Torquato Tasso
Gerusalemme Liberata
POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO
AL SERENISSIMO SIGNORE
IL SIGNOR DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA
CANTO QUARTO
I demoni si adunano a concilio, governati da Plutone, che parla nel silenzio assoluto, per trovar modo d'impedire l'impresa dei Crociati. Per loro istigazione, il mago Idraote, che regge Damasco e le città vicine, ordina alla bellissima Armida, sua nipote, di recarsi nel campo cristiano, in apparenza per chieder soccorso, in realtà per distoglierli dalla guerra, cercando di attrarre a sé, i più valorosi guerrieri. Quando Armida arriva nel campo cristiano, tutti restano estasiati davanti alla sua bellezza; le si fa incontro Eustazio, che le rivolge la parola e la conduce da Goffredo di Buglione, al quale la donna racconta le peripezie della sua vita e si raccomanda chiedendo che sia salvata e che venga aiutata a riconquistare il regno perduto di Damasco. Goffredo promette di aiutarla dopo aver liberato Gerusalemme. Armida allora si mette a piangere lamentando il suo avverso destino e il fatto che le viene negato l'aiuto sperato. Eustazio non rimane insensibile a questo finto pianto, parla in suo favore, e chiede che siano concessi alla donna dieci cavalieri scelti fra quelli di ventura, altrimenti avrebbe rifiutato d'ora in poi di combattere; il dono viene concesso, anche se la volontà di Goffredo è diversa; così Eustazio può promettere ogni suo soccorso ad Armida, che dispiega tutte le sue arti ammaliatrici nei confronti dei dieci cavalieri.
Argomento |
Tutti i Numi d'Inferno a se
raccoglie L'Imperator del tenebroso regno: E per dar a Cristiani acerbe doglie, Vuol ch'usi ognun di lor suo iniquo ingegno. Per lor opra Idraote a crude voglie Si volge, e vuol ch'Armida al suo disegno Spiani la via parlando in dolci modi; E sue macchine sian bellezze e frodi. |
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Mentre son
questi a le bell'opre intenti, perché debbiano tosto in uso porse, il gran nemico de l'umane genti contra i cristiani i lividi occhi torse; e scorgendogli omai lieti e contenti, ambo le labra per furor si morse, e qual tauro ferito il suo dolore versò mugghiando e sospirando fuore. Quinci, avendo pur tutto il pensier vòlto a recar ne' cristiani ultima doglia, che sia, comanda, il popol suo raccolto (concilio orrendo!) entro la regia soglia; come sia pur leggiera impresa, ahi stolto!, il repugnare a la divina voglia: stolto, ch'al Ciel s'agguaglia, e in oblio pone come di Dio la destra irata tuone. Chiama gli abitator de l'ombre eterne il rauco suon de la tartarea tromba. Treman le spaziose atre caverne, e l'aer cieco a quel romor rimbomba; né sí stridendo mai da le superne regioni del cielo il folgor piomba, né sí scossa giamai trema la terra quando i vapori in sen gravida serra. Tosto gli dèi d'Abisso in varie torme concorron d'ogn'intorno a l'alte porte. Oh come strane, oh come orribil forme! quant'è ne gli occhi lor terrore e morte! Stampano alcuni il suol di ferine orme, e 'n fronte umana han chiome d'angui attorte, e lor s'aggira dietro immensa coda che quasi sferza si ripiega e snoda. Qui mille immonde Arpie vedresti e mille Centauri e Sfingi e pallide Gorgoni, molte e molte latrar voraci Scille, e fischiar Idre e sibilar Pitoni, e vomitar Chimere atre faville, e Polifemi orrendi e Gerioni; e in novi mostri, e non piú intesi o visti, diversi aspetti in un confusi e misti. D'essi parte a sinistra e parte a destra a seder vanno al crudo re davante. Siede Pluton nel mezzo, e con la destra sostien lo scettro ruvido e pesante; né tanto scoglio in mar, né rupe alpestra, né pur Calpe s'inalza o 'l magno Atlante, ch'anzi lui non paresse un picciol colle, sí la gran fronte e le gran corna estolle. Orrida maestà nel fero aspetto terrore accresce, e piú superbo il rende: rosseggian gli occhi, e di veneno infetto come infausta cometa il guardo splende, gl'involve il mento e su l'irsuto petto ispida e folta