e come il move suo disperato di morir desio, squarcia le fasce e le ferite, e piove da le sue piaghe essacerbate un rio; e s'uccidea, ma quella doglia acerba, co 'l trarlo di se stesso, in vita il serba. Posto su 'l letto, e l'anima fugace fu richiamata a gli odiosi uffici. Ma la garrula fama omai non tace l'aspre sue angoscie e i suoi casi infelici. Vi tragge il pio Goffredo, e la verace turba v'accorre de' piú degni amici. Ma né grave ammonir, né pregar dolce l'ostinato de l'alma affanno molce. Qual in membro gentil piaga mortale tocca s'inaspra e in lei cresce il dolore, tal da i dolci conforti in sí gran male piú inacerbisce medicato il core. Ma il venerabil Piero, a cui ne cale come d'agnella inferma al buon pastore, con parole gravissime ripiglia il vaneggiar suo lungo, e lui consiglia: "O Tancredi, Tancredi, o da te stesso troppo diverso e da i princípi tuoi, chi sí t'assorda? e qual nuvol sí spesso di cecità fa che veder non puoi? Questa sciagura tua del Cielo è un messo; non vedi lui? non odi i detti suoi? che ti sgrida, e richiama a la smarrita strada che pria segnasti e te l'addita? A gli atti del primiero ufficio degno di cavalier di Cristo ei ti rappella, che lasciasti per farti (ahi cambio indegno!) drudo d'una fanciuila a Dio rubella. Seconda aversità, pietoso sdegno con leve sferza di là su flagella tua folle colpa, e fa di tua salute te medesmo ministro; e tu 'l rifiute? Rifiuti dunque, ahi sconoscente!, il dono del Ciel salubre e 'ncontra lui t'adiri? Misero, dove corri in abbandono a i tuoi sfrenati e rapidi martíri? Sei giunto, e pendi già cadente e prono su 'l precipizio eterno; e tu no 'l miri? Miralo, prego, e te raccogli, e frena quel dolor ch'a morir doppio ti mena." Tace, e in colui de l'un morir la tema poté de l'altro intepidir la voglia. Nel cor dà loco a que' conforti, e scema l'impeto interno de l'interna doglia, ma non cosí che ad or ad or non gema e che la lingua a lamentar non scioglia, ora seco parlando, or con la sciolta anima che dal Ciel forse l'ascolta. Lei nel partir, lei nel tornar del sole chiama con voce stanca, e prega e plora, come usignuol cui 'l villan duro invole dal nido i figli non pennuti ancora, che in miserabil canto afflitte e sole piange le notti, e n'empie i boschi e l'òra. Al fin co 'l novo dí rinchiude alquanto i lumi, e 'l sonno in lor serpe fra 'l pianto. Ed ecco in sogno di stellata veste cinta gli appar la sospirata amica: bella assai piú, ma lo splendor celeste orna e non toglie la notizia antica; e con dolce atto di pietà le meste luci par che gli asciughi, e cosí dica: "Mira come son bella e come lieta, fedel mio caro, e in me tuo duolo acqueta. Tale i' son, tua mercé: tu me da i vivi del mortal mondo, per error, togliesti; tu in grembo a Dio fra gli immortali e divi, per pietà, di salir degna mi fèsti. Quivi io beata amando godo, e quivi spero che per te loco anco s'appresti, ove al gran Sole e ne l'eterno die vagheggiarai le sue bellezze e mie. Se tu medesmo non t'invidii il Cielo e non travii co 'l vaneggiar de' sensi, vivi e sappi ch'io t'amo, e non te 'l celo, quanto piú creatura amar conviensi." Cosí dicendo, fiammeggiò di zelo per gli occhi, fuor del mortal uso accensi; poi nel profondo de' suoi rai si chiuse e sparve, e novo in lui conforto infuse. Consolato ei si desta e si rimette de' medicanti a la discreta aita, e intanto sepellir fa le dilette membra ch'informò già la nobil vita. E se non fu di ricche pietre elette la tomba e da man dedala scolpita, fu scelto almeno il sasso, e chi gli diede