Torquato Tasso
Gerusalemme Liberata
POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO
AL SERENISSIMO SIGNORE
IL SIGNOR DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA
CANTO SETTIMO
Erminia fugge per tutta la notte e il giorno seguente; alla fine stanca si addormenta. Al risveglio vede un vecchio, che l'accoglie paternamente. Intanto Tancredi, va in cerca della creduta Clorinda, ma vista vana ogni ricerca, decide di tornare al campo cristiano, anche perché è vicino il giorno in cui dovrà riprendere il combattimento con Argante. Incontra un uomo che sembra un messaggero e gli chiede la via per il campo cristiano; il messaggero dice che è diretto proprio là inviato dallo zio Boemondo. Insieme giungono ad un castello, cinto da un sozzo rivo: è il castello incantato di Armida. Tancredi riconosce il messo: Rambaldo, uno dei dieci che era partito con Armida e per suo amore aveva abiurato la religione cristiana facendosi pagano. I due mettono mani alle spade e a fatica Armida accorre in aiuto di Rambaldo facendolo scomparire nel buio, Tancredi varca una porta e si trova intrappolato in una stanza. mentre Tancredi s'affligge, Argante attende spasmodico l'alba del sesto giorno per riprendere il combattimento con l'eroe cristiano. Tutto è pronto, ma di Tancredi nessuno sa nulla e altri eroi cristiani mancano all'appello. Si offre allora lo stesso Capitano Goffredo, ma glielo impedisce Raimondo, che si prepara a combattere; Goffredo allora propone che il nome sia scelto a caso, estraendo il nome da un'urna: la sorte sceglie proprio Raimondo di Tolosa. Raimondo sale sul suo cavallo Aquilino prega e Dio gli manda in aiuto un angelo; intanto comincia il combattimento dopo gli scherni di Argante che cerca Tancredi, mentre le mura si riempio di gente. Si spezza la lancia al primo assalto. A un ennesimo colpo va in frantumi la spada di Argante. Comincia il corpo a corpo finale, e a questo punto Belzebù decide di aiutare Argante, trasformando un'ombra leggera nelle sembianze di Clorinda e facendola apparire ad Oradino, spingendolo a colpire Raimondo con una freccia. Il patto viene così violato e scoppia la battaglia fra i due eserciti. Le forze cristiane stanno per prevalere, ma un improvviso acquazzone blocca tutte le operazioni. Interviene infine Clorinda che spinge i suoi al contrattacco, ma la pioggia blocca ogni combattimento.
Argomento |
Fugge
Erminia e un pastor l'accoglie; intanto Tancredi in van di lei cercando, il piede Pon ne' lacci d'Armida: il fero vanto D'Argante riprovar Raimondo ha fede: Però difeso da custode santo Seco entra in campo: Belzebù, che vede Ch'al Pagan male il folle ardir riesce, Per lui salvar guerra e procelle mesce. |
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Intanto Erminia infra l'ombrose piante d'antica selva dal cavallo è scòrta, né piú governa il fren la man tremante, e mezza quasi par tra viva e morta. Per tante strade si raggira e tante il corridor ch'in sua balia la porta, ch'al fin da gli occhi altrui pur si dilegua, ed è soverchio omai ch'altri la segua. Qual dopo lunga e faticosa caccia tornansi mesti ed anelanti i cani che la fèra perduta abbian di traccia, nascosa in selva da gli aperti piani, tal pieni d'ira e di vergogna in faccia riedono stanchi i cavalier cristiani. Ella pur fugge, e timida e smarrita non si volge a mirar s'anco è seguita. Fuggí tutta la notte, e tutto il giorno errò senza consiglio e senza guida, non udendo o vedendo altro d'intorno, che le lagrime sue, che le sue strida. Ma ne l'ora che 'l sol dal carro adorno scioglie i corsieri e in grembo al mar s'annida, giunse del bel Giordano a le chiare acque e scese in riva al fiume, e qui si giacque. Cibo non prende già, ché de' suoi mali solo si pasce e sol di pianto ha sete; ma 'l sonno, che de' miseri mortali è co 'l suo dolce oblio posa e quiete, sopí co' sensi i suoi dolori, e l'ali dispiegò sovra lei placide e chete; né però cessa Amor con varie forme la sua pace turbar mentre ella dorme. Non si destò fin che garrir gli augelli non sentí lieti e salutar gli albori, e mormorar il fiume e gli arboscelli, e con l'onda scherzar l'aura e co i fiori. Apre i languidi lumi e guarda quelli alberghi solitari de' pastori, e parle voce udir tra l'acqua e i rami ch'a i sospiri ed al pianto la richiami. Ma son, mentr'ella piange, i suoi lamenti rotti da un chiaro suon ch'a lei ne viene, che sembra ed è di pastorali accenti misto e di boscareccie inculte avene. Risorge, e là s'indrizza a passi lenti, e vede un uom canuto a l'ombre amene tesser fiscelle a la sua greggia a canto ed ascoltar di tre fanciulli il canto. Vedendo quivi comparir repente l'insolite arme, sbigottír costoro; ma li saluta Erminia e dolcemente gli affida, e gli occhi scopre e i bei crin d'oro: "Seguite," dice "aventurosa gente al Ciel diletta, il bel vostro lavoro, ché non portano già guerra quest'armi a l'opre vostre, a i vostri dolci carmi." Soggiunse poscia: "O padre, or che d'intorno d'alto incendio di guerra arde il paese, come qui state in placido soggiorno senza temer le militari