la gran barba scende, e in guisa di voragine profonda s'apre la bocca d'atro sangue immonda. Qual i fumi sulfurei ed infiammati escon di Mongibello e 'l puzzo e 'l tuono, tal de la fera bocca i negri fiati, tale il fetore e le faville sono. Mentre ei parlava, Cerbero i latrati ripresse, e l'Idra si fe' muta al suono; restò Cocito, e ne tremàr gli abissi, e in questi detti il gran rimbombo udissi: "Tartarei numi, di seder piú degni là sovra il sole, ond'è l'origin vostra, che meco già da i piú felici regni spinse il gran caso in questa orribil chiostra, gli antichi altrui sospetti e i feri sdegni noti son troppo, e l'alta impresa nostra; or Colui regge a suo voler le stelle, e noi siam giudicate alme rubelle. Ed in vece del dí sereno e puro, de l'aureo sol, de gli stellati giri, n'ha qui rinchiusi in questo abisso oscuro, né vuol ch'al primo onor per noi s'aspiri; e poscia (ahi quanto a ricordarlo è duro! quest'è quel che piú inaspra i miei martíri) ne' bei seggi celesti ha l'uom chiamato, l'uom vile e di vil fango in terra nato. Né ciò gli parve assai; ma in preda a morte, sol per farne piú danno, il figlio diede. Ei venne e ruppe le tartaree porte, e porre osò ne' regni nostri il piede, e trarne l'alme a noi dovute in sorte, e riportarne al Ciel sí ricche prede, vincitor trionfando, e in nostro scherno l'insegne ivi spiegar del vinto Inferno. Ma che rinovo i miei dolor parlando? Chi non ha già l'ingiurie nostre intese? Ed in qual parte si trovò, né quando, ch'egli cessasse da l'usate imprese? Non piú déssi a l'antiche andar pensando, pensar dobbiamo a le presenti offese. Deh! non vedete omai com'egli tenti tutte al suo culto richiamar le genti? Noi trarrem neghittosi i giorni e l'ore, né degna cura fia che 'l cor n'accenda? e soffrirem che forza ognor maggiore il suo popol fedele in Asia prenda? e che Giudea soggioghi? e che 'l suo onore, che 'l nome suo piú si dilati e stenda? che suoni in altre lingue, e in altri carmi si scriva, e incida in novi bronzi e marmi? Che sian gl'idoli nostri a terra sparsi? ch'i nostri altari il mondo a lui converta? ch'a lui sospesi i voti, a lui sol arsi siano gl'incensi, ed auro e mirra offerta? ch'ove a noi tempio non solea serrarsi, or via non resti a l'arti nostre aperta? che di tant'alme il solito tributo ne manchi, e in vòto regno alberghi Pluto? Ah! non fia ver, ché non sono anco estinti gli spirti in voi di quel valor primiero, quando di ferro e d'alte fiamme cinti pugnammo già contra il celeste impero. Fummo, io no 'l nego, in quel conflitto vinti, pur non mancò virtute al gran pensiero. Diede che che si fosse a lui vittoria: rimase a noi d'invitto ardir la gloria. Ma perché piú v'indugio? Itene, o miei fidi consorti, o mia potenza e forze: ite veloci, ed opprimete i rei prima che 'l lor poter piú si rinforze; pria che tutt'arda il regno de gli Ebrei, questa fiamma crescente omai s'ammorze; fra loro entrate, e in ultimo lor danno or la forza s'adopri ed or l'inganno. Sia destin ciò ch'io voglio: altri disperso se 'n vada errando, altri rimanga ucciso, altri in cure d'amor lascive immerso idol si faccia un dolce sguardo e un riso. Sia il ferro incontra 'l suo rettor converso da lo stuol ribellante e 'n sé diviso: pèra il campo e ruini, e resti in tutto ogni vestigio suo con lui distrutto." Non aspettàr già l'alme a Dio rubelle che fosser queste voci al fin condotte; ma fuor volando a riveder le stelle già se n'uscian da la profonda notte, come sonanti e torbide procelle che vengan fuor de le natie lor grotte ad oscurar il cielo, a portar guerra a i gran regni del mar e de la terra. Tosto, spiegando in vari lati i vanni, si furon questi per lo mondo sparti, e 'ncominciaro a fabricar inganni diversi e novi, e ad usar lor arti. Ma di' tu, Musa, come i primi danni mandassero a i cristiani e di quai parti; tu 'l sai, e di tant'opra a noi sí lunge debil aura di fama a pena giunge. Reggea Damasco e le città vicine Idraote, famoso e nobil mago, che fin da' suoi prim'anni