Giovanni Boccaccio
Elegia di Madonna Fiammetta
Capitolo VI.
Nel quale Madonna Fiammetta, avendo sentito Panfilo non aver moglie presa, ma d'altra donna essere innamorato, e però non tornare, dimostra come ad ultima disperazione, volendosi uccidere, ne venisse.
Quale voi avete potuto comprendere,
pietosissime donne, per le cose davanti dette, è stata nelle battaglie d'amore la vita
mia, e ancora assai peggiore; la quale certo a rispetto della futura forse non
ingiustamente si potrebbe dire dilettevole, bene pensando. Io, ancora paurosa ricordandomi
di quello a che egli ultimamente mi condusse e quasi ancora tiene, per più prendere
indugio di pervenirvi, sì perché del mio furore mi vergogno, e sì perché, scrivendolo,
inin esso mi parrà rientrare, con lenta mano, le cose men gravi, distendendomi molto,
n'ho scritte; ma ora, più non potendo a quelle fuggire, tirandomi l'ordine del mio
ragionare, paurosa vi pur verrò. Ma tu, o santissima pietà, abitante ne' dilicati petti
delle morbide giovini, reggi li tuoi freni in quelli con più forte mano che infino a qui
non hai fatto, acciò che trascorrendo, e di te più parte che 'l convenevole dando, non
forse di quello che io cerco ti convertissi in contrario, e di grembo togliessi alle
leggenti donne le lagrime mie.
Egli era già un'altra volta il sole tornato nella parte
del cielo, che si cosse allora che male li suoi carri guidò il presuntuoso figliuolo, poi
che Panfilo fu da me partito; e io misera per lunga usanza aveva apparato a sostenere li
dolori, e più temperatamente mi doleva che l'usato, né credeva che più si potesse
durare di male, che quello che io durava, quando la fortuna, non contenta de' danni miei,
mi volle mostrare ch'ancora più amari veleni aveva che darmi. Avvenne, adunque, che de'
paesi di Panfilo alle nostre case tornò un nostro carissimo servidore, il quale da tutti,
e massimamente da me, graziosamente fu ricevuto. Questi, narrando i casi suoi e le vedute
cose, mescolando le prospere con l'avverse, per avventura gli venne Panfilo ricordato; del
quale molto lodandosi, ricordando l'onore da lui ricevuto, me nell'ascoltare faceva
contenta, e appena poté la ragione la volontà raffrenare di correre ad abbracciarlo, e
del mio Panfilo dimandare con quell'affezione che io sentiva; ma pure ritenendomi, e
quello essendo dello stato di lui dimandato da molti, e avendo bene essere di lui a tutti
risposto, io sola il dimandai con viso lieto, quello che egli faceva e se suo intendimento
era di tornarci, alla quale egli così rispose:
- Madonna, e a che fare tornerebbe qua Panfilo? Niuna più
bella donna è nella terra sua, la quale oltre ad ogni altra è di bellissime copiosa, che
quella la quale lui ama sopra tutte le cose, per quello che io da alcuno intendessi; ed
egli, secondo che io credo, ama lei; altramente io il reputerei folle, dove per addietro
savissimo l'ho tenuto.
A queste parole mi si mutò il cuore, non altramente che ad
Oenone sopra gli alti monti d'Ida aspettante, veggendo la greca donna col suo amante
venire nella nave troiana; e appena ciò nel viso nascondere potei, avvegna che io pur lo
facessi, e con falso riso dissi:
- Certo tu di' il vero: questo paese a lui male grazioso,
non gli poté concedere per amanza una donna alla sua virtù debita; però se colà l'ha
trovata, saviamente fa, se con lei si dimora. Ma dimmi con che animo sostiene ciò la sua
novella sposa?
Egli allora rispose:
- Niuna sposa è a lui; e quella, la quale non ha lungo
tempo ne fu detto che venne nella sua casa, non a lui, ma al padre è vero che venne.