offese?" "Figlio," ei rispose "d'ogni oltraggio e scorno la mia famiglia e la mia greggia illese sempre qui fur, né strepito di Marte ancor turbò questa remota parte. O sia grazia del Ciel che l'umiltade d'innocente pastor salvi e sublime, o che, sí come il folgore non cade in basso pian ma su l'eccelse cime, cosí il furor di peregrine spade sol de' gran re l'altere teste opprime, né gli avidi soldati a preda alletta la nostra povertà vile e negletta. Altrui vile e negletta, a me sí cara che non bramo tesor né regal verga, né cura o voglia ambiziosa o avara mai nel tranquillo del mio petto alberga. Spengo la sete mia ne l'acqua chiara, che non tem'io che di venen s'asperga, e questa greggia e l'orticel dispensa cibi non compri a la mia parca mensa. Ché poco è il desiderio, e poco è il nostro bisogno onde la vita si conservi. Son figli miei questi ch'addito e mostro, custodi de la mandra, e non ho servi. Cosí me 'n vivo in solitario chiostro, saltar veggendo i capri snelli e i cervi, ed i pesci guizzar di questo fiume e spiegar gli augelletti al ciel le piume. Tempo già fu, quando piú l'uom vaneggia ne l'età prima, ch'ebbi altro desio e disdegnai di pasturar la greggia; e fuggii dal paese a me natio, e vissi in Menfi un tempo, e ne la reggia fra i ministri del re fui posto anch'io, e benché fossi guardian de gli orti vidi e conobbi pur l'inique corti. Pur lusingato da speranza ardita soffrii lunga stagion ciò che piú spiace; ma poi ch'insieme con l'età fiorita mancò la speme e la baldanza audace, piansi i riposi di quest'umil vita e sospirai la mia perduta pace, e dissi; `O corte, a Dio.' Cosí, a gli amici boschi tornando, ho tratto i dí felici." Mentre ei cosí ragiona, Erminia pende da la soave bocca intenta e cheta; e quel saggio parlar, ch'al cor le scende, de' sensi in parte le procelle acqueta. Dopo molto pensar, consiglio prende in quella solitudine secreta insino a tanto almen farne soggiorno ch'agevoli fortuna il suo ritorno. Onde al buon vecchio dice: "O fortunato, ch'un tempo conoscesti il male a prova, se non t'invidii il Ciel sí dolce stato, de le miserie mie pietà ti mova; e me teco raccogli in cosí grato albergo ch'abitar teco mi giova. Forse fia che 'l mio core infra quest'ombre del suo peso mortal parte disgombre. Ché se di gemme e d'or, che 'l vulgo adora sí come idoli suoi, tu fossi vago, potresti ben, tante n'ho meco ancora, renderne il tuo desio contento e pago." Quinci, versando da' begli occhi fora umor di doglia cristallino e vago, parte narrò di sue fortune, e intanto il pietoso pastor pianse al suo pianto. Poi dolce la consola e sí l'accoglie come tutt'arda di paterno zelo, e la conduce ov'è l'antica moglie che di conforme cor gli ha data il Cielo. La fanciulla regal di rozze spoglie s'ammanta, e cinge al crin ruvido velo; ma nel moto de gli occhi e de le membra non già di boschi abitatrice sembra. Non copre abito vil la nobil luce e quanto è in lei d'altero e di gentile, e fuor la maestà regia traluce per gli atti ancor de l'essercizio umile. Guida la greggia a i paschi e la riduce con la povera verga al chiuso ovile, e da l'irsute mamme il latte preme e 'n giro accolto poi lo strige insieme. Sovente, allor che su gli estivi ardori giacean le pecorelle a l'ombra assise, ne la scorza de' faggi e de gli allori segnò l'amato nome in mille guise, e de' suoi strani ed infelici amori gli aspri successi in mille piante incise, e in rileggendo poi le proprie note rigò di belle lagrime le gote. Indi dicea piangendo: "In voi serbate questa dolente istoria, amiche piante; perché se fia ch'a le vostr'ombre grate giamai soggiorni alcun fedele amante, senta svegliarsi al cor dolce pietate de le sventure mie sí varie e tante, e dica: `Ah troppo ingiusta empia mercede diè Fortuna ed Amore a sí gran fede!' Forse averrà, se 'l Ciel benigno ascolta affettuoso alcun prego mortale, che venga in queste selve anco tal volta quegli a cui di me forse or nulla cale; e rivolgendo gli occhi ove sepolta giacerà questa spoglia inferma e frale, tardo premio conceda a i miei martíri di poche lagrimette e di sospiri; onde se in vita il cor misero fue, sia lo spirito in morte almen felice, e 'l cener freddo de le fiamme sue goda quel ch'or godere a me non lice." Cosí ragiona a i sordi tronchi, e due fonti di pianto da' begli occhi elice. Tancredi intanto, ove fortuna il tira lunge da lei, per lei seguir, s'aggira. Egli, seguendo le vestigia impresse rivolse il corso a la selva vicina; ma quivi da le piante orride e spesse nera e folta cosí l'ombra dechina che piú non può raffigurar tra esse l'orme novelle, e 'n dubbio oltre camina, porgendo intorno pur l'orecchie intente se calpestio, se romor d'armi sente. E se pur la notturna aura percote tenera fronde mai d'olmo o di faggio, o se fèra od augello un ramo scote, tosto a quel picciol suon drizza il viaggio. Esce al fin de la selva, e per ignote strade il conduce de la luna il raggio verso un romor che di lontano udiva, insin che giunse al loco ond'egli usciva. Giunse dove sorgean da vivo sasso in molta copia chiare e lucide onde, e fattosene un