a l'indovine arti si diede, e ne fu ognor piú vago. Ma che giovàr, se non poté del fine di quella incerta guerra esser presago? Ned aspetto di stelle erranti o fisse, né risposta d'inferno il ver predisse. Giudicò questi (ahi, cieca umana mente, come i giudizi tuoi son vani e torti!) ch'a l'essercito invitto d'Occidente apparecchiasse il Ciel ruine e morti; però, credendo che l'egizia gente la palma de l'impresa al fin riporti, desia che 'l popol suo ne la vittoria sia de l'acquisto a parte e de la gloria. Ma perché il valor franco ha in grande stima, di sanguigna vittoria i danni teme; e va pensando con qual arte in prima il poter de' cristiani in parte sceme, sí che piú agevolmente indi s'opprima da le sue genti e da l'egizie insieme: in questo suo pensier il sovragiunge l'angelo iniquo, e piú l'instiga e punge. Esso il consiglia, e gli ministra i modi onde l'impresa agevolar si pote. Donna a cui di beltà le prime lodi concedea l'Oriente, è sua nepote: gli accorgimenti e le piú occulte frodi ch'usi o femina o maga a lei son note. Questa a sé chiama e seco i suoi consigli comparte, e vuol che cura ella ne pigli. Dice: "O diletta mia, che sotto biondi capelli e fra sí tenere sembianze canuto senno e cor virile ascondi, e già ne l'arti mie me stesso avanze, gran pensier volgo; e se tu lui secondi, seguiteran gli effetti a le speranze. Tessi la tela ch'io ti mostro ordita, di cauto vecchio essecutrice ardita. Vanne al campo nemico: ivi s'impieghi ogn'arte feminil ch'amore alletti. Bagna di pianto e fa' melati i preghi, tronca e confondi co' sospiri i detti: beltà dolente e miserabil pieghi, al tuo volere i piú ostinati petti. Vela il soverchio ardir con la vergogna, e fa' manto del vero a la menzogna. Prendi, s'esser potrà, Goffredo a l'esca de' dolci sguardi e de' be' detti adorni, sí ch'a l'uomo invaghito omai rincresca l'incominciata guerra, e la distorni. Se ciò non puoi, gli altri piú grandi adesca: menagli in parte ond'alcun mai non torni." Poi distingue i consigli; al fin le dice: "Per la fé, per la patria il tutto lice." La bella Armida, di sua forma altera e de' doni del sesso e de l'etate, l'impresa prende, e in su la prima sera parte e tiene sol vie chiuse e celate; e 'n treccia e 'n gonna feminile spera vincer popoli invitti e schiere armate. Ma son del suo partir tra 'l vulgo ad arte diverse voci poi diffuse e sparte. Dopo non molti dí vien la donzella dove spiegate i Franchi avean le tende. A l'apparir de la beltà novella nasce un bisbiglio e 'l guardo ognun v'intende, sí come là dove cometa o stella, non piú vista di giorno, in ciel risplende; e traggon tutti per veder chi sia sí bella peregrina, e chi l'invia. Argo non mai, non vide Cipro o Delo d'abito o di beltà forme sí care: d'auro ha la chioma, ed or dal bianco velo traluce involta, or discoperta appare. Cosí, qualor si rasserena il cielo, or da candida nube il sol traspare, or da la nube uscendo i raggi intorno piú chiari spiega e ne raddoppia il giorno. Fa nove crespe l'aura al crin disciolto, che natura per sé rincrespa in onde; stassi l'avaro sguardo in sé raccolto, e i tesori d'amore e i suoi nasconde. Dolce color di rose in quel bel volto fra l'avorio si sparge e si confonde, ma ne la bocca, onde esce aura amorosa, sola rosseggia e semplice la rosa. Mostra il bel petto le sue nevi ignude, onde il foco d'Amor si nutre e desta. Parte appar de le mamme acerbe e crude, parte altrui ne ricopre invida vesta: invida, ma s'a gli occhi il varco chiude, l'amoroso pensier già non arresta, ché non ben pago di bellezza esterna ne gli occulti secreti anco s'interna. Come per acqua o per cristallo intero trapassa il raggio, e no 'l divide o parte, per entro il chiuso manto osa il pensiero sí penetrar ne la vietata parte. Ivi si spazia, ivi contempla il vero di tante meraviglie a parte a parte; poscia al desio le narra e le descrive, e ne fa le sue fiamme in lui piú vive. Lodata passa e vagheggiata Armida fra le cupide turbe, e se n'avede. No 'l