Mentre che egli queste parole da me ascoltato diceva, io
d'una angoscia uscita ed entrata in un'altra molto maggiore, da ira sùbita stimolata e da
dolore, così il tristo cuore si cominciò a dibattere, come le preste ali di Progne,
qualora vola più forte, battono i bianchi lati; e li paurosi spiriti non altramente mi
cominciarono per ogni parte a tremare, che faccia il mare da sottile vento ristretto nella
sua superficie minutamente, o li pieghevoli giunchi lievemente mossi dall'aura; e
cominciai a sentire le forze fuggirsi via. Per che quindi, come più acconciamente potei,
nella mia camera mi ricolsi.
Partita adunque dalla presenza d'ogni uomo, non prima sola
in quella pervenni, che per gli occhi, non altramente che vena che pregna sgorghi
nell'umide valli, amare lagrime cominciai a versare, e appena le voci ritenni dagli alti
guai, e sopra al misero letto de' nostri amori testimonio, volendo dire «O Panfilo,
perché m'hai tradita?», mi gittai, ovvero piuttosto caddi supina, e nel mezzo della loro
via furono rotte le mie parole, sì sùbito alla lingua e agli altri membri furono le
forze tolte; e quasi morta, anzi morta da alcune creduta, quivi per lunghissimo spazio fui
guardata; né valse a farmi tornare la vita errante ne' suoi luoghi di fisico alcuno
argomento.
Ma poi che la trista anima, la quale piagnendo più volte
li miseri spiriti aveva per partirsi abbracciati, pure si rifermò nell'angoscioso corpo,
le sue forze rivocate di fuori sparse, agli occhi miei ritornò il perduto lume; e alzando
la testa, sopra me vidi più donne, le quali con pietoso servigio piagnendo, con preziosi
liquori m'aveano tutta bagnata; e più altri strumenti vidi atti a cose varie a me vicini;
onde io de' pianti delle donne e delle cose ebbi non piccola maraviglia; e poi che il
potere parlare mi fu conceduto, qual fosse la cagione di quelle cose esser quivi
addimandai; ma alla mia dimanda rispose una di loro, e disse:
- Per ciò qui quelle cose erano venute, per fare in te la
smarrita anima ritornare.
Allora, dopo un lungo sospiro, con fatica dissi:
- Ohimè! con quanta pietà crudelissimo oficio operavate
voi contrario alla mia volontà! Credendomi servire, disservita m'avete; e l'anima,
disposta a lasciare il più misero corpo che viva, sì com'io veggio, meco a forza
ritenuta avete. Ohimè! che egli è assai che niuna cosa da me né da altrui con pari
affezione fu disiata come da me quella che voi m'avete negato; io, già disciolta da
queste tribulazioni, vicina era al mio disio, e voi me n'avete tolta.
Varii conforti dalle donne dati seguirono queste parole; ma
di quelli l'operazioni furono vane. Io m'infinsi riconfortata, e nuove cagioni diedi al
misero accidente, acciò che, partendosi quelle, luogo mi rimanesse a dolermi. Ma poi che
di loro alcuna si fu partita, e all'altre fu dato commiato, essendo io quasi lieta
nell'aspetto tornata, sola con la mia antica balia e con la consapevole serva de' danni
miei quivi rimasi, delle quali ciascuna alla mia vera infermità porgeva confortevoli
unguenti, da doverla guarire, se ella non fosse mortale. Ma io l'animo avendo solamente
alle parole udite, subitamente nemica divenuta d'una di voi, o donne, non so di quale,
gravissime cose cominciai a pensare, e il dolore, che tutto dentro stare non poteva, con
rabbiosa voce in cotal guisa fuori del tristo petto sospinsi:
- O iniquo giovine, o di pietà nemico, o più che altro
pessimo Panfilo il quale ora, me misera avendo dimenticata, con nuova donna dimori,
maladetto sia il giorno che io prima ti vidi, e l'ora, e 'l punto nel quale tu mi
piacesti! Maladetta sia quella dèa che, apparitami, me, fortemente resistente ad amarti,
rivolse con le sue parole dal giusto intendimento! Certo io non credo che essa fosse
Venere, ma piuttosto in forma di lei alcuna infernal furia, me non altramente empiente
d'insania, che facesse il misero Atamante. O crudelissimo giovine, da me tra molti nobili
e belli e valorosi solo eletto pessimamente per lo migliore, ove sono ora li prieghi, li
quali tu più volte a me per iscampo della tua vita piagnendo porgesti, affermando quella
e la tua morte stare nelle mie mani? Ove sono ora li pietosi occhi co' quali a tua posta,
misero, lagrimavi? Ove è ora l'amore a me mostrato? Ove le dolci parole? Ove li gravi
affanni ne' miei servigi profferti? Sono essi del tutto della tua memoria usciti? O haigli
nuovamente adoperati ad irretire la presa donna?
