Torquato Tasso
Gerusalemme Liberata
POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO
AL SERENISSIMO SIGNORE
IL SIGNOR DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA
CANTO DICIASSETTESIMO
Gaza è la città frontiera del Califfo d'Egitto, che aveva ottenuto la sua indipendenza ribellandosi a Bisanzio. Mentre il Califfo passa in rassegna il suo esercito, appare Armida circondata da cento donzelle e cento paggi. Il Califfo fa venire alla sua presenza Emireno, nominandolo duce supremo; poi si allontana e si reca a mensa nella gran tenda; qui lo raggiunge Armida, che colle sue parole infiamma d'amore il cuore dei guerrieri: essa promette di divenire moglie di colui che ucciderà Rinaldo. Per primo le risponde Adrasto, poi Tisaferno e quindi tutti. Rinaldo, intanto, con Carlo e Ubaldo si imbarca nella nave della Fortuna; dopo quattro giorni di navigazione giungono in Palestina; appare loro da lontano un albero luminoso con armi nuove appese e a guardia un vecchio, il mago d'Ascalona, che lietamente li riceve e parla a Rinaldo facendogli vedere, riprodotti in uno scudo lucente, tutti i suoi antenati e le glorie della Casa d'Este, e gli tesse l'elogio di Alfonso II. Infine i tre eroipartono sul carro col mago alla volta di Gerusalemme. All'alba giungono in vista della Città Santa; Rinaldo e i suoi compagni si separano dal mago e giungono al campo cristiano.
Argomento |
Il
suo esercito immenso in mostra chiama L'Egizio, e poi contra i Cristian l'invia. Armida che pur di Rinaldo brama La morte, con sua gente anco giungia; E per meglio saziar sua crudel brama, Se in guiderdon della vendetta offria. Ei vestia intanto arme fatali, dove Mira impresse degli avi illustri prove. |
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Gaza è città de la Giudea nel fine, su quella via ch'invèr Pelusio mena, posta in riva del mare, ed ha vicine immense solitudini d'arena, le quai, come Austro suol l'onde marine, mesce il turbo spirante, onde a gran pena ritrova il peregrin riparo o scampo ne le tempeste de l'instabil campo. Del re d'Egitto è la città frontiera, da lui gran tempo inanzi a i Turchi tolta, e però ch'opportuna e prossima era a l'alta impresa ove la mente ha vòlta, lasciando Egitto e la sua regia altera qui traslato il gran seggio e qui raccolta già da varie provincie insieme avea l'innumerabil oste a l'assemblea. Musa, quale stagione e qual là fosse stato di cose or tu mi reca a mente: qual arme il grande imperator, quai posse, qual serva avesse e qual compagna gente, quando del Mezzogiorno in guerra mosse le forze e i regi e l'ultimo Oriente; tu sol le schiere e i duci e sotto l'arme mezzo il mondo raccolto, or puoi dettarme. Poscia che ribellante al greco impero si sottrasse l'Egitto e mutò fede, del sangue di Macon nato un guerriero se 'n fe' tiranno e vi fondò la sede. Ei fu detto Califfo, e del primiero chi n'ha lo scettro al nome anco succede. Cosí per ordin lungo il Nilo i suoi Faraon vide e i Tolomei dopoi. Volgendo gli anni, il regno è stabilito ed accresciuto in guisa tal che viene, Asia e Libia ingombrando, al sirio lito da' marmarici fini e da Cirene, e passa a dentro incontra a l'infinito corso del Nilo assai sovra Siene, e quinci a le campagne inabitate va de la sabbia e quindi al grande Eufrate. A destra ed a sinistra in sé comprende l'odorata maremma e 'l ricco mare, e fuor de l'Eritreo molto si stende incontra al sol che matutino appare. L'imperio ha in sé gran forze, e piú le rende il re ch'or lo governa illustri e chiare, ch'è per sangue signor, ma piú per merto, ne l'arti regie e militari esperto. Questi or co' Turchi, or con le genti perse piú guerre fe': le mosse e le respinse; fu perdente e vincente, e ne le averse fortune fu maggior che quando vinse. Poi che la grave età piú non sofferse de l'armi il peso, alfin la spada scinse; ma non depose il suo guerriero ingegno, e d'onor il desio vasto e di regno. Ancor guerreggia per ministri, ed