mostra già, benché in suo cor ne rida, e ne disegni alte vittorie e prede. Mentre, sospesa alquanto, alcuna guida che la conduca al capitan richiede, Eustazio occorse a lei, che del sovrano principe de le squadre era germano. Come al lume farfalla, ei si rivolse a lo splendor de la beltà divina, e rimirar da presso i lumi volse che dolcemente atto modesto inchina; e ne trasse gran fiamma e la raccolse come da foco suole esca vicina, e disse verso lei, ch'audace e baldo il fea de gli anni e de l'amore il caldo: "Donna, se pur tal nome a te conviensi, ché non somigli tu cosa terrena, né v'è figlia d'Adamo in cui dispensi cotanto il Ciel di sua luce serena, che da te si ricerca? ed onde viensi? qual tua ventura o nostra or qui ti mena? Fa' che sappia chi sei, fa' ch'io non erri ne l'onorarti; e s'è ragion, m'atterri." Risponde: "Il tuo lodar troppo alto sale, né tanto in suso il merto nostro arriva. Cosa vedi, signor, non pur mortale, ma già morta a i diletti, al duol sol viva; mia sciagura mi spinge in loco tale, vergine peregrina e fuggitiva. Ricovro al pio Goffredo, e in lui confido tal va di sua bontate intorno il grido. Tu l'adito m'impetra al capitano, s'hai, come pare, alma cortese e pia." Ed egli: "È ben ragion ch'a l'un germano l'altro ti guidi, e intercessor ti sia. Vergine bella, non ricorri in vano, non è vile appo lui la grazia mia; spender tutto potrai, come t'aggrada, ciò che vaglia il suo scettro o la mia spada." Tace, e la guida ove tra i grandi eroi allor dal vulgo il pio Buglion s'invola. Essa inchinollo riverente, e poi vergognosetta non facea parola. Ma quei rossor, ma quei timori suoi rassecura il guerriero e riconsola, sí che i pensati inganni al fine spiega in suon che di dolcezza i sensi lega. "Principe invitto," disse "il cui gran nome se 'n vola adorno di sí ricchi fregi che l'esser da te vinte e in guerra dome recansi a gloria le provincie e i regi, noto per tutto è il tuo valor; e come sin da i nemici avien che s'ami e pregi, cosí anco i tuoi nemici affida, e invita di ricercarti e d'impetrarne aita. Ed io, che nacqui in sí diversa fede che tu abbassasti e ch'or d'opprimer tenti, per te spero acquistar la nobil sede e lo scettro regal de' miei parenti; e s'altri aita a i suoi congiunti chiede contro il furor de le straniere genti, io, poi che 'n lor non ha pietà piú loco, contra il mio sangue il ferro ostile invoco. Io te chiamo, in te spero; e in quella altezza puoi tu sol pormi onde sospinta io fui, né la tua destra esser dée meno avezza di sollevar che d'atterrar altrui, né meno il vanto di pietà si prezza che 'l trionfar de gl'inimici sui; e s'hai potuto a molti il regno tòrre, fia gloria egual nel regno or me riporre. Ma se la nostra fé varia ti move a disprezzar forse i miei preghi onesti, la fé, c'ho certa in tua pietà, mi giove, né dritto par ch'ella delusa resti. Testimone è quel Dio ch'a tutti è Giove ch'altrui piú giusta aita unqua non désti. Ma perché il tutto a pieno intenda, or odi le mie sventure insieme e l'altrui frodi. Figlia i' son d'Arbilan, che 'l regno tenne del bel Damasco e in minor sorte nacque, ma la bella Cariclia in sposa ottenne, cui farlo erede del suo imperio piacque. Costei co 'l suo morir quasi prevenne il nascer mio, ch'in tempo estinta giacque ch'io fuori uscia de l'alvo; e fu il fatale giorno ch'a lei dié morte, a me natale. Ma il primo lustro a pena era varcato dal dí ch'ella spogliossi il mortal velo, quando il mio genitor, cedendo al fato, forse con lei si ricongiunse in Cielo, di me cura lassando e de lo stato al fratel, ch'egli amò con tanto zelo che, se in petto mortal pietà risiede, esser certo dovea de la sua fede. Preso dunque di me questi il governo, vago d'ogni mio ben si mostrò tanto che d'incorrotta fé, d'amor paterno e d'immensa pietade ottenne il vanto, o che 'l maligno suo pensiero interno celasse allor sotto contrario manto, o che sincere avesse ancor le voglie, perch'al figliuol mi destinava in moglie. Io crebbi, e crebbe il