Ahi maladetta sia la mia pietà, la quale quella vita da
morte prosciolse, che di sé facendo lieta altra donna, la mia dovea recare a morte
oscura! Ora gli occhi, che nella mia presenza piagnevano, davanti alla nuova donna ridono,
e il mutato cuore ha ad essa rivolte le dolci parole e le profferte. Ohimè! dove sono
ora, o Panfilo, gli spergiurati iddii? Dove la promessa fede? Dove le infinte lagrime,
delle quali io gran parte miseramente bevvi, pietose credendole, ed esse erano piene del
tuo inganno? Tutte queste cose nel seno della nuova donna rimesse, con teco insieme m'hai
tolte.
Ohimè! quanto mi fu già grave udendo te per giunonica
legge dato ad altra donna! Ma sentendo che li patti da te a me donati non erano da
preporre a quelli, posto che faticosamente il portassi, pur vinta dal giusto dolore, con
meno angoscia il sostenea. Ma ora, sentendo che per quelle medesime leggi, per le quali tu
a me se' stretto, tu ti sii, a me togliendoti, dato ad altra donna, m'è importabile
supplicio a sostenere. Ora le tue dimoranze conosco, e similmente la mia semplicità, con
la quale sempre te dovere tornare ho creduto, se tu avessi potuto. Ohimè! ora
abbisognavanti, o Panfilo, tante arti ad ingannarmi? Perché li giuramenti grandissimi e
la fede interissima così mi porgevi, se d'ingannarmi per cotal modo intendevi? Perché
non ti partivi tu senza commiato cercare, o senza promessa alcuna di ritornare? Io, come
tu sai, fermissimamente t'amava, ma io non t'aveva perciò in prigione, che tu a tua posta
senza le infinte lagrime non ti fossi potuto partire. Se tu così avessi fatto, io mi
sarei senza dubbio di te disperata, subitamente conoscendo il tuo inganno, e ora, o morte
o dimenticanza averebbe finiti li miei tormenti; li quali tu, acciò che fossero più
lunghi, vana speranza donandomi, nutricare li volesti; ma questo non aveva io meritato.
Ohimè! come mi furono già le tue lagrime dolci! Ma ora
conoscendo il loro effetto, mi sono amarissime ritornate. Ohimè! se Amore così
fieramente ti signoreggia, come egli fa me, non t'era egli assai una volta essere stato
preso, se di nuovo la seconda incappare non volevi? Ma che dico io? Tu non amasti giammai,
anzi di schernire le giovini donne ti se' dilettato. Se tu avessi amato, come io credeva,
tu saresti ancora mio. E di cui potresti tu mai essere che più t'amasse di me? Ohimè!
chiunque tu se', o donna, che tolto me l'hai, ancora che nemica mi sii, sentendo il mio
affanno, a forza di te divengo pietosa. Guàrdati da' suoi inganni, però che chi una
volta ha ingannato ha per innanzi perduta l'onesta vergogna, né per innanzi d'ingannare
ha coscienza. Ohimè! iniquissimo giovine, quanti prieghi e quante offerte agl'iddii ho io
porte per la salute di te, che tòrre mi ti dovevi e darti ad altra!
O iddii, li miei prieghi sono essauditi, ma ad utilità
d'altra donna; io ho avuto l'affanno, e altri di quello si prende il diletto. Deh, non
era, o pessimo giovine, la mia forma conforme a' tuoi disii, e la mia nobiltà non era
alla tua convenevole? Certo molto maggiore. Le ricchezze mie furonti mai negate, o da me
tolte le tue? Certo no. Fu mai amato in atto, o in fatto o in sembiante, da me altro
giovine, che tu? E questo ancora che no confesserai, se 'l nuovo amore non t'ha tolto dal
vero. Dunque qual fallo mio, qual giusta cagione a te, quale bellezza maggiore della mia,
o più fervente amore mi t'ha tolto e datoti ad altrui? Certo niuno: e a questo mi sieno
testimonii gl'iddii, che mai verso di te niuna cosa operai, se non che oltre ad ogni
termine di ragione t'ho amato. Se questo merita il tradimento da te verso me operato, tu
il conosci.