rio volgeva a basso lo strepitoso piè tra verdi sponde. Quivi egli ferma addolorato il passo e chiama, e sola a i gridi Ecco risponde; e vede intanto con serene ciglia sorger l'aurora candida e vermiglia. Geme cruccioso, e 'ncontra il Ciel si sdegna che sperata gli neghi alta ventura; ma de la donna sua, quand'ella vegna offesa pur, far la vendetta giura. Di rivolgersi al campo al fin disegna, benché la via trovar non s'assecura, ché gli sovien che presso è il dí prescritto che pugnar dée co 'l cavalier d'Egitto. Partesi, e mentre va per dubbio calle ode un corso appressar ch'ognor s'avanza, ed al fine spuntar d'angusta valle vede uom che di corriero avea sembianza. Scotea mobile sferza, e da le spalle pendea il corno su 'l fianco a nostra usanza. Chiede Tancredi a lui per quale strada al campo de' cristiani indi si vada. Quegli italico parla: "Or là m'invio dove m'ha Boemondo in fretta spinto." Segue Tancredi lui che del gran zio messaggio stima, e crede al parlar finto. Giungono al fin là dove un sozzo e rio lago impaluda, ed un castel n'è cinto, ne la stagion che 'l sol par che s'immerga ne l'ampio nido ove la notte alberga. Suona il corriero in arrivando il corno, e tosto giú calar si vede un ponte: "Quando latin sia tu, qui far soggiorno potrai" gli dice "in fin che 'l sol rimonte, ché questo loco, e non è il terzo giorno, tolse a i pagani di Cosenza il conte." Mira il loco il guerrier, che d'ogni parte inespugnabil fanno il sito e l'arte. Dubita alquanto poi ch'entro sí forte magione alcuno inganno occulto giaccia; ma come avezzo a i rischi de la morte, motto non fanne, e no 'l dimostra in faccia, ch'ovunque il guidi elezione o sorte, vuol che securo la sua destra il faccia. Pur l'obligo ch'egli ha d'altra battaglia fa che di nova impresa or non gli caglia; sí ch'incontra al castello, ove in un prato il curvo ponte si distende e posa, ritiene alquanto il passo, ed invitato non segue la sua scorta insidiosa. Su 'l ponte intanto un cavaliero armato con sembianza apparia fera e sdegnosa, ch'avendo ne la destra il ferro ignudo in suon parlava minaccioso e crudo: "O tu, che (siasi tua fortuna o voglia) al paese fatal d'Armida arrive, pensi indarno al fuggir; or l'arme spoglia, e porgi a i lacci suoi le man cattive, ed entra pur ne la guardata soglia con queste leggi ch'ella altrui prescrive, né piú sperar di riveder il cielo per volger d'anni o per cangiar di pelo, se non giuri d'andar con gli altri sui contra ciascun che da Giesú s'appella." S'affisa a quel parlar Tancredi in lui e riconosce l'arme e la favella. Rambaldo di Guascogna era costui che partí con Armida, e sol per ella pagan si fece e difensor divenne di quell'usanza rea ch'ivi si tenne. Di santo sdegno il pio guerrier si tinse nel volto, e gli rispose: "Empio fellone, quel Tancredi son io che 'l ferro cinse per Cristo sempre, e fui di lui campione; e in sua virtute i suoi rubelli vinse, come vuo' che tu vegga al paragone, ché da l'ira del Ciel ministra eletta è questa destra a far in te vendetta." Turbossi udendo il glorioso nome l'empio guerriero, e scolorissi in viso. Pur celando il timor, gli disse: "Or come, misero, vieni ove rimanga ucciso? Qui saran le tue forze oppresse e dome, e questo altero tuo capo reciso; e manderollo a i duci franchi in dono, s'altro da quel che soglio oggi non sono." Cosí dicea il pagano; e perché il giorno spento era omai sí che vedeasi a pena, apparír tante lampade d'intorno che ne fu l'aria lucida e serena. Splende il castel come in teatro adorno suol fra notturne pompe altera scena, ed in eccelsa parte Armida siede, onde senz'esser vista e ode e vede. Il magnanimo eroe fra tanto appresta a la fera tenzon l'arme e l'ardire, né su 'l debil cavallo assiso resta già veggendo il nemico a pié venire. Vien chiuso ne lo scudo e l'elmo ha in testa, la spada nuda, e in atto è di ferire. Gli move incontra il principe feroce con occhi torvi e con terribil voce. Quegli con larghe rote aggira i passi stretto ne l'arme, e colpi accenna e finge; questi, se ben ha i membri infermi e lassi, va risoluto e gli s'appressa e stringe, e là donde Rambaldo a dietro fassi velocissimamente egli si spinge, e s'avanza e l'incalza, e fulminando spesso a la vista gli dirizza il brando. E piú ch'altrove impetuoso fère ove piú di vital formò natura, a le percosse le minaccie altere accompagnando, e 'l danno a la paura. Di qua di là si volge, e sue leggiere membra il presto guascone a i colpi fura, e cerca or con lo scudo or con la spada che 'l nemico furore indarno cada; ma veloce a lo schermo ei non è tanto che piú l'altro non sia pronto a l'offese. Già spezzato lo scudo e l'elmo infranto e forato e sanguigno avea l'arnese, e colpo alcun de' suoi che tanto o quanto impiagasse il nemico anco non scese; e teme, e gli rimorde insieme il core sdegno, vergogna, conscienza, amore. Disponsi al fin con disperata guerra far prova omai de l'ultima fortuna. Gitta lo scudo, e a due mani afferra la spada ch'è di sangue ancor digiuna; e co 'l nemico suo si stringe e serra e cala un colpo, e non v'è piastra alcuna che gli