figlio; e mai né stile di cavalier, né nobil arte apprese, nulla di pellegrino o di gentile gli piacque mai, né mai troppo alto intese; sotto diforme aspetto animo vile, e in cor superbo avare voglie accese: ruvido in atti, ed in costumi è tale ch'è sol ne' vizi a se medesmo eguale. Ora il mio buon custode ad uom sí degno unirmi in matrimonio in sé prefisse, e farlo del mio letto e del mio regno consorte; e chiaro a me piú volte il disse. Usò la lingua e l'arte, usò l'ingegno perché 'l bramato effetto indi seguisse, ma promessa da me non trasse mai, anzi ritrosa ognor tacqui o negai. Partissi alfin con un sembiante oscuro, onde l'empio suo cor chiaro trasparve; e ben l'istoria del mio mal futuro leggergli scritta in fronte allor mi parve. Quinci i notturni miei riposi furo turbati ognor da strani sogni e larve, ed un fatale orror ne l'alma impresso m'era presagio de' miei danni espresso. Spesso l'ombra materna a me s'offria, pallida imago e dolorosa in atto, quanto diversa, oimè!, da quel che pria visto altrove il suo volto avea ritratto! `Fuggi, figlia,' dicea `morte sí ria che ti sovrasta omai, pàrtiti ratto, già veggio il tòsco e 'l ferro in tuo sol danno apparecchiar dal perfido tiranno.' Ma che giovava, oimè!, che del periglio vicino omai fosse presago il core, s'irresoluta in ritrovar consiglio la mia tenera età rendea il timore? Prender fuggendo volontario essiglio, e ignuda uscir del patrio regno fuore, grave era sí ch'io fea minore stima di chiuder gli occhi ove gli apersi in prima. Temea, lassa!, la morte, e non avea (chi 'l crederia?) poi di fuggirla ardire; e scoprir la mia tema anco temea, per non affrettar l'ore al mio morire. Cosí inquieta e torbida traea la vita in un continuo martíre, qual uom ch'aspetti che su 'l collo ignudo ad or ad or gli caggia il ferro crudo. In tal mio stato, o fosse amica sorte o ch'a peggio mi serbi il mio destino, un de' ministri de la regia corte, che 'l re mio padre s'allevò bambino, mi scoperse che 'l tempo a la mia morte dal tiranno prescritto era vicino, e ch'egli a quel crudele avea promesso di porgermi il venen quel giorno stesso. E mi soggiunse poi ch'a la mia vita, sol fuggendo, allungar poteva il corso; e poi ch'altronde io non sperava aita, pronto offrí se medesmo al mio soccorso, e confortando mi rendé sí ardita che del timor non mi ritenne il morso, sí ch'io non disponessi a l'aer cieco, la patria e 'l zio fuggendo, andarne seco. Sorse la notte oltra l'usato oscura, che sotto l'ombre amiche ne coperse, onde con due donzelle uscii secura, compagne elette a le fortune averse; ma pure indietro a le mie patrie mura le luci io rivolgea di pianto asperse, né de la vista del natio terreno potea, partendo, saziarle a pieno. Fea l'istesso camin l'occhio e 'l pensiero, e mal suo grado il piede inanzi giva, sí come nave ch'improviso e fero turbine scioglia da l'amata riva. La notte andammo e 'l dí seguente intero per lochi ov'orma altrui non appariva; ci ricovrammo in un castello al fine che siede del mio regno in su 'l confine. È d'Aronte il castel, ch'Aronte fue quel che mi trasse di periglio e scòrse. Ma poiché me fuggito aver le sue mortali insidie il traditor s'accorse, acceso di furor contr'ambedue, le sue colpe medesme in noi ritorse; ed ambo fece rei di quell'eccesso che commetter in me volse egli stesso. Disse ch'Aronte i' avea con doni spinto fra sue bevande a mescolar veneno per non aver, poi ch'egli fosse estinto, chi legge mi prescriva o tenga a freno; e ch'io, seguendo un mio lascivo instinto, volea raccòrmi a mille amanti in seno. Ahi, che fiamma del cielo anzi in me scenda, santa onestà, ch'io le tue leggi offenda! Ch'avara fame d'oro e sete insieme del mio sangue innocente il crudo avesse, grave m'è sí; ma via piú il cor mi preme che 'l mio candido onor macchiar volesse. L'empio, che i popolari impeti teme, cosí le sue menzogne adorna e tesse che la città, del ver dubbia e sospesa, sollevata non s'arma a mia difesa. Né, perch'or sieda nel mio