O iddii, giusti vendicatori de' nostri difetti, io dimando
vendetta e non ingiusta. Io non voglio né cerco di colui la morte, che già da me fu
scampato e vuole la mia, né altro sconcio dimando di lui, se non che, se egli ama la
nuova donna come io lui, che ella, togliendosi a lui e ad un altro donandosi, come egli a
me s'è tolto, in quella vita il lasci che egli ha me lasciata.
E quinci, torcendomi con movimenti disordinati, su per lo
letto impetuosa mi giro e mi rivolgo.
Quel giorno tutto non fu in altre voci che nelle predette o
in simili consumato; ma la notte, assai piggiore che 'l giorno ad ogni doglia, in quanto
le tenebre sono più alle miserie conformi che la luce, sopravvenuta, avvenne che, essendo
io nel letto a lato al caro marito, tacita per lungo spazio ne' pensieri dolorosi
vegghiando, e nella memoria ritornandomi, senza essere da alcuna cosa impedita, tutti li
tempi passati, così li lieti come li dolenti, e massimamente l'avere Panfilo per nuovo
amore perduto, in tanta abondanza mi crebbe il dolore che, non potendolo ritenere dentro,
piagnendo forte con voci misere lo sfogai, sempre di quello tacendo l'amorosa cagione. E
sì fu alto il pianto mio, che, essendo già per lungo spazio nel profondo sonno stato
involto il mio marito, costretto da quello si risvegliò, e a me, che tutta di lagrime era
bagnata, rivoltosi, nelle braccia recandomisi, con voce benigna e pietosa così mi disse:
- O anima mia dolce, qual cagione a questo pianto così
doloroso nella quieta notte ti muove? Qual cosa, già è più tempo, t'ha sempre
malinconica e dolente tenuta? Niuna cosa, che a te dispiaccia, dee essere a me celata. E`
egli alcuna cosa, la quale il tuo cuore disideri, che per me si possa, che dimandandola
tu, fornita non sia? Non se' tu solo mio conforto e bene? Non sai tu che io sopra tutte le
cose del mondo t'amo? E di ciò non una pruova, ma molte ti possono far vivere certa.
Dunque perché piagni? Perché in dolore t'affliggi? Non ti paio io giovine degno alla tua
nobiltà? O reputimi colpevole in alcuna cosa, la quale io possa ammendare? Dillo,
favella, scuopri il tuo disio: niuna cosa sarà che non s'adempia, solo che si possa. Tu,
tornata nell'aspetto, nell'abito e nelle operazioni angosciosa, mi dài cagione di
dolorosa vita, e se mai dolorosa ti vidi, oggi mi se' più che mai apparuta. Io pensai
già che corporale infermità fosse della tua palidezza cagione; ma io ora manifestamente
conosco che angoscia d'animo t'ha condotta a quello in che io ti veggio; per che io ti
priego che quello che di ciò t'è cagione mi scuopra.