have tanto vigor di mente e di parole, che de la monarchia la soma grave non sembra a gli anni suoi soverchia mole. Sparsa in minuti regni Africa pave tutta al suo nome e 'l remoto Indo il cole, e gli porge altri volontario aiuto d'armate genti ed altri d'or tributo. Tanto e sí fatto re l'arme raguna, anzi pur adunate omai l'affretta contra il sorgente imperio e la fortuna franca, ne le vittorie omai sospetta. Armida ultima vien: giunge opportuna ne l'ora a punto a la rassegna eletta. Fuor de le mura in spazioso campo passa dinanzi a lui schierato il campo. Egli in sublime soglio, a cui per cento gradi eburnei s'ascende, altero siede; e sotto l'ombra d'un gran ciel d'argento porpora intesta d'or preme co 'l piede, e ricco di barbarico ornamento in abito regal splender si vede: fan torti in mille fascie i bianchi lini alto diadema in nova forma a i crini. Lo scettro ha ne la destra e per canuta barba appar venerabile e severo; e da gli occhi, ch'etade ancor non muta, spira l'ardire e 'l suo vigor primiero, e ben da ciascun atto è sostenuta la maestà de gli anni e de l'impero. Apelle forse o Fidia in tal sembiante Giove formò, ma Giove allor tonante. Stannogli, a destra l'un, l'altro a sinistra, due satrapi, i maggiori: alza il piú degno la nuda spada, del rigor ministra, l'altro il sigillo ha del suo ufficio in segno. Custode un de' secreti, al re ministra opra civil ne' grandi affar del regno, ma prence de gli esserciti e con piena possanza è l'altro ordinator di pena. Sotto, folta corona al seggio fanno con fedel guardia i suoi Circassi astati, ed oltre l'aste hanno corazze ed hanno spade lunghe e ricurve a l'un de' lati. Cosí sedea, cosí scopria il tiranno d'eccelsa parte i popoli adunati; tutte a' suoi piè nel trapassar le schiere chinan, quasi adorando, armi e bandiere. Il popol de l'Egitto in ordin primo fa di sé mostra, e quattro i duci sono: duo de l'alto paese e duo de l'imo, ch'è del celeste Nilo opera e dono. Al mare usurpò il letto il fertil limo, e rassodato al cultivar fu buono; sí crebbe Egitto: oh quanto a dentro è posto quel che fu lido a i naviganti esposto! Nel primiero squadron appar la gente ch'abitò d'Alessandria il ricco piano, ch'abitò il lido vòlto a l'occidente ch'esser comincia omai lido africano. Araspe è il duce lor, duce potente d'ingegno piú che di vigor di mano: ei di furtivi aguati è mastro egregio, e d'ogn'arte moresca in guerra ha il pregio. Secondan quei che posti invèr l'aurora ne la costa asiatica albergaro, e li guida Arontèo cui nulla onora pregio o virtú, ma i titoli il fan chiaro. Non sudò il molle sotto l'elmo ancora, né matutine trombe anco il destaro, ma da gli agi e da l'ombra a dura vita intempestiva ambizion l'invita. Quella che terza è poi, squadra non pare ma un'oste immensa, e campi e lidi tiene; non crederai ch'Egitto mieta ed are per tanti, e pur da una città sua viene: città, ch'a le provincie emula e pare, mille cittadinanze in sé contiene. Del Cairo i' parlo; indi il gran vulgo adduce, vulgo a l'arme restio, Campsone il duce. Vengon sotto Gazèl quei che le biade segaron nel vicin campo fecondo, e piú suso insin là dove ricade il fiume al precipizio suo secondo. La turba egizia avea sol archi e spade, né sosterria d'elmo o corazza il pondo: d'abito è ricca, onde altrui vien che porte desio di preda e non timor di morte. Poi la plebe di Barca, e nuda, e inerme quasi, sotto Alarcon passar si vede, che la vita famelica ne l'erme piaggie gran tempo sostentò di prede. Con istuol manco reo ma inetto a ferme battaglie, di Zumara il re succede; quel di Tripoli poscia: e l'uno e l'altro nel pugnar volteggiando è dotto e scaltro. Diretro ad essi apparvero i cultori de l'Arabia Petrea, de la Felice, che 'l soverchio del gelo e de gli ardori non sente mai, se 'l ver la fama dice; ove nascon gl'incensi e gli altri odori, ove rinasce l'immortal fenice, ch'in quella ricca fabrica ch'aduna a l'essequie, a i natali, ha tomba e