seggio e 'n fronte già gli risplenda la regal corona, pone alcun fine a i miei gran danni, a l'onte, sí la sua feritate oltra lo sprona. Arder minaccia entro 'l castello Aronte, se di proprio voler non s'imprigiona; ed a me, lassa!, e 'nsieme a i miei consorti guerra annunzia non pur, ma strazi e morti. Ciò dice egli di far perché dal volto cosí lavarsi la vergogna crede, e ritornar nel grado, ond'io l'ho tolto, l'onor del sangue e de la regia sede; ma il timor n'è cagion che non ritolto gli sia lo scettro ond'io son vera erede, ché sol s'io caggio por fermo sostegno con le ruine mie pote al suo regno. E ben quel fine avrà l'empio desire che già il tiranno ha stabilito in mente, e saran nel mio sangue estinte l'ire che dal mio lagrimar non fiano spente, se tu no 'l vieti. A te rifuggo, o sire, io misera fanciulla, orba, innocente; e questo pianto, ond'ho i tuoi piedi aspersi, vagliami sí che 'l sangue io poi non versi. Per questi piedi ond'i superbi e gli empi calchi, per questa man che 'l dritto aita, per l'alte tue vittorie, e per que' tèmpi sacri cui désti e cui dar cerchi aita, il mio desir, tu che puoi solo, adempi e in un co 'l regno a me serbi la vita la tua pietà; ma pietà nulla giove, s'anco te il dritto e la ragion non move. Tu, cui concesse il Cielo e dielti in fato voler il giusto e poter ciò che vuoi, a me salvar la vita, a te lo stato (ché tuo fia s'io 'l ricovro) acquistar puoi. Fra numero sí grande a me sia dato diece condur de' tuoi piú forti eroi, ch'avendo i padri amici e 'l popol fido, bastan questi a ripormi entro al mio nido. Anzi un de' primi, a la cui fé commessa è la custodia di secreta porta, promette aprirla e ne la reggia stessa pórci di notte tempo, e sol m'essorta ch'io da te cerchi alcuna aita; e in essa, per picciola che sia, si riconforta piú che s'altronde avesse un grande stuolo, tanto l'insegne estima e 'l nome solo." Ciò detto, tace; e la risposta attende, con atto che 'n silenzio ha voce e preghi. Goffredo il dubbio cor volve e sospende fra pensier vari, e non sa dove il pieghi. Teme i barbari inganni, e ben comprende che non è fede in uom ch'a Dio la neghi. Ma d'altra parte in lui pietoso affetto si desta, che non dorme in nobil petto. Né pur l'usata sua pietà natia vuol che costei de la sua grazia degni, ma il move util ancor, ch'util gli fia che ne l'imperio di Damasco regni chi da lui dipendendo apra la via ed agevoli il corso a i suoi disegni, e genti ed arme gli ministri ed oro contra gli Egizi e chi sarà con loro. Mentre ei cosí dubbioso a terra vòlto lo sguardo tiene, e 'l pensier volve e gira, la donna in lui s'affisa, e dal suo volto intenta pende e gli atti osserva e mira; e perché tarda oltra 'l suo creder molto la risposta, ne teme e ne sospira. Quegli la chiesta grazia al fin negolle, ma diè risposta assai cortese e molle: "S'in servigio di Dio, ch'a ciò n'elesse, non s'impiegasser qui le nostre spade, ben tua speme fondar potresti in esse e soccorso trovar, non che pietade; ma se queste sue greggie e queste oppresse mura non torniam prima in libertade, giusto non è, con iscemar le genti, che di nostra vittoria il corso allenti. Ben ti prometto (e tu per nobil pegno mia fé ne prendi, e vivi in lei secura) che se mai sottrarremo al giogo indegno queste sacre e dal Ciel dilette mura, di ritornarti al tuo perduto regno, come pietà n'essorta, avrem poi cura. Or mi farebbe la pietà men pio, s'anzi il suo dritto io non rendessi a Dio." A quel parlar chinò la donna e fisse le luci a terra, e stette immota alquanto; poi sollevolle rugiadose e disse, accompagnando i flebil atti al pianto: "Misera! ed a qual altra il Ciel prescrisse vita mai grave ed immutabil tanto, che si cangia in altrui mente e natura pria che si cangi in me sorte sí dura? Nulla speme piú resta, in van mi doglio: non han piú forza in uman petto i preghi. Forse lece sperar che 'l mio cordoglio, che te non mosse, il reo tiranno pieghi? Né già te d'inclemenza accusar voglio perché 'l picciol soccorso