Al quale io con feminile subitezza preso consiglio al
mentire, il quale mai per addietro mia arte non era stata, così rispondo:
- Marito a me più caro che tutto l'altro mondo, niuna cosa
mi manca la quale per te si possa, e te più degno di me senza fallo conosco, ma solo a
questa tristizia per addietro e al presente recata m'ha la morte del mio caro fratello, la
quale tu sai. Essa a questi pianti, ogni volta che a memoria mi torna, mi strigne; e non
certo tanto la morte, alla quale noi tutti conosco che dobbiamo venire, quanto il modo di
quella piango, il quale disavventurato e sozzo conoscesti, e oltre a ciò le male andate
cose dopo lui a maggior doglia mi stringono. Io non posso sì poco chiudere o dare al
sonno gli occhi dolenti, come egli palido e di squallore coperto e sanguinoso, mostrandomi
l'acerbe piaghe m'apparisce davanti. E pure testé, allora che tu piagner mi sentisti, di
prima m'era egli nel sonno apparito con imagine orribile, stanco, pauroso, e con ansio
petto, tale che appena pareva che potesse le parole riavere; ma pur con fatica grandissima
mi disse: "O cara sorella, caccia da me la vergogna, che con turbata fronte mirando
la terra mi fa tra gli altri spiriti andare dolente". Io, ancora che di vederlo
alcuna consolazione sentissi, pure vinta dalla compassione presa dell'abito suo e delle
parole, sùbito riscotendomi, fuggì il sonno; al quale a mano a mano le mie lagrime, le
quali tu ora consoli, solvendo il debito dell'avuta pietà, seguitarono; e, come gl'iddii
conoscono, se a me l'armi si convenissero, già vendicato l'averei, e lui tra gli altri
spiriti renduto con alta fronte, ma più non posso. Adunque, caro marito, non senza
cagione miseramente m'attristo.
Oh quante pietose parole egli allora mi porse, medicando la
piaga, la quale assai davanti era guarita, e li miei pianti s'ingegnò di rattemperare con
quelle vere ragioni, che alle mie bugie si confaceano! Ma poi che egli, me racconsolata
credendosi, si diede al sonno, io, pensando alla pietà di lui, con più crudele doglia
tacitamente piagnendo, ricominciai la tramezzata angoscia, dicendo:
- O crudelissime spelunche abitate dalle rabbiose fiere, o
inferno, o etterna prigione decretata alla nocente turba, o qualunque altro essilio
maggiore più giù si nasconde, prendetemi, e me a' meritati supplicii date nocente. O
sommo Giove, contro a me giustamente adirato, tuona e con tostissima mano in me le tue
saette discendi; o sacra Giunone, le cui santissime leggi io sceleratissima giovine ho
corrotte, véndicati; o caspie rupi, lacerate il tristo corpo; o rapidi uccelli, o feroci
animali, divorate quello; o cavalli crudelissimi dividitori dell'innocente Ipolito, me
nocente giovine squartate; o pietoso marito, volgi nel petto mio con debita ira la spada
tua, e con molto sangue la pessima anima di te ingannatrice ne caccia fuori. Niuna pietà,
niuna misericordia in me sia usata, poiché la fede debita al santo letto posposi
all'amore di strano giovine. O più che altra iniqua femina di questi e d'ogni maggiori
supplicii degna, qual furia ti si parò davanti agli occhi casti, il dì che prima Panfilo
ti piacque? Dove abandonasti tu la pietà debita alle sante leggi del matrimonio? Dove la
castità, sommo onore delle donne, cacciasti allora che per Panfilo il tuo marito
abandonasti? Ove è ora verso te la pietà dell'amato giovine? Ove li conforti da lui dati
a te nella tua miseria si trovano? Egli nel seno d'un'altra giovine lieto trascorre il
fuggevole tempo, né di te si cura; e a ragione e meritamente così ti doveva avvenire, e
a te e a qualunque altra li legittimi amori pospone alli libidinosi. Il tuo marito, più
debito ad offenderti che ad altro, s'ingegna di confortarti, e colui che ti doveria
confortare, non cura d'offenderti.
Ohimè! or non era egli bello come Panfilo? Certo sì. Le
sue virtù, la sua nobiltà e qualunque altra cosa non avanzavano molto quelle di Panfilo?
Or chi ne dubita? Dunque perché lui per altrui abandonasti? Qual cecità, quale
traccutanza, quale peccato, quale iniquità vi ti condusse? Ohimè! che io medesima nol
conosco. Solamente le cose liberamente possedute sogliono essere reputate vili, quantunque
elle sieno molto care; e quelle che con malagevolezza s'hanno, ancora che vilissime sieno,
sono carissime reputate. La troppa copia del mio marito, a me da dovere essere cara,
m'ingannò, e io, forse potente a resistere, quello che io non feci miseramente piango;
anzi senza forse era potente, se io voluto avessi, pensando a quello che gl'iddii e
dormendo e vigilando m'aveano mostrato la notte, e la mattina precedente alla mia ruina.