cuna. L'abito di costoro è meno adorno, ma l'armi a quei d'Egitto han simiglianti. Ecco altri Arabi poi, che di soggiorno certo non sono stabili abitanti: peregrini perpetui usano intorno trarne gli alberghi e le cittadi erranti. Han questi voce e femminil statura, crin lungo e negro, e negra faccia e scura. E gran canne indiane arman di corte punte di ferro, e 'n su destrier correnti diresti ben che un turbine lor porte, se pur han turbo sí veloce i venti. Da Siface le prime erano scòrte, Aldino in guardia ha le seconde genti, le terze guida Albiazàr ch'è fiero omicida ladron, non cavaliero. La turba è appresso che lasciate avea l'isole cinte da l'arabiche onde, da cui pescando già raccòr solea conche di perle gravide e feconde. Sono i Negri con lor su l'eritrea marina posti a le sinistre sponde. Quegli Agricalte e questi Osmida regge, che schernisce ogni fede ed ogni legge. Gli Etiòpi di Mèroe indi seguiro: Mèroe, che quindi il Nilo isola face ed Astrabora quinci, il cui gran giro è di tre regni e di due fé capace. Li conducea Canario ed Assimiro, re l'uno e l'altro e di Macon seguace e tributario al Califé; ma tenne santa credenza il terzo e qui non venne. Poi due regi soggetti anco venieno con squadre d'arco armate e di quadrella: un, soldano è d'Ormús, che dal gran seno persico è cinta, nobil terra e bella; l'altro, di Boecan; questa è nel seno del gran flusso marino isola anch'ella, ma quando poi scemando il mar s'abbassa, co 'l piede asciutto il peregrin vi passa. Né te, Altamoro, entro al pudico letto potuto ha ritener la sposa amata. Pianse, percosse il biondo crine e 'l petto per distornar la tua fatale andata: "Dunque," dicea "crudel, piú che 'l mio aspetto, del mar l'orrida faccia a te fia grata? fia l'arme al braccio tuo piú caro peso che 'l picciol figlio a i dolci scherzi inteso?" È questi re di Sarmacante; e 'l manco ch'in lui si pregi, è il libero diadema, cosí dotto è ne l'arme, e cosí franco ardir congiunge a gagliardia suprema. Saprallo ben (l'annunzio) il popol franco, ed è ragion che insino ad or ne tema. I suoi guerrieri indosso han la corazza, la spada al fianco ed a l'arcion la mazza. Ecco poi fin da gl'Indi e da l'albergo de l'aurora venuto Adrasto il fero, che di serpenti indosso ha per usbergo il cuoio verde e maculato a nero, e smisurato a un elefante il tergo preme cosí come si suol destriero. Gente guida costui di qua dal Gange che si lava nel mar che l'Indo frange. Ne la squadra che segue è scelto il fiore de la regal milizia, e v'ha que' tutti che con regal mercé, con degno onore, e per guerra e per pace eran condutti, ch'armati a securezza ed a terrore vengono in su i destrier possenti instrutti; e de' purpurei manti e de la luce de l'acciaio e de l'oro il ciel riluce. Fra questi è il crudo Alarco ed Odemaro ordinator di squadre ed Idraorte, e Rimedon che per l'audacia è chiaro, sprezzator de' mortali e de la morte; e Tigrane e Rapoldo il gran corsaro, già de' mari tiranno; e Ormondo il forte, e Marlabusto arabico a chi il nome l'Arabie dièr che ribellanti ha dome. Evvi Orindo, Arimon, Pirga, Brimarte espugnator de le città, Sifante domator de' cavalli; e tu de l'arte de la lotta maestro, Aridamante; e Tisaferno, il folgore di Marte, a cui non è chi d'agguagliar si vante o se in arcione o se pedon contrasta, o se rota la spada o corre l'asta. Ma duce è un prence armeno il qual tragitto al paganesmo ne l'età novella fe' da la vera fede, ed ove ditto fu già Clemente, ora Emiren s'appella; per altro, uom fido e caro al re d'Egitto sovra quanti per lui calcàr mai sella: è duce insieme e cavalier soprano per cor, per senno e per valor di mano. Nessun piú rimanea, quando improvisa Armida apparve e dimostrò sua schiera. Venia sublime in un gran carro assisa, succinta in gonna e faretrata arciera; e mescolato il novo sdegno in guisa co 'l natio dolce in quel bel volto s'era, che vigor dàlle, e cruda ed acerbetta par che minacci e minacciando