Torquato Tasso
Gerusalemme Liberata
POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO
AL SERENISSIMO SIGNORE
IL SIGNOR DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA
CANTO OTTAVO
Calmatasi la tempesta, all'alba il demone Astragorre invita la Furia Aletto a seminare zizzania fra i Crociati. Il cavaliere Carlo il Danese narra la morte di Sveno, signore dei Danesi, che, desideroso di gloria, con uno stuolo di scelti compagni era partito per Gerusalemme; dopo varie peripezie, una notte Sveno e i suoi sono assaliti da un gran numero di barbari; fino al mattino dura la battaglia: Sveno muore ucciso da Solimano e dei duemila restano solo in cento; Carlo cade svenuto. Al suo risveglio vede due eremiti; si alza e vanno vicino al corpo di Sveno: uno dei due monaci prende dalla mano del principe morto la spada e l'affida a Carlo perché la consegni a Rinaldo che con essa possa vendicare la morte del giovane Sveno. Il racconto commuove tutti e fa venire in mente Rinaldo. Intanto tornano al campo cristiano quelli che erano usciti per depredare e raccogliere vitto per i Crociati, e fra le altre cose riportano indietro anche le armi e le vesti insanguinate di Rinaldo. Goffredo si fa raccontare da Aliprando ciò che è successo. Aliprando racconta il ritrovamento del corpo di Rinaldo, senza la testa e senza il braccio destro, e come un ragazzino gli abbia rivelato che era stato assalito e ucciso da un gruppo di armati che usciva dal bosco, forse cristiani. Nella notte ad Argillano appare in sogno il cadavere di Rinaldo che regge nella mano sinistra la sua testa e lo invita a fuggire dalle tende cristiane e dal feroce Goffredo. Sbigottito si sveglia Argillano e raduna i guerrieri d'Italia rivelando loro il suo sogno accusando Goffredo e i suoi Francesi. Intanto la furia Aletto eccita gli animi. Ne nasce un tumulto; Baldovino accorre in aiuto di Goffredo e rivolge una preghiera a Dio affinchè illumini la mente degli uomini. Goffredo, illuminato dal Cielo, parla agli uomini e frena gli audaci e fa mettere in catene Argillano. Goffredo decide che Gerusalemme sarebbe stata assalita dopo due o tre giorni e torna a sovrintendere i lavori di preparazione dell'assalto. In seguito tutti narreranno un prodigio: un alato guerriero teneva alto lo scudo a proteggere Goffredo mentre parlava.
Argomento |
Narra a Goffredo del
signor de' Dani Il valor prima un messo, e poi la morte Credendo quei d'Italia a' segni vani, Stimano estinto il lor Rinaldo forte. Dunque al furor ch'Aletto spira, insani, di soverchia ira, e d'odio apron le porte: E minaccia Goffredo: ei con la voce Sola in lor frena l'impeto feroce. |
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Già cheti
erano i tuoni e le tempeste e cessato il soffiar d'Austro e di Coro, e l'alba uscia de la magion celeste con la fronte di rose e co' piè d'oro. Ma quei che le procelle avean già deste non rimaneansi ancor da l'arti loro, anzi l'un d'essi, ch'Astragorre è detto, cosí parlava a la compagna Aletto: "Mira, Aletto, venirne (ed impedito esser non può da noi) quel cavaliero che da le fere mani è vivo uscito del sovran difensor del nostro impero. Questi, narrando del suo duce ardito e de' compagni a i Franchi il caso fero, paleserà gran cose; onde è periglio che si richiami di Bertoldo il figlio. Sai quanto ciò rilevi e se conviene a i gran princípi oppor forza ed inganno. Scendi tra i Franchi adunque, e ciò ch'a bene colui dirà tutto rivolgi in danno: spargi le fiamme e 'l tòsco entro le vene del Latin, de l'Elvezio e del Britanno, movi l'ire e i tumulti a fa' tal opra che tutto vada il campo al fin