resista sí che grave angoscia non dia piagando a la sinistra coscia. E poi su l'ampia fronte il ripercote sí ch'il picchio rimbomba in suon di squilla; l'elmo non fende già, ma lui ben scote, tal ch'egli si rannicchia e ne vacilla. Infiamma d'ira il principe le gote, e ne gli occhi di foco arde e sfavilla; e fuor de la visiera escono ardenti gli sguardi, e insieme lo stridor de' denti. Il perfido pagan già non sostiene la vista pur di sí feroce aspetto. Sente fischiare il ferro, e tra le vene già gli sembra d'averlo e in mezzo al petto. Fugge dal colpo, e 'l colpo a cader viene dove un pilastro è contra il ponte eretto; ne van le scheggie e le scintille al cielo, e passa al cor del traditor un gelo, onde al ponte rifugge, e sol nel corso de la salute sua pone ogni speme. Ma 'l seguita Tancredi, e già su 'l dorso la man gli stende e 'l piè co 'l piè gli preme, quando ecco (al fuggitivo alto soccorso) sparir le faci ed ogni stella insieme, né rimaner a l'orba notte alcuna, sotto povero ciel, luce di luna. Fra l'ombre de la notte e de gli incanti il vincitor no 'l segue piú né 'l vede, né può cosa vedersi a lato o inanti, e muove dubbio e mal securo il piede. Su l'entrare d'un uscio i passi erranti a caso mette, né d'entrar s'avede, ma sente poi che suona a lui di dietro la porta, e 'n loco il serra oscuro e tetro. Come il pesce colà dove impaluda ne i seni di Comacchio il nostro mare, fugge da l'onda impetuosa e cruda cercando in placide acque ove ripare, e vien che da se stesso ei si rinchiuda in palustre prigion né può tornare, ché quel serraglio è con mirabil uso sempre a l'entrare aperto, a l'uscir chiuso; cosí Tancredi allor, qual che si fosse de l'estrania prigion l'ordigno e l'arte, entrò per se medesmo, e ritrovosse poi là rinchiuso ov'uom per sé non parte. Ben con robusta man la porta scosse, ma fur le sue fatiche indarno sparte, e voce intanto udí che: "Indarno" grida "uscir procuri, o prigionier d'Armida. Qui menerai (non temer già di morte) nel sepolcro de' vivi i giorni e gli anni." Non risponde, ma preme il guerrier forte nel cor profondo i gemiti e gli affanni, e fra se stesso accusa Amor, la sorte, la sua schiocchezza e gli altrui feri inganni; e talor dice in tacite parole: "Leve perdita fia perdere il sole, ma di piú vago sol piú dolce vista, misero! i' perdo, e non so già se mai in loco tornerò che l'alma trista si rassereni a gli amorosi rai." Poi gli sovien d'Argante, e piú s'attrista e: "Troppo" dice "al mio dover mancai; ed è ragion ch'ei mi disprezzi e scherna! O mia gran colpa! o mia vergogna eterna!" Cosí d'amor, d'onor cura mordace quinci e quindi al guerrier l'animo rode. Or mentre egli s'affligge, Argante audace le molli piume di calcar non gode; tanto è nel crudo petto odio di pace, cupidigia di sangue, amor di lode, che, de le piaghe sue non sano ancora, brama che 'l sesto dí porti l'aurora. La notte che precede, il pagan fero a pena inchina, per dormir la fronte; e sorge poi che 'l cielo anco è sí nero che non dà luce in su la cima al monte. "Recami" grida "l'arme" al suo scudiero, ed esso aveale apparecchiate e pronte: non le solite sue, ma dal re sono dategli queste, e prezioso è il dono. Senza molto mirarle egli le prende né dal gran peso è la persona onusta, e la solita spada al fianco appende, ch'è di tempra finissima e vetusta. Qual con le chiome sanguinose orrende splender cometa suol per l'aria adusta, che i regni muta e i feri morbi adduce, a i purpurei tiranni infausta luce; tal ne l'arme ei fiammeggia, e bieche e torte volge le luci ebre di sangue e d'ira. Spirano gli atti feri orror di morte, e minaccie di morte il volto spira. Alma non è cosí secura e forte che non paventi, ove un sol guardo gira. Nuda ha la spada e la solleva e scote gridando, e l'aria e l'ombre in van percote. "Ben tosto" dice "il predator cristiano, ch'audace è sí ch'a me vuole agguagliarsi, caderà vinto e sanguinoso al piano, bruttando ne la polve i crini sparsi; e vedrà vivo ancor da questa mano ad onta del suo Dio l'arme spogliarsi, né morendo impetrar potrà co' preghi ch'in pasto a' cani le sue membra i' neghi." Non altramente il tauro, ove l'irriti geloso amor co' stimuli pungenti, orribilmente mugge, e co' muggiti gli spirti in sé risveglia e l'ire ardenti, e 'l corno aguzza a i tronchi, e par ch'inviti con vani colpi a la battaglia i venti: sparge co 'l piè l'arena, e 'l suo rivale da lunge sfida a guerra aspra e mortale. Da sí fatto furor commosso, appella l'araldo; e con parlar tronco gli impone: "Vattene al campo, e la battaglia fella nunzia a colui ch'è di Giesú campione." Quinci alcun non aspetta e monta in sella, e fa condursi inanzi il suo prigione; esce fuor de la terra, e per lo colle in corso vien precipitoso e folle. Dà fiato intanto al corno, e n'esce un suono che d'ogn'intorno orribile s'intende e 'n guisa pur di strepitoso tuono gli orecchi e 'l cor de gli ascoltanti offende. Già i principi cristiani accolti sono ne la tenda maggior de l'altre tende: qui fe' l'araldo sue disfide e incluse Tancredi pria, né però gli altri escluse. Goffredo