a me si neghi, ma il Cielo accuso, onde il mio mal discende, che 'n te pietate innessorabil rende. Non tu, signor, né tua bontade è tale, ma 'l mio destino è che mi nega aita. Crudo destino, empio destin fatale, uccidi omai questa odiosa vita. L'avermi priva, oimè!, fu picciol male de' dolci padri in loro età fiorita, se non mi vedi ancor, del regno priva, qual vittima al coltello andar cattiva. Ché, poi che legge d'onestate e zelo non vuol che qui sí lungamente indugi, a cui ricovro intanto? ove mi celo? o quai contra il tiranno avrò rifugi? Nessun loco sí chiuso è sotto il cielo ch'a l'or non s'apra: or perché tanti indugi? Veggio la morte, e se 'l fuggirla è vano, incontro a lei n'andrò con questa mano." Qui tacque, e parve ch'un regale sdegno e generoso l'accendesse in vista; e 'l piè volgendo di partir fea segno, tutta ne gli atti dispettosa e trista. Il pianto si spargea senza ritegno, com'ira suol produrlo a dolor mista, e le nascenti lagrime a vederle erano a i rai del sol cristallo e perle. Le guancie asperse di que' vivi umori che giú cadean sin de la veste al lembo, parean vermigli insieme e bianchi fiori, se pur gli irriga un rugiadoso nembo, quando su l'apparir de' primi albori spiegano a l'aure liete il chiuso grembo; e l'alba, che li mira e se n'appaga, d'adornarsene il crin diventa vaga. Ma il chiaro umor, che di sí spesse stille le belle gote e 'l seno adorno rende, opra effetto di foco, il qual in mille petti serpe celato e vi s'apprende. O miracol d'Amor, che le faville tragge del pianto, e i cor ne l'acqua accende! Sempre sovra natura egli ha possanza. ma in virtú di costei se stesso avanza. Questo finto dolor da molti elice lagrime vere, e i cor piú duri spetra. Ciascun con lei s'affligge, e fra sé dice: "Se mercé da Goffredo or non impetra, ben fu rabbiosa tigre a lui nutrice, e 'l produsse in aspr'alpe orrida pietra o l'onda che nel mar si frange e spuma: crudel, che tal beltà turba e consuma." Ma il giovenetto Eustazio, in cui la face di pietade e d'amore è piú fervente, mentre bisbiglia ciascun altro, e tace, si tragge avanti e parla audacemente: "O germano e signor, troppo tenace del suo primo proposto è la tua mente, s'al consenso comun, che brama e prega, arrendevole alquanto or non si piega. Non dico io già che i principi, ch'a cura si stanno qui de' popoli soggetti, torcano il piè da l'oppugnate mura, e sian gli uffici lor da lor negletti; ma fra noi, che guerrier siam di ventura, senz'alcun proprio peso e meno astretti a le leggi de gli altri, elegger diece difensori del giusto a te ben lece; ch'al servigio di Dio già non si toglie l'uom ch'innocente vergine difende, ed assai care al Ciel son quelle spoglie che d'ucciso tiranno altri gli appende. Quando dunque a l'impresa or non m'invoglie quell'util certo che da lei s'attende, mi ci move il dover, ch'a dar tenuto è l'ordin nostro a le donzelle aiuto. Ah! non sia ver, per Dio, che si ridica in Francia, o dove in pregio è cortesia, che si fugga da noi rischio o fatica per cagion cosí giusta e cosí pia. Io per me qui depongo elmo e lorica, qui mi scingo la spada, e piú non fia ch'adopri indegnamente arme o destriero, o 'l nome usurpi mai di cavaliero." Cosí favella; e seco in chiaro suono tutto l'ordine suo concorde freme, e chiamando il consiglio utile e buono co' preghi il capitan circonda e preme. "Cedo," egli disse allora "e vinto sono al concorso di tanti uniti insieme; abbia, se parvi, il chiesto don costei da i vostri sí, non da i consigli miei. Ma se Goffredo di credenza alquanto pur trova in voi, temprate i vostri affetti." Tanto ei sol disse, e basta lor ben tanto perché ciascun quel che concede accetti. Or che non può di bella donna il pianto, ed in lingua amorosa i dolci detti? Esce da vaghe labra aurea catena che l'alme a suo voler prende ed affrena. Eustazio lei richiama, e dice: "Omai cessi, vaga donzella, il tuo dolore, ché tal da noi soccorso in breve avrai qual par che piú 'l richieggia il tuo timore." Serenò