alletta. Somiglia il carro a quel che porta il giorno, lucido di piropi e di giacinti; e frena il dotto auriga al giogo adorno quattro unicorni a coppia a coppia avinti. Cento donzelle e cento paggi intorno pur di faretra gli omeri van cinti, ed a i bianchi destrier premono il dorso che sono al giro pronti e lievi al corso. Segue il suo stuolo, ed Aradin con quello ch'Idraote assoldò ne la Soria. Come allor che 'l rinato unico augello i suo' Etiòpi a visitar s'invia vario e vago la piuma, e ricco e bello di monil, di corona aurea natia, stupisce il mondo e va dietro ed a i lati, meravigliando, essercito d'alati, cosí passa costei, meravigliosa d'abito, di maniere e di sembiante. Non è allor sí inumana o sí ritrosa alma d'amor che non divegna amante. Veduta a pena e in gravità sdegnosa, invaghir può genti sí varie e tante; che sarà poi, quando in piú lieto viso co' begli occhi lusinghi e co 'l bel riso? Ma poi ch'ella è passata, il re de' regi comanda ch'Emireno a sé ne vegna, ché lui preporre a tutti i duci egregi e duce farlo universal disegna. Quel, già presago, a i meritati pregi con fronte vien che ben del grado è degna: la guardia de' Circassi in due si fende e gli fa strada al seggio, ed ei v'ascende; e chino il capo e le ginocchia, al petto giunge la destra. Il re cosí gli dice: "Te' questo scettro; a te, Emiren, commetto le genti, e tu sostieni in lor mia vice, e porta, liberando il re soggetto, su' Franchi l'ira mia vendicatrice. Va', vedi e vinci; e non lasciar de' vinti avanzo, e mena presi i non estinti." Cosí parlò il tiranno, e del soprano imperio il cavalier la verga prese: "Prendo scettro, signor, d'invitta mano," disse "e vo co' tuo' auspici a l'alte imprese, e spero, in tua virtú tuo capitano, de l'Asia vendicar le gravi offese; né tornerò se vincitor non torno, e la perdita avrà morte, non scorno. Ben prego il Ciel che, s'ordinato male (ch'io già no 'l credo) di là su minaccia, tutta su 'l capo mio quella fatale tempesta accolta di sfogar gli piaccia; e salvo rieda il campo, e 'n trionfale piú che in funebre pompa il duce giaccia." Tacque, e seguí co' popolari accenti misto un gran suon de' barbari instrumenti. E fra le grida ei suoni in mezzo a densa nobile turba il re de' re si parte; e giunto a la gran tenda, a lieta mensa raccoglie i duci e siede egli in disparte, ond'or cibo, or parole altrui dispensa, né lascia inonorata alcuna parte. Armida a l'arte sue ben trova loco quivi opportun fra l'allegrezza e 'l gioco. Ma già tolte le mense, ella che vede tutte le viste in sé fisse ed intente, e ch'a' segni ben noti omai s'avvede che sparso è il suo venen per ogni mente, sorge e si volge al re da la sua sede con atto insieme altero e riverente, e quanto può magnanima e feroce cerca parer nel volto e ne la voce. "O re supremo," dice "anch'io ne vegno per la fé, per la patria ad impiegarmi. Donna son io, ma regal donna: indegno già di reina il guerreggiar non parmi. Usi ogn'arte regal chi vuol il regno, dansi a l'istessa man lo scettro e l'armi; saprà la mia (né torpe al ferro o langue) ferir e trar da le ferite il sangue. Né creder che sia questo il dí primiero ch'a ciò nobil m'invoglia alta vaghezza, ché in pro di nostra legge e del tuo impero son io già prima a militar avezza. Ben rammentar déi tu s'io dico il vero, ché d'alcun'opra nostra hai pur contezza, e sai che molti de' maggior campioni che dispieghin la Croce io fèi prigioni. Da me presi ed avinti, e da me furo in magnifico dono a te mandati; ed ancor si stariano in fondo oscuro di perpetua prigion per te guardati, e saresti ora tu via piú securo di terminar vincendo i tuoi gran piati, se non che 'l fier Rinaldo, il qual uccise i miei guerrieri, in libertà li mise. Chi sia Rinaldo è noto; e qui di lui lunga istoria di cose anco si conta: questo è il crudel ond'aspramente fui offesa poi, né vendicata ho l'onta; onde sdegno a ragione aggiunge i sui stimoli, e piú mi rende a l'arme pronta. Ma qual sia