sossopra. L'opra è degna di te, tu nobil vanto te 'n désti già dinanzi al signor nostro." Cosí le parla, e basta ben sol tanto perché prenda l'impresa il fero mostro. Giunto è su 'l vallo dei cristiani intanto quel cavaliero il cui venir fu mostro, e disse lor: "Deh, sia chi m'introduca per mercede, o guerrieri, al sommo duca." Molti scorta gli furo al capitano, vaghi d'udir del peregrin novelle. Egli inchinollo, e l'onorata mano volea baciar che fa tremar Babelle; "Signor," poi dice "che con l'oceano termini la tua fama e con le stelle, venirne a te vorrei piú lieto messo." Qui sospirava, e soggiungeva appresso: "Sveno, del re de' Dani unico figlio, gloria e sostegno a la cadente etade, esser tra quei bramò che 'l tuo consiglio seguendo han cinto per Giesú le spade; né timor di fatica o di periglio, né vaghezza del regno, né pietade del vecchio genitor, sí degno affetto intepidír nel generoso petto. Lo spingeva un desio d'apprender l'arte de la milizia faticosa e dura da te, sí nobil mastro, e sentia in parte sdegno e vergogna di sua fama oscura, già di Rinaldo il nome in ogni parte con gloria udendo in verdi anni matura; ma piú ch'altra cagione, il mosse il zelo non del terren ma de l'onor del Cielo. Precipitò dunque gli indugi, e tolse stuol di scelti compagni audace e fero, e dritto invèr la Tracia il camin volse a la città che sede è de l'impero. Qui il greco Augusto in sua magion l'accolse, qui poi giunse in tuo nome un messaggiero. Questi a pien gli narrò come già presa fosse Antiochia, e come poi difesa; difesa incontra al Perso, il qual con tanti uomini armati ad assediarvi mosse, che sembrava che d'arme e d'abitanti vòto il gran regno suo rimaso fosse. Di te gli disse, e poi narrò d'alquanti sin ch'a Rinaldo giunse, e qui fermosse; contò l'ardita fuga, e ciò che poi fatto di glorioso avea tra voi. Soggiunse al fin come già il popol franco veniva a dar l'assalto a queste porte; e invitò lui ch'egli volesse almanco de l'ultima vittoria esser consorte. Questo parlare al giovenetto fianco del fero Sveno è stimolo sí forte, ch'ogn'ora un lustro pargli infra pagani rotar il ferro e insanguinar le mani. Par che la sua viltà rimproverarsi senta ne l'altrui gloria, e se ne rode; e ch'il consiglia e ch'il prega a fermarsi, o che non l'essaudisce o che non l'ode. Rischio non teme, fuor che 'l non trovarsi de' tuoi gran rischi a parte e di tua lode; questo gli sembra sol periglio grave, de gli altri o nulla intende o nulla pave. Egli medesmo sua fortuna affretta, fortuna che noi tragge e lui conduce, però ch'a pena al suo partire aspetta i primi rai de la novella luce. È per miglior la via piú breve eletta; tale ei la stima, ch'è signor e duce, né i passi piú difficili o i paesi schivar si cerca de' nemici offesi. Or difetto di cibo, or camin duro trovammo, or violenza ed or aguati; ma tutti fur vinti i disagi, e furo or uccisi i nemici ed or fugati. Fatto avean ne' perigli ogn'uom securo le vittorie e insolenti i fortunati, quando un dí ci accampammo ove i confini non lunge erano omai de' Palestini. Quivi da i precursori a noi vien detto ch'alto strepito d'arme avean sentito, e viste insegne e indizi onde han sospetto che sia vicino essercito infinito. Non pensier, non color, non cangia aspetto, non muta voce il signor nostro ardito, benché molti vi sian ch'al fero aviso tingan di bianca pallidezza il viso. Ma dice: `Oh quale omai vicina abbiamo corona o di martirio o di vittoria! L'una spero io ben piú, ma non men bramo l'altra ove è maggior merto e pari gloria. Questo campo, o fratelli, ove or noi siamo, fia tempio sacro ad immortal memoria, in