intorno gli occhi gravi e tardi volge con mente allor dubbia e sospesa, né, perché molto pensi e molto guardi, atto gli s'offre alcuno a tanta impresa. Vi manca il fior de' suoi guerrier gagliardi: di Tancredi non s'è novella intesa, e lunge è Boemondo, ed ito è in bando l'invitto eroe ch'uccise il fier Gernando. Ed oltre i diece che fur tratti a sorte, i migliori del campo e i piú famosi seguír d'Armida le fallaci scorte, sotto il silenzio de la notte ascosi. Gli altri di mano e d'animo men forte taciti se ne stanno e vergognosi, né vi è chi cerchi in sí gran rischio onore, ché vinta la vergogna è dal timore. Al silenzio, a l'aspetto, ad ogni segno, di lor temenza il capitan s'accorse, e tutto pien di generoso sdegno dal loco ove sedea repente sorse, e disse: "Ah! ben sarei di vita indegno se la vita negassi or porre in forse, lasciando ch'un pagan cosí vilmente calpestasse l'onor di nostra gente! Sieda in pace il mio campo, e da secura parte miri ozioso il mio periglio. Su su, datemi l'arme"; e l'armatura gli fu recata in un girar di ciglio. Ma il buon Raimondo, che in età matura parimente maturo avea il consiglio, e verdi ancor le forze a par di quanti erano quivi, allor si trasse avanti, e disse a lui rivolto: "Ah non sia vero ch'in un capo s'arrischi il campo tutto! Duce sei tu, non semplice guerriero: publico fòra e non privato il lutto. In te la fé s'appoggia e 'l santo impero, per te fia il regno di Babèl distrutto. Tu il senno sol, lo scettro solo adopra; ponga altri poi l'ardire e 'l ferro in opra. Ed io, bench'a gir curvo mi condanni la grave età, non fia che ciò ricusi. Schivino gli altri i marziali affanni, me non vuo' già che la vecchiezza scusi. Oh! foss'io pur su 'l mio vigor de gli anni qual sète or voi, che qui temendo chiusi vi state e non vi move ira o vergogna contra lui che vi sgrida e vi rampogna, e quale allora fui, quando al cospetto di tutta la Germania, a la gran corte del secondo Corrado, apersi il petto al feroce Leopoldo e 'l posi a morte! E fu d'alto valor piú chiaro effetto le spoglie riportar d'uom cosí forte, che s'alcun or fugasse inerme e solo di questa ignobil turba un grande stuolo. Se fosse in me quella virtú, quel sangue, di questo alter l'orgoglio avrei già spento. Ma qualunque io mi sia, non però langue il core in me, né vecchio anco pavento, E s'io pur rimarrò nel campo essangue, né il pagan di vittoria andrà contento. Armarmi i' vuo': sia questo il dí ch'illustri con novo onor tutti i miei scorsi lustri." Cosí parla il gran vecchio, e sproni acuti son le parole, onde virtú si desta. Quei che fur prima timorosi e muti hanno la lingua or baldanzosa e presta. Né sol non v'è che la tenzon rifiuti, ma ella omai da molti a prova è chiesta: Baldovin la domanda, e con Ruggiero Guelfo, i due Guidi, e Stefano e Gerniero, e Pirro, quel che fe' il lodato inganno dando Antiochia presa a Boemondo; ed a prova richiesta anco ne fanno Eberardo, Ridolfo e 'l pro' Rosmondo, un di Scozia, un d'Irlanda, ed un britanno, terre che parte il mar dal nostro mondo; e ne son parimente anco bramosi Gildippe ed Odoardo, amanti e sposi. Ma sovra tutti gli altri il fero vecchio se ne dimostra cupido ed ardente. Armato è già; sol manca a l'apparecchio de gli altri arnesi il fino elmo lucente. A cui dice Goffredo: "O vivo specchio del valor prisco, in te la nostra gente miri e virtú n'apprenda: in te di Marte splende l'onor, la disciplina e l'arte. Oh! pur avessi fra l'etade acerba diece altri di valor al tuo simíle, come ardirei vincer Babèl superba e la Croce spiegar da Battro a Tile. Ma cedi or, prego, e te medesmo serba a maggior opre e di virtú senile. Pongansi poi tutti i nomi in un vaso come è l'usanza, e sia giudice il caso; anzi giudice Dio, de le cui voglie ministra e serva è la fortuna e 'l fato." Ma non però dal suo pensier si toglie Raimondo, e vuol anch'egli esser notato. Ne l'elmo suo Goffredo i brevi accoglie; e poi che l'ebbe scosso ed agitato, nel primo breve che di là traesse, del conte di Tolosa il nome lesse. Fu il nome suo con lieto grido accolto, né di biasmar la sorte alcun ardisce. Ei di fresco vigor la fronte e 'l volto riempie; e cosí allor ringiovenisce qual serpe fier che in nove spoglie avolto d'oro fiammeggi e 'ncontra il sol si lisce. Ma piú d'ogn'altro il capitan gli applaude e gli annunzia vittoria, e gli dà laude. E la spada togliendosi dal fianco, e porgendola a lui, cosí dicea: "Questa è la spada che 'n battaglia il franco rubello di Sassonia oprar solea, ch'io già gli tolsi a forza, e gli tolsi anco la vita allor di mille colpe rea; questa, che meco ognor fu vincitrice, prendi, e sia cosí teco ora felice." Di loro indugio intanto è quell'altero impaziente, e li minaccia e grida: "O gente invitta, o popolo guerriero d'Europa, un uomo solo è che vi sfida. Venga Tancredi omai che par sí fero, se ne la sua virtú tanto si fida; o vuol, giacendo in piume, aspettar forse la notte ch'altre volte a lui soccorse? Venga altri, s'egli teme; a stuolo a stuolo venite insieme, o cavalieri, o fanti, poi che di pugnar meco a solo a solo non v'è fra