la mia ingiuria, a lungo detta saravvi; or tanto basti: io vuo' vendetta. E la procurerò, che non invano soglion portarne ogni saetta i venti, e la destra del Ciel di giusta mano drizza l'arme talor contra i nocenti; ma s'alcun fia ch'al barbaro inumano tronchi il capo odioso e me 'l presenti, a grado avrò questa vendetta ancora, benché fatta da me piú nobil fòra, a grado sí che gli sarà concessa quella ch'io posso dar maggior mercede: me d'un tesor dotata e di me stessa in moglie avrà, s'in guiderdon mi chiede. Cosí ne faccio qui stabil promessa, cosí ne giuro inviolabil fede. Or s'alcun è che stimi i premi nostri degni del rischio, parli e si dimostri." Mentre la donna in guisa tal favella, Adrasto affigge in lei cupidi gli occhi: "Tolga il Ciel" dice poi "che le quadrella nel barbaro omicida unqua tu scocchi, ché non è degno un cor villano, o bella saettatrice, che tuo colpo il tocchi. Atto de l'ira tua ministro sono, ed io del capo suo ti farò dono. Io sterparogli il core, io darò in pasto le membra lacerate a gli avoltoi." Cosí parlava l'indiano Adrasto, né soffrí Tisaferno i vanti suoi: "E chi sei," disse "tu, che sí gran fasto mostri, presente il re, presenti noi? Forse è qui tal ch'ogni tuo vanto audace supererà co' fatti, e pur si tace." Rispose l'indo fero: "Io mi son uno ch'appo l'opre il parlare ho scarso e scemo. Ma s'altrove che qui cosí importuno parlavi, tu parlavi il detto estremo." Seguito avrian, ma raffrenò ciascuno dimostrando la destra il re supremo. Disse ad Armida poi: "Donna gentile, ben hai tu cor magnanimo e virile; e ben sei degna a cui suoi sdegni ed ire l'uno e l'altro di lor conceda e done, perché tu poscia a voglia tua le gire contra quel forte predator fellone. Là fian meglio impiegate, e 'l vostro ardire là può chiaro mostrarsi in paragone." Tacque, ciò detto; e quegli offerta nova fecero a lei di vendicarla a prova. Né quelli pur, ma qual piú in guerra è chiaro la lingua al vanto ha baldanzosa e presta. S'offerser tutti a lei, tutti giuraro vendetta far su l'essecrabil testa, tante contra il guerrier ch'ebbe sí caro armi or costei commove e sdegni desta. Ma esso, poi ch'abbandonò la riva, felicemente al gran corso veniva. Per le medesme vie ch'in prima corse, la navicella indietro si raggira; e l'aura, ch'a le vele il volo porse, non men seconda al ritornar vi spira. Il giovenetto or guarda il polo e l'Orse ed or le stelle rilucenti mira, via de l'opaca notte, or fiumi e monti che sporgono su 'l mar l'alpestre fronti; or lo stato del campo, or il costume di varie genti investigando intende. E tanto van per le salate spume, che lor da l'orto il quarto sol risplende; e quando omai n'è disparito il lume, la nave terra finalmente prende. Disse la donna allor. "Le palestine piaggie son qui: qui del viaggio è il fine." Quinci i tre cavalier su 'l lito spose, e sparve in men che non si forma un detto. Sorgea la notte intanto, e de le cose confondea i vari aspetti un solo aspetto. E in quelle solitudini arenose essi veder non ponno o muro o tetto, né d'uomo o di destriero appaion l'orme o d'altro pur che del camin gli informe. Poi che stati sospesi alquanto foro, mossero i passi e dièr le spalle al mare. Ed ecco di lontano a gli occhi loro un non so che di luminoso appare, che con raggi d'argento e lampi d'oro la notte illustra e fa l'ombre piú rare. Essi ne vanno allor contra la luce, e già veggion che sia quel che sí luce. Veggiono a un grosso tronco armi novelle incontra i raggi de la luna appese, e fiammeggiar, piú che nel ciel le stelle, gemme ne l'elmo aurato e ne l'arnese; e scoprono a quel lume imagin belle nel grande scudo in lungo ordine stese. Presso, quasi custode, un vecchio siede che contra lor se 'n va, come li vede. Ben è da' due guerrier riconosciuto di saggio amico il venerabil volto. Ma, poi che ricevé lieto saluto e ch'ebbe lor cortesemente accolto, al giovenetto, il qual tacito e muto il riguardava, il ragionar rivolto: "Signor, te sol" gli disse "io qui soletto in cotal ora desiando aspetto, ché, se no 'l sai, ti sono amico; e quanto curi le cose tue chiedilo a questi, ch'essi, scòrti da me, vinser l'incanto ove tua vita misera traesti. Or odi i detti miei, contrari al canto de le sirene, e non ti sian molesti, ma gli serba nel cor fin che distingua meglio a te il ver piú saggia e santa lingua. Signor, non sotto l'ombra in piaggia molle tra fonti e fior, tra ninfe e tra sirene, ma in cima a l'erto e faticoso colle de la virtú riposto è il nostro bene. Chi non gela e non suda e non s'estolle da le vie del piacer, là non perviene. Or vorrai tu lungi da l'alte cime giacer, quasi tra valli augel sublime? T'alzò natura inverso il ciel la fronte, e ti diè spirti generosi ed alti, perché in su miri e con illustri e conte opre te stesso al sommo pregio essalti; e ti diè l'ire ancor veloci e pronte, non perché l'usi ne' civili assalti né perché sian di desideri ingordi elle ministre, ed a ragion discordi, ma perché il tuo valore, armato d'esse, piú fero assalga gli aversari esterni, e sian con maggior forza indi ripresse le cupidigie, empi nemici interni. Dunque ne l'uso per cui fur concesse l'impieghi il saggio duce e le governi, ed a suo senno or tepide or ardenti le faccia, ed or le affretti ed or le allenti." Cosí parlava; e l'altro, attento e cheto a le parole sue d'alto consiglio, fea de' detti conserva, e mansueto volgeva a terra e vergognoso il ciglio. Ben vide il mago veglio il suo secreto, e gli soggiunse: "Alza la fronte, o figlio, e in questo scudo affissa gli occhi omai, ch'ivi de' tuoi maggior l'opre vedrai. Vedrai de gli avi il divulgato onore, lunge precorso in loco erto e solingo; tu dietro anco riman', lento cursore, per questo de la gloria illustre arringo. Su su, te stesso incita: al tuo valore sia sferza e spron quel ch'io colà dipingo." Cosí diceva; e 'l cavalier affisse lo sguardo là, mentre colui sí disse. Con sottil magistero in campo angusto forme infinite espresse il fabro dotto, del sangue d'Azio, glorioso, augusto l'ordin vi si vedea, nulla interrotto: vedeasi dal roman fonte vetusto i suoi rivi dedur puro e incorrotto. Stan coronati i principi d'alloro, mostra il vecchio le guerre e i pregi loro. Mostragli Caio, allor ch'a strane genti va prima in preda il già inclinato impero, prendere il fren de' popoli volenti e farsi d'Esti il principe primiero, ed a lui ricovrarsi i men potenti vicini a cui rettor facea mestiero. Poscia, quando ripassa il varco noto, a gli inviti d'Onorio, il fero goto, e quando sembra che piú avampi e ferva di barbarico incendio Italia tutta, e quando Roma, prigioniera e serva, sin dal profondo teme esser destrutta, mostra ch'Aurelio in libertà conserva la gente sotto al suo scettro ridutta. Mostragli poi Foresto che s'oppone a l'unno regnator de l'Aquilone. Ben si conosce al volto Attila il fello, ché con occhi di drago ei par che guati, ed ha faccia di cane, ed a vedello dirai che ringhi e udir credi i latrati; poi vinto il fero in singolar duello mirasi rifuggir fra gli altri armati, e la difesa d'Aquilea poi tòrre il buon Foresto, de l'Italia Ettorre. Altrove è la sua morte, e 'l suo destino è destin de la patria. Ecco l'erede del padre grande il gran figlio Acarino, ch'a l'italico onor campion succede. Cedeva a i fati, e non a gli Unni, Altino, poi riparava in piú secura sede; poi raccoglieva una città di mille in val di Po case disperse in ville. Contra il gran fiume ch'in diluvio ondeggia muniasi, e quindi la città sorgea che ne' futuri secoli la reggia de' magnanimi Estensi esser dovea. Par che rompa gli Alani e che si veggia contra Odoacro aver fortuna rea, e morir per l'Italia: oh nobil morte, che de l'onor paterno il fa consorte! Cader seco Alforisio, ire in essiglio Azzo si vede e 'l suo fratel con esso, e ritornar con l'arme e co 'l consiglio, dapoi che fu il tiranno erulo oppresso. Trafitto di saetta il destro ciglio, segue