Ma ora che da amare, per ch'io voglia, non mi posso
partire, conosco qual fosse la serpe che me sotto il sinistro lato trafisse, e piena si
partì del mio sangue; e similmente veggo quello che la corona caduta del tristo capo
volle significare: ma tardi mi giugne questo avvedimento. Gl'iddii forse a purgare alcuna
ira contra me concreata, pentuti de' dimostrati segni, di quelli mi tolsero la conoscenza,
non potendo indietro tornarli, altresì come Apollo all'amata Cassandra, dopo la data
divinità tolse l'essere creduta: laond'io, in miseria costituta non senza ragionevole
colore, consumo la mia vita.
E così dolendomi e voltandomi e rivoltandomi per lo letto,
quasi tutta la notte passai senza potere alcuno sonno pigliare, il quale, se forse pure
entrava nel tristo petto, sì debole in quello dimorava, che ogni piccolo mutamento
l'avrebbe rotto; e come che egli ancora fievole fosse, senza fiere battaglie nelle sue
dimostrazioni alla mia mente non dimorava con meco. E questo non solamente quella notte,
della quale di sopra parlo, m'avvenne, ma prima molte volte, e poi quasi continuamente
m'è avvenuto; per che iguale tempesta, vegghiando e dormendo, sente e ha sentito l'anima
tuttavia.
Non tolsero le notturne querele luogo alle diurne, anzi,
quasi come del dolermi scusata, per le bugie dette al mio marito, quasi da quella notte
innanzi non mi sono ridottata di piagnere e di dolermi in publico molte volte.
Ma pure venuta la mattina la fida nutrice, alla quale niuna
parte de' danni miei era nascosa, però che essa era stata la prima che nel mio viso aveva
gli amorosi stimoli conosciuti e ancora in esso aveva i casi futuri imaginati, veggendomi
quando detto mi fu Panfilo avere altra donna, di me dubitando e istantissima a' miei beni,
come prima il mio marito della camera uscì, così v'entrò; e me veggendo per l'angoscie
della notte preterita quasi semiviva ancora giacere, con parole diverse si cominciò ad
ingegnare di mitigare li furiosi mali, e in braccio recatamisi, con la tremante mano
m'asciugava il tristo viso, movendo ad ora ad ora cotali parole:
- Giovine, oltremodo m'affliggono li tuoi mali, e più
m'affliggerebbero, se davanti non te ne avessi fatta avvedere; ma tu, più volonterosa che
savia, lasciando li miei consigli, seguisti li tuoi piaceri, onde al fine debito a cotali
falli con dolente viso ti veggo venuta. Ma però che sempre, solo che altri voglia, mentre
si vive si può ciascuno da malvagio camino dipartire e al buono ritornare, mi sarebbe
caro che tu omai gli occhi alla tua mente dalle tenebre di questo iniquo tiranno occupati
svelassi, e loro della verità rendessi la luce chiara. Chi egli sia, assai li brievi
diletti e li lunghi affanni che per lui hai sostenuti e sostieni ti possono fare
manifesto. Tu, sì come giovine, più la volontà seguitante che la ragione, amasti, e
amando, quel fine che da amore si può disiare, prendesti; e, come già è detto, brieve
diletto essere il conoscesti, né più avanti che quello che avuto n'hai, mai avere né
disiare se ne puote. E se egli pure avvenisse che 'l tuo Panfilo nelle tue braccia
tornasse, non altramente che l'usato diletto ne sentiresti.