allora i nubilosi rai Armida, e sí ridente apparve fuore ch'innamorò di sue bellezze il cielo asciugandosi gli occhi co 'l bel velo. Rendé lor poscia, in dolci e care note, grazie per l'alte grazie a lei concesse, mostrando che sariano al mondo note mai sempre, e sempre nel suo core impresse; e ciò che lingua esprimer ben non pote, muta eloquenza ne' suoi gesti espresse, e celò sí sotto mentito aspetto il suo pensier ch'altrui non diè sospetto. Quinci vedendo che furtuna arriso al gran principio di sue frodi avea, prima che 'l suo pensier le sia preciso, dispon di trarre al fin opra sí rea, e far con gli atti dolci e co 'l bel viso piú che con l'arti lor Circe o Medea, e in voce di sirena a i suoi concenti addormentar le piú svegliate menti. Usa ogn'arte la donna, onde sia colto ne la sua rete alcun novello amante; né con tutti, né sempre un stesso volto serba, ma cangia a tempo atti e sembiante. Or tien pudica il guardo in sé raccolto, or lo rivolge cupido e vagante: la sferza in quegli, il freno adopra in questi, come lor vede in amar lenti o presti. Se scorge alcun che dal suo amor ritiri l'alma, e i pensier per diffidenza affrene, gli apre un benigno riso, e in dolci giri volge le luci in lui liete e serene; e cosí i pigri e timidi desiri sprona, ed affida la dubbiosa spene, ed infiammando l'amorose voglie sgombra quel gel che la paura accoglie. Ad altri poi, ch'audace il segno varca scòrto da cieco e temerario duce, de' cari detti e de' begli occhi è parca, e in lui timore e riverenza induce. Ma fra lo sdegno, onde la fronte è carca, pur anco un raggio di pietà riluce, sí ch'altri teme ben, ma non dispera, e piú s'invoglia quanto appar piú altera. Stassi tal volta ella in disparte alquanto e 'l volto e gli atti suoi compone e finge quasi dogliosa, e in fin su gli occhi il pianto tragge sovente e poi dentro il respinge; e con quest'arti a lagrimar intanto seco mill'alme semplicette astringe, e in foco di pietà strali d'amore tempra, onde pèra a sí fort'arme il core. Poi, sí come ella a quei pensier s'invole e novella speranza in lei si deste, vèr gli amanti il piè drizza e le parole, e di gioia la fronte adorna e veste; e lampeggiar fa, quasi un doppio sole, il chiaro sguardo e 'l bel riso celeste su le nebbie del duolo oscure e folte, ch'avea lor prima intorno al petto accolte. Ma mentre dolce parla e dolce ride, e di doppia dolcezza inebria i sensi, quasi dal petto lor l'alma divide, non prima usata a quei diletti immensi. Ahi crudo Amor, ch'egualmente n'ancide l'assenzio e 'l mèl che tu fra noi dispensi, e d'ogni tempo egualmente mortali vengon da te le medicine e i mali! Fra sí contrarie tempre, in ghiaccio e in foco, in riso e in pianto, e fra paura e spene, inforsa ogni suo stato, e di lor gioco l'ingannatrice donna a prender viene; e s'alcun mai con suon tremante e fioco osa parlando d'accennar sue pene, finge, quasi in amor rozza e inesperta, non veder l'alma ne' suoi detti aperta. O pur le luci vergognose e chine tenendo, d'onestà s'orna e colora, sí che viene a celar le fresche brine sotto le rose onde il bel viso infiora, qual ne l'ore piú fresche e matutine del primo nascer suo veggiam l'aurora; e 'l rossor de lo sdegno insieme n'esce con la vergogna, e si confonde e mesce. Ma se prima ne gli atti ella s'accorge d'uom che tenti scoprir l'accese voglie, or gli s'invola e fugge, ed or gli porge modo onde parli e in un tempo il ritoglie; cosí il dí tutto in vano error lo scorge stanco, e deluso poi di speme il toglie. Ei si riman qual cacciator ch'a sera perda al fin l'orma di seguita fèra. Queste fur l'arti onde mill'alme e mille prender furtivamente ella poteo, anzi pur furon l'arme onde rapille ed a forza d'Amor serve le feo. Qual meraviglia or fia s'il fero Achille d'Amor fu preda, ed Ercole e Teseo, s'ancor chi per Giesú la spada cinge l'empio ne' lacci suoi talora stringe? |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi @mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998