l'estense Epaminonda oppresso; e par lieto morir, poscia che 'l crudo Totila è vinto e salvo il caro scudo. Di Bonifacio parlo; e fanciulletto premea Valerian l'orme del padre: già di destra viril, viril di petto, cento no 'l sostenean gotiche squadre. Non lunge, ferocissimo in aspetto, fea contra Schiavi Ernesto opre leggiadre; ma inanzi a lui l'intrepido Aldoardo da Monscelce escludeva il re lombardo. Enrico v'era e Berengario; e dove spiega il gran Carlo la sua augusta insegna par ch'egli il primo feritor si trove, ministro o capitan d'impresa degna. Poi segue Lodovico, e quegli il move contra il nipote ch'in Italia regna: ecco in battaglia il vince e 'l fa prigione; eravi poi co' cinque figli Ottone. V'era Almerico; e si vedea già fatto de la città, donna del Po, marchese. Devotamente il ciel riguarda, in atto di contemplante, il fondator di chiese. D'incontra Azzo secondo avean ritratto far contra Berengario aspre contese; e dopo un corso di fortuna alterno vinceva, e de l'Italia avea il governo. Vedi Alberto il figliuolo ir fra' Germani e colà far le sue virtú sí note, che, vinti in giostra e vinti in guerra i Dani, genero il compra Otton con larga dote. Vedigli a tergo Ugon, quel ch'a' Romani fiaccar le corna impetuoso pote, e che marchese de l'Italia fia detto e Toscana tutta avrà in balia. Poscia Tedaldo, e Bonifacio a canto di Beatrice sua poi v'era espresso. Non si vedea virile erede a tanto retaggio a sí gran padre esser successo. Seguia Matelda, ed adempia ben quanto difetto par nel numero e nel sesso, che può la saggia e valorosa donna sovra corone e scettri alzar la gonna. Spira spiriti maschi in nobil volto, mostra vigor piú che viril lo sguardo: là configea i Normanni, e 'n fuga vòlto si dileguava il già invitto Guiscardo; qui rompea Enrico il quarto, ed a lui tolto offriva al tempio imperial stendardo; qui riponea il pontefice soprano nel gran soglio di Pietro in Vaticano. Poi vedi, in guisa d'uom ch'onori ed ami, ch'or l'è al fianco Azzo il quinto, or la seconda. Ma d'Azzo il quarto in piú felici rami germogliava la prole alma e feconda. Va dove par che la Germania il chiami Guelfo il figliuol, figliuol di Cunigonda; e 'l buon germe roman con destro fato è ne' campi bavarici traslato. Là d'un gran ramo estense ei par ch'inesti l'arbore di Guelfon, ch'è per sé vieto; quel ne' suoi Guelfi rinovar vedresti scettri e corone d'or, piú che mai lieto, e co 'l favor de' bei lumi celesti andar poggiando, e non aver divieto: già confina co 'l ciel, già mezza ingombra la gran Germania, e tutta anco l'adombra. Ma ne' suoi rami italici fioriva bella non men la regal pianta a prova. Bertoldo qui d'incontra a Guelfo usciva, qui Azzo il sesto i suoi prischi rinova. Questa è la serie de gli eroi che viva nel metallo spirante par si mova. Rinaldo sveglia, in rimirando, mille spirti d'onor da le natie faville, e d'emula virtú l'animo altero commosso avampa, ed è rapito in guisa che ciò che imaginando ha nel pensiero, città abbattuta e presa e gente uccisa, pur, come sia presente e come vero, dinanti agli occhi suoi vedere avisa; e s'arma frettoloso, e con la spene già la vittoria usurpa e la previene. Ma Carlo, il quale a lui del regio erede di Dania già narrata avea la morte, la destinata spada allor gli diede: "Prendila," disse "e sia con lieta sorte, e solo in pro de la cristiana fede l'adopra, giusto e pio non men che forte; e fa del primo suo signor vendetta che t'amò tanto, e ben a te s'aspetta." Rispose egli al guerriero: "A i cieli piaccia che la man che la spada ora riceve, con lei del suo signor vendetta faccia: paghi con lei ciò che per lei si deve." Carlo, rivolto a lui con lieta faccia, lunghe grazie ristrinse in sermon breve. Ma lor s'offriva il mago, ed al viaggio notturno l'affrettava il nobil saggio. "Tempo è" dicea "di girne ove t'attende Goffredo e 'l campo, e ben giungi opportuno. Or n'andiam pur, ch'a le cristiane tende scorger ben vi saprò per l'aer