cui l'età futura additi e mostri le nostre sepolture e i trofei nostri.' Cosí parla, e le guardie indi dispone e gli uffici comparte e la fatica. Vuol ch'armato ognun giaccia, e non depone ei medesmo gli arnesi o la lorica. Era la notte ancor ne la stagione ch'è piú del sonno e del silenzio amica, allor che d'urli barbareschi udissi romor che giunse al cielo ed a gli abissi. Si grida `A l'armi! a l'armi!', e Sveno involto ne l'armi inanzi a tutti oltre si spinge, e magnanimamente i lumi e 'l volto di color d'ardimento infiamma e tinge. Ecco siamo assaliti, e un cerchio folto da tutti i lati ne circonda e stringe, e intorno un bosco abbiam d'aste e di spade e sovra noi di strali un nembo cade. Ne la pugna inegual (però che venti gli assalitori sono incontra ad uno) molti d'essi piagati e molti spenti son da cieche ferite a l'aer bruno; ma il numero de gli egri e de' cadenti fra l'ombre oscure non discerne alcuno: copre la notte i nostri danni, e l'opre de la nostra virtute insieme copre. Pur sí fra gli altri Sveno alza la fronte ch'agevol cosa è che veder si possa, e nel buio le prove anco son conte a chi vi mira, e l'incredibil possa. Di sangue un rio, d'uomini uccisi un monte d'ogni intorno gli fanno argine e fossa; e dovunque ne va, sembra che porte lo spavento ne gli occhi, e in man la morte. Cosí pugnato fu sin che l'albore rosseggiando nel ciel già n'apparia. Ma poi che scosso fu il notturno orrore che l'orror de le morti in sé copria, la desiata luce a noi terrore con vista accrebbe dolorosa e ria, ché pien d'estinti il campo e quasi tutta nostra gente vedemmo omai destrutta. Duomila fummo, e non siam cento. Or quando tanto sangue egli mira e tante morti, non so se 'l cuor feroce al miserando spettacolo si turbi e si sconforti; ma già no 'l mostra, anzi la voce alzando: `Seguiam' ne grida `que' compagni forti ch'al Ciel lunge da i laghi averni e stigi n'han segnati co 'l sangue alti vestigi.' Disse, e lieto (credo io) de la vicina morte cosí nel cor come al sembiante, incontra alla barbarica ruina portonne il petto intrepido e costante. Tempra non sosterrebbe, ancor che fina fosse e d'acciaio no, ma di diamante, i feri colpi, onde egli il campo allaga, e fatto è il corpo suo solo una piaga. La vita no, ma la virtú sostenta quel cadavero indomito e feroce. Ripercote percosso e non s'allenta, ma quanto offeso è piú tanto piú noce. Quando ecco furiando a lui s'aventa uom grande, c'ha sembiante e guardo atroce; e dopo lunga ed ostinata guerra, con l'aita di molti al fin l'atterra. Cade il garzone invitto (ahi caso amaro!), né v'è fra noi chi vendicare il possa. Voi chiamo in testimonio, o del mio caro signor sangue ben sparso e nobil ossa, ch'allor non fui de la mia vita avaro, né schivai ferro né schivai percossa; e se piaciuto pur fosse là sopra ch'io vi morissi, il meritai con l'opra. Fra gli estinti compagni io sol cadei vivo, né vivo forse è chi mi pensi; né de' nemici piú cosa saprei ridir, sí tutti avea sopiti i sensi. Ma poi che tornò il lume a gli occhi miei, ch'eran d'atra caligine condensi, notte mi parve, ed a lo sguardo fioco s'offerse il vacillar d'un picciol foco. Non rimaneva in me tanta virtude ch'a discerner le cose io fossi presto, ma vedea come quei ch'or apre or chiude gli occhi, mezzo tra 'l sonno e l'esser desto; e 'l duolo omai de le ferite crude piú cominciava a farmisi molesto, ché l'inaspria l'aura notturna e 'l gelo in terra nuda e sotto aperto cielo. Piú e piú ognor s'avicinava intanto quel lume e insieme un tacito bisbiglio, sí ch'a me giunse e mi si pose a canto. Alzo allor, bench'a pena, il debil ciglio