mille schiere uom che si vanti. Vedete là il sepolcro ove il figliuolo di Maria giacque: or ché non gite avanti? ché non sciogliete i voti? Ecco la strada! A qual serbate uopo maggior la spada?" Con tali scherni il saracin atroce quasi con dura sferza altrui percote, ma piú ch'altri Raimondo a quella voce s'accende, e l'onte sofferir non pote. La virtú stimolata è piú feroce, e s'aguzza de l'ira a l'aspra cote, sí che tronca gli indugi e preme il dorso del suo Aquilino, a cui diè 'l nome il corso. Questo su 'l Tago nacque, ove talora l'avida madre del guerriero armento, quando l'alma stagion che n'innamora nel cor le instiga il natural talento, volta l'aperta bocca incontra l'òra, raccoglie i semi del fecondo vento, e de' tepidi fiati (o meraviglia!) cupidamente ella concipe e figlia. E ben questo Aquilin nato diresti di quale aura del ciel piú lieve spiri, o se veloce sí ch'orma non resti stendere il corso per l'arena il miri, o se 'l vedi addoppiar leggieri e presti a destra ed a sinistra angusti giri. Sovra tal corridore il conte assiso move a l'assalto, e volge al cielo il viso: "Signor, tu che drizzasti incontra l'empio Golia l'arme inesperte in Terebinto, sí ch'ei ne fu, che d'Israel fea scempio, al primo sasso d'un garzone estinto; tu fa' ch'or giaccia (e fia pari l'essempio) questo fellon da me percosso e vinto, e debil vecchio or la superbia opprima come debil fanciul l'oppresse in prima." Cosí pregava il conte, e le preghiere mosse dalla speranza in Dio secura s'alzàr volando a le celesti spere, come va foco al ciel per sua natura. L'accolse il Padre eterno, e fra le schiere de l'essercito suo tolse a la cura un che 'l difenda, e sano e vincitore da le man di quell'empio il tragga fuore. L'angelo, che fu già custode eletto da l'alta Providenza al buon Raimondo insin dal primo dí che pargoletto se 'n venne a farsi peregrin del mondo, or che di novo il Re del Ciel gli ha detto che prenda in sé de la difesa il pondo, ne l'alta rocca ascende, ove de l'oste divina tutte son l'arme riposte. Qui l'asta si conserva onde il serpente percosso giacque, e i gran fulminei strali, e quegli ch'invisibili a la gente portan l'orride pesti e gli altri mali; e qui sospeso è in alto il gran tridente, primo terror de' miseri mortali quando egli avien che i fondamenti scota de l'ampia terra, e le città percota. Si vedea fiammeggiar fra gli altri arnesi scudo di lucidissimo diamante, grande che può coprir genti e paesi quanti ve n'ha fra il Caucaso e l'Atlante; e sogliono da questo esser difesi principi giusti e città caste e sante. Questo l'angelo prende, e vien con esso occultamente al suo Raimondo appresso. Piene intanto le mura eran già tutte di varia turba, e 'l barbaro tiranno manda Clorinda e molte genti instrutte, che ferme a mezzo il colle oltre non vanno. Da l'altro lato in ordine ridutte alcune schiere di cristiani stanno, e largamente a' duo campioni il campo vòto riman fra l'uno e l'altro campo. Mirava Argante, e non vedea Tancredi, ma d'ignoto campion sembianze nove. Fecesi il conte inanzi, e: " Quel che chiedi, è" disse a lui "per tua ventura altrove. Non superbir però, ché me qui vedi apparecchiato a riprovar tue prove, ch'io di lui posso sostener la vice o venir come terzo a me qui lice." Ne sorride il superbo, e gli risponde: "Che fa dunque Tancredi? e dove stassi? Minaccia il ciel con l'arme, e poi s'asconde fidando sol ne' suoi fugaci passi; ma fugga pur nel centro e 'n mezzo l'onde, ché non fia loco ove securo il lassi." "Menti" replica l'altro "a dir ch'uom tale fugga da te, ch'assai di te piú vale." Freme il circasso irato, e dice: "Or prendi del campo tu, ch'in vece sua t'accetto; e tosto e' si parrà come difendi l'alta follia del temerario detto." Cosí mossero in giostra, e i colpi orrendi parimente drizzaro ambi a l'elmetto; e 'l buon Raimondo ove mirò scontrollo, né dar gli fece ne l'arcion pur crollo. Da l'altra parte il fero Argante corse (fallo insolito a lui) l'arringo in vano, ché 'l difensor celeste il colpo torse dal custodito cavalier cristiano. Le labra il crudo per furor si morse, e ruppe l'asta bestemmiando al piano. Poi tragge il ferro, e va contra Raimondo impetuoso al paragon secondo. E 'l possente corsiero urta per dritto, quasi monton ch'al cozzo il capo abbassa. Schiva Raimondo l'urto, al lato dritto piegando il corso, e 'l fère in fronte e passa. Torna di novo il cavalier d'Egitto, ma quegli pur di novo a destra il lassa, e pur su l'elmo il coglie, e 'ndarno sempre ché l'elmo adamantine avea le tempre. Ma il feroce pagan, che seco vòle piú stretta zuffa, a lui s'aventa e serra. L'altro, ch'al peso di sí vasta mole teme d'andar co 'l suo destriero a terra, qui cede, ed indi assale, e par che vòle, intorniando con girevol guerra, e i lievi imperii il rapido cavallo segue del freno, e non pone orma in fallo. Qual capitan ch'oppugni eccelsa torre infra paludi posta o in alto monte, mille aditi ritenta, e tutte scorre l'arti e le vie, cotal s'aggira il conte; e poi che non può scaglia d'arme tòrre ch'armano il petto e la superba fronte, fère i men