bruno." Cosí dice egli, e poi su 'l carro ascende e lor v'accoglie senza indugio alcuno; e rallentando a' suoi destrieri il morso gli sferza, e drizza a l'oriente il corso. Taciti se ne gian per l'aria nera, quando al garzon si volge il veglio e dice: "Veduto hai tu de la tua stirpe altera i rami e la vetusta alta radice; e se ben ella da l'età primiera stata è fertil d'eroi madre e felice, non è né fia di partorir mai stanca, ché per vecchiezza in lei virtú non manca. E come tratto ho fuor del fosco seno de l'età prisca i primi padri ignoti, cosí potessi ancor scoprire a pieno ne' secoli avenire i tuoi nepoti, e pria ch'essi apran gli occhi al bel sereno di questa luce, farli al mondo noti! ché de' futuri eroi già non vedresti l'ordin men lungo, o pur men chiari i gesti. Ma l'arte mia per sé dentro al futuro non scorge il ver che troppo occulto giace, se non caliginoso e dubbio e scuro, quasi lunge, per nebbia, incerta face; e se cosa qual certo io m'assecuro affermarti, non sono in questo audace, ch'io l'intesi da tal che senza velo i secreti talor scopre del Cielo. Quel ch'a lui rivelò luce divina e ch'egli a me scoperse, io a te predico: "Non fu mai greca o barbara o latina progenie, in questo o nel buon tempo antico, ricca di tanti eroi quanti destina a te chiari nepoti il Cielo amico, ch'agguaglieran qual piú chiaro si noma di Sparta, di Cartagine e di Roma. Ma fra gli altri" mi disse "Alfonso io sceglio primo in virtú ma in titolo secondo che nascer dée quando, corrotto e veglio, povero fia d'uomini illustri il mondo; questo fia tal che non sarà chi meglio la spada usi o lo scettro, o meglio il pondo o de l'arme sostegna o del diadema, gloria del sangue tuo, gemma suprema. Darà, fanciullo, in varie imagin fere di guerra, i segni di valor sublime: fia terror de le selve e de le fère, e ne gli arringhi avrà le lodi prime; poscia riporterà da pugne vere palme vittoriose e spoglie opime, e sovente averrà che 'l crin si cigna or di lauro, or di quercia, or di gramigna. De la matura età pregi men degni non fiano stabilir pace e quiete, mantener sue città fra l'arme e i regni di possenti vicin tranquille e chete, nutrire e fecondar l'arti e gl'ingegni, celebrar giochi illustri e pompe liete, librar con giusta lance e pene e premi, mirar da lunge e preveder gli estremi. Oh s'avenisse mai che contra gli empi che tutte infesteran le terre e i mari, e de la pace in quei miseri tempi daran le leggi a i popoli piú chiari, duce se 'n gisse a vendicare i tèmpi da lor distrutti e i violati altari, qual ei giusta faria grave vendetta su 'l gran tiranno e su l'iniqua setta! Indarno a lui con mille schiere armate quinci il Turco opporriasi e quindi il Mauro, ch'egli portar potrebbe oltre l'Eufrate, ed oltre i gioghi del nevoso Tauro ed oltre i regni ov'è perpetua state, la Croce e 'l bianco augello e i gigli d'auro, e per battesmo de le nere fronti del gran Nilo scoprir le ignote fonti." Cosí parlava il veglio, e le parole lietamente accoglieva il giovenetto, che del pensier de la futura prole un tacito piacer sentia nel petto. L'alba intanto sorgea nunzia del sole, e 'l ciel cangiava in oriente aspetto, e su le tende già potean vedere da lunge il tremolar de le bandiere. Ricominciò di novo allora il saggio: "Vedete il sol che vi riluce in fronte, e vi discopre con l'amico raggio le tende e 'l piano e la cittade e 'l monte. Securi d'ogni intoppo e d'ogni oltraggio io scòrti v'ho fin qui per vie non conte; potete senza guida ir per voi stessi omai; né lece a me che piú m'appressi." Cosí tolse congedo, e fe' ritorno lasciando i cavalier ivi pedoni; ed essi pur contra il nascente giorno seguír lor strada e gír a i padiglioni. Portò la fama e divulgò d'intorno l'aspettato venir dei tre baroni, e inanzi ad essi al pio Goffredo corse che per raccòrli dal suo seggio sorse. |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi @mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998