e veggio due vestiti in lungo manto tener due faci, e dirmi sento: `O figlio, confida in quel Signor ch'a' pii soviene, e con la grazia i preghi altrui previene.' In tal guisa parlommi: indi la mano benedicendo sovra me distese; e susurrò con suon devoto e piano voci allor poco udite e meno intese. `Sorgi', poi disse; ed io leggiero e sano sorgo, e non sento le nemiche offese (oh miracol gentile!), anzi mi sembra piene di vigor novo aver le membra. Stupido lor riguardo, e non ben crede l'anima sbigottita il certo e il vero; onde l'un d'essi a me: `Di poca fede, che dubbii? o che vaneggia il tuo pensiero? Verace corpo è quel che 'n noi si vede: servi siam di Giesú, che 'l lusinghiero mondo e 'l suo falso dolce abbiam fuggito, e qui viviamo in loco erto e romito. Me per ministro a tua salute eletto ha quel Signor che 'n ogni parte regna, ché per ignobil mezzo oprar effetto meraviglioso ed alto egli non sdegna, né men vorrà che sí resti negletto quel corpo in cui già visse alma sí degna, lo qual con essa ancor, lucido e leve e immortal fatto, riunir si deve. Dico il corpo di Sveno a cui fia data tomba, a tanto valor conveniente, la qual a dito mostra ed onorata ancor sarà da la futura gente. Ma leva omai gli occhi a le stelle, e guata là splender quella, come un sol lucente; questa co' vivi raggi or ti conduce là dove è il corpo del tuo nobil duce.' Allor vegg'io che da la bella face, anzi dal sol notturno, un raggio scende che dritto là dove il gran corpo giace, quasi aureo tratto di pennel, si stende; e sovra lui tal lume e tanto face ch'ogni sua piaga ne sfavilla e splende, e subito da me si raffigura ne la sanguigna orribile mistura. Giacea, prono non già, ma come vòlto ebbe sempre a le stelle il suo desire, dritto ei teneva inverso il cielo il volto in guisa d'uom che pur là suso aspire. Chiusa la destra e 'l pugno avea raccolto e stretto il ferro, e in atto è di ferire; l'altra su 'l petto in modo umile e pio si posa, e par che perdon chieggia a Dio. Mentre io le piaghe sue lavo co 'l pianto, né però sfogo il duol che l'alma accora, gli aprí la chiusa destra il vecchio santo, e 'l ferro che stringea trattone fora: `Questa' a me disse `ch'oggi sparso ha tanto sangue nemico, e n'è vermiglia ancora, è come sai perfetta, e non è forse altra spada che debba a lei preporse. Onde piace là su che, s'or la parte dal suo primo signor acerba morte, oziosa non resti in questa parte, ma di man passi in mano ardita e forte che l'usi poi con egual forza ed arte, ma piú lunga stagion con lieta sorte; e con lei faccia, perché a lei s'aspetta, di chi Sveno le uccise aspra vendetta. Soliman Sveno uccise, e Solimano dée per la spada sua restarne ucciso. Prendila dunque, e vanne ov'il cristiano campo fia intorno a l'alte mura assiso; e non temer che nel paese estrano ti sia il sentier di novo anco preciso, ché t'agevolerà per l'aspra via l'alta destra di Lui ch'or là t'invia. Quivi Egli vuol che da cotesta voce, che viva in te servò, si manifesti la pietate, il valor, l'ardir feroce che nel diletto tuo signor vedesti, perché a segnar de la purpurea Croce l'arme con tale essempio altri si desti, ed ora e dopo un corso anco di lustri infiammati ne sian gli animi illustri. Resta che sappia tu chi sia colui che deve de la spada esser erede. Questi è Rinaldo, il giovenetto a cui il pregio di fortezza ogn'altro cede. A lui la porgi, e di' che sol da lui l'alta vedetta il Cielo e 'l mondo chiede.' Or mentre io le sue voci intento ascolto, fui da miracol novo a sé rivolto, ché là dove il cadavero giacea ebbi improviso un gran sepolcro scorto, che sorgendo rinchiuso