forti arnesi, ed a la spada cerca tra ferro e ferro aprir la strada. Ed in due parti o in tre forate e fatte l'arme nemiche ha già tepide e rosse, ed egli ancor le sue conserva intatte, né di cimier, né d'un sol fregio scosse. Argante indarno arrabbia, a vòto batte e spande senza pro l'ire e le posse; non si stanca però, ma raddoppiando va tagli e punte e si rinforza errando. Al fin tra mille colpi il saracino cala un fendente, e 'l conte è cosí presso che forse il velocissimo Aquilino non sottraggeasi e rimaneane oppresso; ma l'aiuto invisibile vicino non mancò lui di quel superno messo, che stese il braccio e tolse il ferro crudo sovra il diamante del celeste scudo. Fragile è il ferro allor (ché non resiste di fucina mortal tempra terrena ad armi incorrottibili ed immiste d'eterno fabro) e cade in su l'arena. Il circasso, ch'andarne a terra ha viste minutissime parti, il crede a pena; stupisce poi, scorta la mano inerme, ch'arme il campion nemico abbia sí ferme; e ben rotta la spada aver si crede su l'altro scudo, onde è colui difeso, e 'l buon Raimondo ha la medesma fede, ché non sa già chi sia dal ciel disceso. Ma però ch'egli disarmata vede la man nemica, si riman sospeso, ché stima ignobil palma e vili spoglie quelle ch'altrui con tal vantaggio toglie. "Prendi" volea già dirgli "un'altra spada", quando novo pensier nacque nel core, ch'alto scorno è de' suoi dove egli cada, che di publica causa è difensore. Cosí né indegna a lui vittoria aggrada, né in dubbio vuol porre il comune onore. Mentre egli dubbio stassi, Argante lancia il pomo e l'else a la nemica guancia, e in quel tempo medesmo il destrier punge e per venirne a lotta oltra si caccia. La percossa lanciata a l'elmo giunge, sí che ne pesta al tolosan la faccia; ma però nulla sbigottisce, e lunge ratto si svia da le robuste braccia, ed impiaga la man ch'a dar di piglio venia piú fera che ferino artiglio. Poscia gira da questa a quella parte, e rigirasi a questa indi da quella; e sempre, e dove riede e donde parte, fère il pagan d'aspra percossa e fella. Quanto avea di vigor, quanto avea d'arte, quanto può sdegno antico, ira novella, a danno del circasso or tutto aduna, e seco il Ciel congiura e la fortuna. Quei di fine arme e di se stesso armato, a i gran colpi resiste e nulla pave; e par senza governo in mar turbato, rotte vele ed antenne, eccelsa nave, che pur contesto avendo ogni suo lato tenacemente di robusta trave, sdrusciti i fianchi al tempestoso flutto non mostra ancor, né si dispera in tutto. Argante, il tuo periglio allor tal era, quando aiutarti Belzebú dispose. Questi di cava nube ombra leggiera (mirabil mostro) in forma d'uom compose; e la sembianza di Clorinda altera gli finse, e l'arme ricche e luminose: diegli il parlare e senza mente il noto suon de la voce, e 'l portamento e 'l moto. Il simulacro ad Oradin, esperto sagittario famoso, andonne e disse: "O famoso Oradin, ch'a segno certo, come a te piace, le quadrella affisse, ah! gran danno saria s'uom di tal merto, difensor di Giudea, cosí morisse, e di sue spoglie il suo nemico adorno securo ne facesse a i suoi ritorno. Qui fa' prova de l'arte, e le saette tingi, nel sangue del ladron francese, ch'oltra il perpetuo onor vuo' che n'aspette premio al gran fatto egual dal re cortese." Cosí parlò, né quegli in dubbio stette, tosto che 'l suon de le promesse intese; da la grave faretra un quadrel prende e su l'arco l'adatta, e l'arco tende. Sibila il teso nervo, e fuore spinto vola il pennuto stral per l'aria e stride, ed a percoter va dove del cinto si congiungon le fibbie e le divide; passa l'usbergo, e in sangue a pena tinto qui su si ferma e sol la pelle incide, ché 'l celeste guerrier soffrir non volse ch'oltra passasse, e forza al colpo tolse. Da l'usbergo lo stral si tragge il conte ed ispicciarne fuori il sangue vede; e con parlar pien di minaccie ed onte rimprovera al pagan la rotta fede. Il capitan, che non torcea la fronte da l'amato Raimondo, allor s'avede che violato è il patto, e perché grave stima la piaga, ne sospira e pave; e con la fronte le sue genti altere e con la lingua a vendicarlo desta. Vedi tosto inchinar giú le visiere, lentare i freni e por le lancie in resta, e quasi in un sol punto alcune schiere da quella parte moversi e da questa. Sparisce il campo, e la minuta polve con densi globi al ciel s'inalza e volve. D'elmi e scudi percossi e d'aste infrante ne' primi scontri un gran romor s'aggira. Là giacere un cavallo, e girne errante un altro là senza rettor si mira; qui giace un guerrier morto, e qui spirante altri singhiozza e geme, altri sospira. Fera è la pugna, e quanto piú si mesce e stringe insieme, piú s'inaspra e cresce. Salta Argante nel mezzo agile e sciolto, e toglie ad un guerrier ferrata mazza; e rompendo lo stuol calcato e folto, la rota intorno e si fa larga piazza. E sol cerca Raimondo, e in lui sol vòlto ha il ferro e l'ira impetuosa e pazza, e quasi avido lupo ei par che brame ne le viscere sue pascer la fame. Ma duro ad impedir viengli il sentiero e fero intoppo, acciò che 'l corso ei tardi. Si trova