figura, quanto il tempo ivi concede. Quivi da faci in lungo ordine accese con nobil pompa accompagnar la feo, e le sue arme, a un nudo pin sospese, vi spiegò sovra in forma di trofeo. Ma come prima alzar le membra offese nel dí seguente il cavalier poteo, di riverenza pieno e di pietate visitò le sepolte ossa onorate. Giunto a la tomba, ove al suo spirto vivo dolorosa prigione il Ciel prescrisse, pallido, freddo, muto, e quasi privo di movimento, al marmo gli occhi affisse. Al fin, sgorgando un lagrimoso rivo, in un languido: "oimè!" proruppe, e disse: "O sasso amato ed onorato tanto, che dentro hai le mie fiamme e fuori il pianto, non di morte sei tu, ma di vivaci ceneri albergo, ove è riposto Amore; e ben sento io da te l'usate faci, men dolci sí, ma non men calde al core. Deh! prendi i miei sospiri, e questi baci prendi ch'io bagno di doglioso umore; e dalli tu, poi ch'io non posso, almeno a le amate reliquie c'hai nel seno. Dalli lor tu, ché se mai gli occhi gira l'anima bella a le sue belle spoglie, tua pietate e mio ardir non avrà in ira, ch'odio o sdegno là su non si raccoglie. Perdona ella il mio fallo, e sol respira in questa speme il cor fra tante doglie. Sa ch'empia è sol la mano; e non l'è noia che, s'amando lei vissi, amando moia. Ed amando morrò: felice giorno, quando che sia; ma piú felice molto se come errando or vado a te d'intorno, allor sarò dentro al tuo grembo accolto. Faccian l'anime amiche in Ciel soggiorno, sia l'un cenere e l'altro in un sepolto; ciò che 'l viver non ebbe, abbia la morte. Oh se sperar ciò lice, altera sorte!" Confusamente si bisbiglia intanto del caso reo ne la rinchiusa terra. Poi s'accerta e divulga, e in ogni canto de la città smarrita il romor erra misto di gridi e di femineo pianto; non altramente che se presa in guerra tutta ruini, e 'l foco e i nemici empi volino per le case e per li tèmpi. Ma tutti gli occhi Arsete in sé rivolve, miserabil di gemito e d'aspetto. Ei come gli altri in lagrime non solve il duol, ché troppo è d'indurato affetto; ma i bianchi crini suoi d'immonda polve si sparge e brutta, e fiede il volto e 'l petto. Or mentre in lui vòlte le turbe sono, va in mezzo Argante e parla in cotal suono: "Ben volev'io, quando primier m'accorsi che fuor si rimanea la donna forte, seguirla immantinente; e ratto corsi per correr seco una medesma sorte. Che non feci o non dissi? o quai non porsi preghiere al re che fèsse aprir le porte? Ei me pregante, e contendente invano, con l'imperio affrenò c'ha qui soprano, Ahi! che s'io allora usciva, o dal periglio qui ricondotta la guerriera avrei, o chiusi, ov'ella il terren fe' vermiglio, con memorabil fine i giorni miei. Ma che potevo io piú? parve al consiglio de gli uomini altramente e de gli dèi: ella morí di fatal morte, ed io quant'or conviensi a me già non oblio. Odi, Gierusalem, ciò che prometta Argante; odi 'l tu, Cielo; e se in ciò manco, fulmina su 'l mio capo: io la vendetta giuro di far ne l'omicida franco, che per la costei morte a me s'aspetta, né questa spada mai depor dal fianco insin ch'ella a Tancredi il cor non passi e 'l cadavero infame a i corvi lassi." Cosí disse egli, e l'aure popolari con applauso seguír le voci estreme; e imaginando sol, temprò gli amari l'aspettata vendetta in quel che geme. Oh vani giuramenti! ecco contrari seguir tosto gli effetti a l'alta speme, e cader questi in tenzon pari estinto sotto colui ch'ei fa già preso e vinto. |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi @mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998