in sé l'avea, come non so né con qual arte sorto; e in brevi note altrui vi si sponea il nome e la virtú del guerrier morto. Io non sapea da tal vista levarmi, mirando ora le lettre ed ora i marmi. `Qui' disse il vecchio `appresso a i fidi amici giacerà del tuo duce il corpo ascoso, mentre gli spirti amando in Ciel felici godon perpetuo bene e glorioso. Ma tu co 'l pianto omai gli estremi uffici pagato hai loro, e tempo è di riposo. Oste mio ne sarai sin ch'al viaggio matutin ti risvegli il novo raggio.' Tacque, e per lochi ora sublimi or cupi mi scòrse onde a gran pena il fianco trassi, sin ch'ove pende da selvaggie rupi cava spelonca raccogliemmo i passi. Questo è il suo albergo: ivi fra gli orsi e i lupi co 'l discepolo suo securo stassi, ché difesa miglior ch'usbergo e scudo è la santa innocenza al petto ignudo. Silvestre cibo e duro letto porse quivi a le membra mie posa e ristoro. Ma poi ch'accesi in oriente scorse i raggi del mattin purpurei e d'oro, vigilante ad orar subito sorse l'uno e l'altro eremita, ed io con loro. Dal santo vecchio poi congedo tolsi e qui, dov'egli consigliò, mi volsi." Qui si tacque il tedesco, e gli rispose il pio Buglione: "O cavalier, tu porte dure novelle al campo e dolorose onde a ragion si turbi e si sconforte, poi che genti sí amiche e valorose breve ora ha tolte e poca terra absorte, e in guisa d'un baleno il signor vostro s'è in un sol punto dileguato e mostro. Ma che? felice è cotal morte e scempio via piú ch'acquisto di provincie e d'oro, né dar l'antico Campidoglio essempio d'alcun può mai sí glorioso alloro. Essi del ciel nel luminoso tempio han corona immortal del vincer loro: ivi credo io che le sue belle piaghe ciascun lieto dimostri e se n'appaghe. Ma tu, che a le fatiche ed al periglio ne la milizia ancor resti del mondo, devi gioir de' lor trionfi, e 'l ciglio render quanto conviene omai giocondo; e perché chiedi di Bertoldo il figlio, sappi ch'ei fuor de l'oste è vagabondo, né lodo io già che dubbia via tu prenda pria che di lui certa novella intenda." Questo lor ragionar ne l'altrui mente di Rinaldo l'amor desta e rinova, e v'è chi dice: "Ahi! fra pagana gente il giovenetto errante or si ritrova." E non v'è quasi alcun che non rammente, narrando al dano, i suoi gran fatti a prova; e de l'opere sue la lunga tela con istupor gli si dispiega e svela. Or quando del garzon la rimembranza avea gli animi tutti inteneriti, ecco molti tornar, che per usanza eran d'intorno a depredare usciti. Conducean questi seco in abbondanza e mandre di lanuti e buoi rapiti e biade ancor, benché non molte, e strame che pasca de' corsier l'avida fame. E questi di sciagura aspra e noiosa segno portàr che 'n apparenza è certo: rotta del buon Rinaldo e sanguinosa la sopravesta ed ogni arnese aperto. Tosto si sparse (e chi potria tal cosa tener celata?) un romor vario e incerto. Corre il vulgo dolente a le novelle del guerriero e de l'arme, e vuol vedelle. Vede, e conosce ben l'immensa mole del grand'usbergo e 'l folgorar del lume, e l'arme tutte ove è l'augel ch'al sole prova i suoi figli e mal crede a le piume; ché di vederle già primiere o sole ne le imprese piú grandi ebbe in costume, ed or non senza alta pietate ed ira rotte e sanguigne ivi giacer le mira. Mentre bisbiglia il campo, e la cagione de la morte di lui varia si crede, a sé chiama Aliprando il pio Buglione, duce di quei che ne portàr le prede, uom di libera mente e di sermone veracissimo e schietto, ed a lui chiede: "Di' come e donde tu rechi quest'arme, e di buono o di reo nulla celarme." Gli rispose colui: "Di qui lontano quanto in duo giorni un