Li ferventi disiderii sogliono essere nelle cose nuove,
nelle quali molte volte sperandosi che quello bene sia nascoso, il quale forse non v'è,
fanno con noia sostenere il fervente disio, ma le conosciute più temperatamente si
sogliono disiderare; ma tu troppo nel disordinato appetito trascorsa e tutta dispostati al
perire, fai il contrario. Sogliono le discrete persone, trovandosi ne' faticosi luoghi e
pieni di dubbii tirarsi indietro, volendo anzi avere la fatica, la quale infino al luogo
hanno spesa dove già pervenuti s'avveggono, perduta, e ritornare sicuri, che, più avanti
andando, mettersi a rischio di guadagnare la morte. Segui adunque tu, mentre che tu puoi,
cotale essemplo, e più ora temperata che tu non suoli, metti la ragione innanzi alla
volontà, e te medesima saviamente cava de' pericoli e dell'angoscie, nelle quali
mattamente ti se' lasciata trascorrere. La fortuna a te benivola, se con sano occhio
riguarderai, non t'ha richiusa la via di dietro, né occupata sì che, bene discernendo
ancora le tue pedate, non possi per quelle tornare là onde tu ti movesti, ed essere
quella Fiammetta che tu ti solevi. La tua fama è intera, né da alcuna cosa da te stata
fatta è nelle menti delle genti commaculata, la quale essendo corrotta, a molte giovini
fu già cagione di cadere nell'infima parte de' mali. Non volere più procedere, acciò
che tu non guasti quello che la fortuna t'ha riservato; confòrtati, e teco medesima pensa
di non avere veduto mai Panfilo, o che 'l tuo marito sia desso. La fantasia s'adatta ad
ogni cosa, e le buone imaginazioni sostengono leggiermente d'essere trattate. Sola questa
via ti può rendere lieta; la qual cosa tu dei sommamente disiderare, se cotanto
l'angoscie t'offendono, quanto gli atti e le tue parole dimostrano.
Queste parole, o simiglianti, non una volta ma molte, senza
rispondervi alcuna cosa, ascoltai io con grave animo, e avvegna che io oltremodo turbata
fossi, nondimeno vere le conosceva; ma la materia, mal disposta ancora, senza alcuna
utilità le riceveva; anzi, ora in una parte e ora in un'altra voltandomi, avvenne alcuna
volta che, da impetuosa ira commossa, non guardandomi dalla presenza della mia balia, con
voce oltre alla donnesca gravezza rabbiosa, e con pianto oltre ad ogni altro grandissimo
così dissi:
- O Tesifone, infernale furia, o Megera, o Aletto,
stimolatrici delle dolenti anime, dirizzate li feroci crini, e le paurose idre con ira
accendete a nuovi spaventamenti, e veloci nell'iniqua camera entrate della malvagia donna,
e ne' suoi congiugnimenti con l'involato amante accendete le misere facelline, e quelle
intorno al dilicato letto portate in segno di funesto agurio a' pessimi amanti! O
qualunque altro popolo delle nere case di Dite, o iddii degl'immortali regni di Stige,
siate presenti qui, e co' vostri tristi ramarichii porgete paura ad essi infedeli. O
misero gufo, canta sopra l'infelice tetto! E voi, o Arpie, date segno di futuro danno! O
ombre infernali, o etterno Caos, o tenebre d'ogni luce nemiche, occupate l'adultere case,
sì che gl'iniqui occhi non godano d'alcuna luce; e li vostri odii, o vendicatrici delle
scelerate cose, entrino negli animi acconci a' mutamenti, e impetuosa guerra generate fra
loro!
Appresso questo, gittato un ardente sospiro, aggiunsi alle
rotte parole:
- O iniquissima donna, qualunque tu se', da me non
conosciuta, tu ora l'amante, il quale io lungamente ho aspettato, possiedi, e io misera
languisco a lui lontana. Tu delle mie fatiche possiedi il guiderdone, e io vacua senza
frutto dimoro de' seminati prieghi. Io ho porte l'orazioni e gl'incensi agl'iddii per la
prosperità di colui il quale furtivamente tu mi dovevi sottrarre, e quelle furono udite
per utile di te. Or ecco, io non so con quale arte né come tu me gli abbi tratta del
cuore e messavi te, ma pure so che così è; ma così ne possi tu tosto rimanere contenta,
come tu n'hai me lasciata. E se forse a lui la terza volta innamorarsi è malagevole,
gl'iddii non altramente dividano il vostro amore che quel della greca donna e del giudice