incontra Ormanno, e con Ruggiero di Balnavilla un Guido e duo Gherardi. Non cessa, non s'allenta, anzi è piú fero quanto ristretto è piú da que' gagliardi, sí come a forza da rinchiuso loco se n'esce e move alte ruine il foco. Uccide Ormanno, piaga Guido, atterra Ruggiero infra gli estinti egro e languente, ma contra lui crescon le turbe, e 'l serra d'uomini e d'arme cerchio aspro e pungente. Mentre in virtú di lui pari la guerra si mantenea fra l'una e l'altra gente, il buon duce Buglion chiama il fratello, ed a lui dice: "Or movi il tuo drapello, e là dove battaglia è piú mortale vattene ad investir nel lato manco." Quegli si mosse, e fu lo scontro tale ond'egli urtò de gli nemici al fianco, che parve il popol d'Asia imbelle e frale, né poté sostener l'impeto franco, che gli ordini disperde, e co' destrieri l'insegne insieme abbatte e i cavalieri. Da l'impeto medesmo in fuga è vòlto il destro corno; e non v'è alcun che faccia fuor ch'Argante difesa, a freno sciolto cosí il timor precipiti li caccia. Egli sol ferma il passo e mostra il volto, né chi con mani cento e cento braccia cinquanta scudi insieme ed altrettante spade movesse, or piú faria d'Argante. Ei gli stocchi e le mazze, egli de l'aste e de' corsieri l'impeto sostenta; e solo par che 'ncontra tutti baste, ed ora a questo ed ora a quel s'aventa. Peste ha le membra e rotte l'arme e guaste, e sudor versa e sangue, e par no 'l senta. Ma cosí l'urta il popol denso e 'l preme ch'al fin lo svolge e seco il porta insieme. Volge il tergo a la forza ed al furore di quel diluvio che 'l rapisce e 'l tira; ma non già d'uom che fugga ha i passi e 'l core, s'a l'opre de la mano il cor si mira. Serbano ancora gli occhi il lor terrore e le minaccie de la solita ira; e cerca ritener con ogni prova la fuggitiva turba, e nulla giova. Non può far quel magnanimo ch'almeno sia lor fuga piú tarda e piú raccolta, ché non ha la paura arte né freno, né pregar qui né comandar s'ascolta. Il pio Buglion, ch'i suoi pensieri a pieno vede fortuna a favorir rivolta, segue de la vittoria il lieto corso e invia novello a i vincitor soccorso. E se non che non era il dí che scritto Dio ne gli eterni suoi decreti avea, quest'era forse il dí che 'l campo invitto de le sante fatiche al fin giungea. Ma la schiera infernal, ch'in quel conflitto la tirannide sua cader vedea, sendole ciò permesso, in un momento l'aria in nube ristrinse e mosse il vento. Da gli occhi de' mortali un negro velo rapisce il giorno e 'l sole, e par ch'avampi negro via piú ch'orror d'inferno il cielo, cosí fiammeggia infra baleni e lampi. Fremono i tuoni, e pioggia accolta in gelo si versa, e i paschi abbatte e inonda i campi. Schianta i rami il gran turbo, e par che crolli non pur le quercie ma le rocche e i colli. L'acqua in un tempo, il vento e la tempesta ne gli occhi a i Franchi impetuosa fère, e l'improvisa violenza arresta con un terror quasi fatal le schiere. La minor parte d'esse accolta resta (ché veder non le puote) a le bandiere. Ma Clorinda, che quindi alquanto è lunge prende opportuno il tempo e 'l destrier punge. Ella gridava a i suoi: "Per noi combatte, compagni, il Cielo, e la giustizia aita; da l'ira sua le faccie nostre intatte sono, e non è la destra indi impedita, e ne la fronte solo irato ei batte de la nemica gente impaurita, e la scote de l'arme, e de la luce la priva: andianne pur, ché 'l fato è duce." Cosí spinge le genti, e ricevendo sol nelle spalle l'impeto d'inferno, urta i Francesi con assalto orrendo, e i vani colpi lor si prende a scherno. Ed in quel tempo Argante anco volgendo fa de' già vincitor aspro governo, e quei lasciando il campo a tutto corso volgono al ferro, a le procelle il dorso. Percotono le spalle a i fuggitivi l'ire immortali e le mortali spade, e 'l sangue corre e fa, commisto a i rivi de la gran pioggia, rosseggiar le strade. Qui tra 'l vulgo de' morti e de' mal vivi e Pirro e 'l buon Ridolfo estinto cade; e toglie a questo il fier circasso l'alma, e Clorinda di quello ha nobil palma. Cosí fuggiano i Franchi, e di lor caccia non rimaneano i Siri anco o i demoni. Sol contra l'arme e contra ogni minaccia di granuole, di turbini e di tuoni volgea Goffredo la secura faccia, rampognando aspramente i suoi baroni; e, fermo anzi la porta il gran cavallo, le genti sparse raccogliea nel vallo. E ben due volte il corridor sospinse contra il feroce Argante e lui ripresse, ed altrettante il nudo ferro spinse dove le turbe ostili eran piú spesse; al fin con gli altri insieme ei si ristrinse dentro a i ripari, e la vittoria cesse. Tornano allora i saracini, e stanchi restan nel vallo e sbigottiti i Franchi. Né quivi ancor de l'orride procelle ponno a pieno schivar la forza e l'ira, ma sono estinte or queste faci or quelle, e per tutto entra l'acqua e 'l vento spira. Squarcia le tele e spezza i pali, e svelle le tende intere e lunge indi le gira; la pioggia a i gridi, a i venti, a i tuon s'accorda d'orribile armonia che 'l mondo assorda. |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi @mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998