messaggiero andria, verso il confin di Gaza un picciol piano chiuso tra colli alquanto è fuor di via; e in lui d'alto deriva e lento e piano tra pianta e pianta un fiumicel s'invia, e d'arbori e di macchie ombroso e folto opportuno a l'insidie il loco è molto. Qui greggia alcuna cercavam che fosse venuta a i paschi de l'erbose sponde, e in su l'erbe miriam di sangue rosse giacerne un guerrier morto in riva a l'onde. A l'arme ed a l'insegne ogn'uom si mosse, che furon conosciute ancor che immonde. Io m'appressai per discoprirgli il viso, ma trovai ch'era il capo indi reciso. Mancava ancor la destra, e 'l busto grande molte ferite avea dal tergo al petto; e non lontan, con l'aquila che spande le candide ali, giacea il vòto elmetto. Mentre cerco d'alcuno a cui dimande, un villanel sopragiungea soletto che 'ndietro il passo per fuggirne torse subitamente che di noi s'accorse. Ma seguitato e preso, a la richiesta che noi gli facevamo, al fin rispose che 'l giorno inanti uscir de la foresta scorse molti guerrieri, onde ei s'ascose; e ch'un d'essi tenea recisa testa per le sue chiome bionde e sanguinose, la qual gli parve, rimirando intento, d'uom giovenetto e senza peli al mento; e che 'l medesmo poco poi l'avolse in un zendado da l'arcion pendente. Soggiunse ancor ch'a l'abito raccolse ch'erano i cavalier di nostra gente. Io spogliar feci il corpo, e sí me 'n dolse che piansi nel sospetto amaramente, e portai meco l'arme e lasciai cura ch'avesse degno onor di sepoltura. Ma se quel nobil tronco è quel ch'io credo, altra tomba, altra pompa egli ben merta." Cosí detto, Aliprando ebbe congedo, però che cosa non avea piú certa. Rimase grave e sospirò Goffredo; pur nel tristo pensier non si raccerta, e con piú chiari segni il monco busto conoscer vuole e l'omicida ingiusto. Sorgea la notte intanto, e sotto l'ali ricopriva del cielo i campi immensi; e 'l sonno, ozio de l'alme, oblio de' mali, lusingando sopia le cure e i sensi. Tu sol punto, Argillan, d'acuti strali d'aspro dolor, volgi gran cose e pensi, né l'agitato sen né gli occhi ponno la quiete raccòrre o 'l molle sonno. Costui pronto di man, di lingua ardito, impetuoso e fervido d'ingegno, nacque in riva del Tronto e fu nutrito ne le risse civil d'odio e di sdegno; poscia in essiglio spinto, i colli e 'l lito empié di sangue e depredò quel regno, sin che ne l'Asia a guerreggiar se 'n venne e per fama miglior chiaro divenne. Al fin questi su l'alba i lumi chiuse; né già fu sonno il suo queto e soave, ma fu stupor ch'Aletto al cor gl'infuse, non men che morte sia profondo e grave. Sono le interne sue virtú deluse e riposo dormendo anco non have, ché la furia crudel gli s'appresenta sotto orribili larve e lo sgomenta. Gli figura un gran busto, ond'è diviso il capo e de la destra il braccio è mozzo, e sostien con la manca il teschio inciso, di sangue e di pallor livido e sozzo. Spira e parla spirando il morto viso, e 'l parlar vien co 'l sangue e co 'l singhiozzo: "Fuggi, Argillan; non vedi omai la luce? Fuggi le tende infami e l'empio duce. Chi dal fero Goffredo e da la frode ch'uccise me, voi, cari amici, affida? D'astio dentro il fellon tutto si rode, e pensa sol come voi meco uccida. Pur, se cotesta mano a nobil lode aspira, e in sua virtú tanto si fida, non fuggir, no; plachi il tiranno essangue lo spirto mio co 'l suo maligno sangue. Io sarò teco, ombra di ferro e d'ira ministra, e t'armerò la destra e 'l seno." Cosí gli parla, e nel parlar gli spira spirito novo di furor ripieno. Si rompe il sonno, e sbigottito ei gira gli occhi gonfi di rabbia e di veneno; ed armato ch'egli è, con importuna fretta i guerrier d'Italia insieme aduna. Gli aduna là dove sospese stanno l'arme del buon Rinaldo, e con superba voce il furore e 'l conceputo affanno in tai detti divulga e disacerba: "Dunque un popolo barbaro e tiranno, che non prezza ragion, che fé non serba, che non fu mai di sangue e d'or satollo, ne terrà 'l freno in bocca e 'l giogo al collo? Ciò che sofferto abbiam d'aspro e d'indegno sette anni omai sotto sí iniqua soma, è tal ch'arder di scorno, arder di sdegno potrà da qui a mill'anni Italia e Roma. Taccio che fu da l'arme e da l'ingegno del buon Tancredi la Cilicia doma, e ch'ora il Franco a tradigion la gode, e i premi usurpa del valor la frode. Taccio ch'ove il bisogno e 'l tempo chiede pronta man, pensier fermo, animo audace, alcuno ivi di noi primo si vede portar fra mille morti o ferro o face; quando le palme poi, quando le prede si dispensan ne l'ozio e ne la pace, nostri in parte non son, ma tutti loro i trionfi, gli onor, le terre e l'oro. Tempo forse già fu che gravi e strane ne potevan parer sí fatte offese; quasi lievi or le passo: orrenda, immane ferità leggierissime l'ha rese. Hanno ucciso Rinaldo, e con l'umane l'alte leggi divine han vilipese. E non fulmina il Cielo? e non l'inghiotte la terra entro la sua perpetua notte? Rinaldo han morto, il qual fu spada e scudo di nostra fede; ed ancor giace inulto? inulto giace e su 'l terreno ignudo lacerato il lasciaro ed insepulto. Ricercate saper chi fosse il crudo? A chi pote, o compagni, esser occulto? Deh! chi non sa quanto al valor latino portin Goffredo invidia e Baldovino? Ma che cerco argomenti? Il Cielo io giuro (il Ciel che n'ode e ch'ingannar non lice), ch'allor che si rischiara il mondo oscuro, spirito errante il vidi ed infelice. Che spettacolo, oimè, crudele e duro! Quai frode di Goffredo a noi predice! Io 'l vidi, e non fu sogno; e ovunque or miri, par che dinanzi a gli occhi miei s'aggiri. Or che faremo noi? dée quella mano, che di morte sí ingiusta è ancora immonda, reggerci sempre? o pur vorrem lontano girne da lei, dove l'Eufrate inonda, dove a popolo imbelle in fertil piano tante ville e città nutre e feconda, anzi a noi pur? Nostre saranno, io spero, né co' Franchi comune avrem l'impero. Andianne, e resti invendicato il sangue (se cosí parvi) illustre ed innocente, benché, se la virtú che fredda langue fosse ora in voi quanto dovrebbe ardente, questo che divorò, pestifero angue, il pregio e 'l fior de la latina gente, daria con la sua morte e con lo scempio a gli altri mostri memorando essempio. Io, io vorrei, se 'l vostro alto valore, quanto egli può, tanto voler osasse, ch'oggi per questa man ne l'empio core, nido di tradigion, la pena entrasse." Cosí parla agitato, e nel furore e ne l'impeto suo ciascuno ei trasse. "Arme! arme!" freme il forsennato, e insieme la gioventú superba "Arme! arme!" freme. Rota Aletto fra lor la destra armata, e co 'l foco il venen ne' petti mesce. Lo sdegno, la follia, la scelerata sete del sangue ognor piú infuria e cresce; e serpe quella peste e si dilata, e de gli alberghi italici fuor n'esce, e passa fra gli Elvezi, e vi s'apprende, e di là poscia a gli Inghilesi tende. Né sol l'estrane genti avien che mova il duro caso e 'l gran publico danno, ma l'antiche cagioni a l'ira nova materia insieme e nutrimento danno. Ogni sopito sdegno or si rinova: chiamano il popol franco empio e tiranno, e in superbe minaccie esce diffuso l'odio che non può starne omai piú chiuso. Cosí nel cavo rame umor che bolle per troppo foco, entro gorgoglia e fuma; né capendo in se stesso, al fin s'estolle sovra gli orli del vaso, e inonda e spuma. Non bastano a frenare il vulgo folle que' pochi a cui la mente il vero alluma; e Tancredi e Camillo eran lontani, Guglielmo e gli altri in podestà soprani. Corrono già precipitosi a l'armi confusamente i popoli feroci, e già s'odon cantar bellici carmi sediziose trombe in fere voci. Gridano intanto al pio Buglion che s'armi molti di qua di là nunzi veloci, e Baldovin inanzi a tutti armato gli s'appresenta e gli si pone a lato. Egli, ch'ode l'accusa, i lumi al cielo drizza e pur come suole a Dio ricorre: "Signor, tu che sai ben con quanto zelo la destra mia del civil sangue aborre, tu squarcia a questi de la mente il velo, e reprimi il furor che sí trascorre; e l'innocenza mia, che costà sopra è nota, al mondo cieco anco si scopra." Tacque, e dal Cielo infuso ir fra le vene sentissi un novo inusitato caldo. Colmo d'alto vigor, d'ardita spene che nel volto si sparge e 'l fa piú baldo, e da' suoi circondato, oltre se 'n viene contra chi vendicar credea Rinaldo; né, perché d'arme e di minaccie ei senta fremito d'ogni intorno, il passo allenta. Ha la corazza indosso, e nobil veste riccamente l'adorna oltra 'l costume. Nudo è le mani e 'l volto, e di celeste maestà vi risplende un novo lume: scote l'aurato scettro, e sol con queste arme acquetar quegli impeti presume. Tal si mostra a coloro e tal ragiona, né come d'uom mortal la voce suona: "Quali stolte minaccie e quale or odo vano strepito d'arme? e chi il commove? Cosí qui riverito e in questo modo noto son io, dopo sí lunghe prove, ch'ancor v'è chi sospetti e chi di frodo Goffredo accusi? e chi l'accuse approve? Forse aspettate ancor ch'a voi mi pieghi, e ragioni v'adduca e porga preghi? Ah non sia ver che tanta indignitate la terra piena del mio nome intenda. Me questo scettro, me de l'onorate opre mie la memoria e 'l ver difenda; e per or la giustizia a la pietate ceda, né sovra i rei la pena scenda. A gli altri merti or questo error perdono, ed al vostro Rinaldo anco vi dono. Co 'l sangue suo lavi il comun difetto solo Argillan, di tante colpe autore, che, mosso a leggierissimo sospetto, sospinti gli altri ha nel medesmo errore." Lampi e folgori ardean nel regio aspetto, mentre ei parlò, di maestà, d'onore; tal ch'Argillano attonito e conquiso teme (chi 'l crederia?) l'ira d'un viso. E 'l vulgo, ch'anzi irriverente, audace, tutto fremer s'udia d'orgogli e d'onte, e ch'ebbe al ferro, a l'aste ed a la face che 'l furor ministrò, le man sí pronte, non osa (e i detti alteri ascolta, e tace) fra timor e vergogna alzar la fronte, e sostien ch'Argillano, ancor che cinto de l'arme lor, sia da' ministri avinto. Cosí leon, ch'anzi l'orribil coma con muggito scotea superbo e fero, se poi vede il maestro onde fu doma la natia ferità del core altero, può del giogo soffrir l'ignobil soma e teme le minaccie e 'l duro impero, né i gran velli, i gran denti e l'ugne c'hanno tanta in sé forza, insuperbire il fanno. È fama che fu visto in volto crudo ed in atto feroce e minacciante un alato guerrier tener lo scudo de la difesa al pio Buglion davante, e vibrar fulminando il ferro ignudo che di sangue vedeasi ancor stillante: sangue era forse di città, di regni, che provocàr del Cielo i tardi sdegni. Cosí, cheto il tumulto, ognun depone l'arme, e molti con l'arme il mal talento; e ritorna Goffredo al padiglione, a varie cose, a nove imprese intento, ch'assalir la cittate egli dispone pria che 'l secondo o 'l terzo dí sia spento; e rivedendo va l'incise travi, già in machine conteste orrende e gravi. |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi @mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998