d'Ida divisero, o quel del giovine abideo dalla sua dolente Ero, o de' miseri figliuoli
d'Eolo, volgendosi contro di te l'aspro giudicio, ed egli rimanendo salvo. O pessima
femina, tu dovevi bene, la sua faccia mirando, pensare che egli senza donna non era;
dunque, se ciò pensasti, che so che 'l pensasti, con quale animo procedesti a tòrre quel
che d'altrui era? Certo con nemico animo, avviso; e io sempre come nemica e occupatrice
de' miei beni ti seguirò e sempre, mentre ci viverò, mi nutricherò della speranza della
tua morte; la quale io non comune priego che sia come l'altre, ma, posta in luogo di
pesante piombo o di pietra nella concava fionda, tu sia intra li nemici gittata, né al
tuo lacerato corpo sia dato o fuoco o sepultura, ma, diviso e sbranato, sazii gli
agognanti cani, li quali io priego che, poi che consumate avranno le molli polpe, delle
tue ossa commettano asprissime zuffe, acciò che, rapinosamente rodendole, te di rapina
dilettata in vita dimostrino. Niuno giorno, niuna notte, niuna ora sarà la mia bocca
senza esser piena delle tue maladizioni, né a questo mai si porrà fine: prima si
tufferà la celestiale Orsa in Oceano, e la rapace onda della ciciliana Cariddi starà
ferma, e taceranno li cani di Silla, e nell'Ionio mare surgeranno le mature biade, e
l'oscura notte darà nelle tenebre luce, e l'acqua con le fiamme, e la morte con la vita,
e il mare co' venti saranno concordi con somma fede; anzi, mentre che Gange durerà
tiepido e l'Istro freddo, e li monti porteranno le querce, e li campi li morbidi paschi,
con teco avrò battaglie. Né finirà la morte questa ira, anzi tra li morti spiriti
seguitandoti, con quelle ingiurie che di là s'adoperano m'ingegnerò di noiarti. E se tu
forse a me sopravvivi, quale che si sia della mia morte il modo, dovunque il misero
spirito se n'andrà, di quindi a forza m'ingegnerò di scioglierlo, e in te entrando,
furiosa ti farò divenire non altramente che sieno le vergini dopo il ricevuto Apollo; o
vegnendo nel tuo cospetto, vegghiando, orribile mi vedrai, e ne' sonni spaventevole
sovente ti desterò nelle tacite notti; e, brievemente, ciò che tu farai, continuamente
volerò dinanzi agli occhi tuoi, e lamentandomi di questa ingiuria, te in niuna parte
lascerò quieta; e così, mentre viverai, da cotal furia, me operante, sarai stimolata, e,
morta, poi di piggiori cose ti sarò cagione.
Ohimè misera! In che si stendono le mie parole? Io ti
minaccio, e tu mi nuoci, e il mio amante tenendoti, quello delle minacciate offese ti curi
che gli altissimi re de' meno possenti uomini. Ohimè! ora fosse a me lo 'ngegno di
Dedalo, o li carri di Medea, acciò che per quello aggiugnendo ali alle mie spalle, o per
l'aere portata, subitamente dove tu gli amorosi furti nascondi mi ritrovassi! Oh quante e
quali parole al falso giovine e a te, rubatrice degli altrui beni, direi con viso turbato
e minaccevole! Oh con quanta villania i vostri falli riprenderei! E poi che te e lui delle
commesse colpe vergognosi avessi renduti, senza alcuno freno o indugio procederei alla
vendetta, e li tuoi capelli con le proprie mani pigliandoli e laniandoli forte, te ora qua
e ora là tirando per quelli, davanti al perfido amante sazierei le mie ire, e con essi
tutti li vestimenti ti straccerei. Né questo mi basterebbe, anzi, con tagliente unghia il
viso piaciuto agli occhi falsi arerei in molte parti, lasciando etterni segnali in quello
delle mie vendette; e il misero corpo tutto con li bramosi denti lacererei, il quale poi
lasciando a colui che ora ti lusinga a medicare, lieta ricercherei le triste case.
Mentre che io queste parole dico, con gli occhi sfavillanti
e co' denti serrati, e con le pugna strette, quasi a' fatti fossi, dimoro, e pare che
parte della disiata vendetta mi rechino; ma la vecchia balia quasi piagnendo mi dice:
- O figliuola, posci che tu conosci la fiera tirannia dello
iddio che ti molesta, tempera te medesima, e li tuoi pianti raffrena; e se la debita
pietà di te stessa a ciò non ti muove, muovati il tuo onore, al quale nuova vergogna
d'antica colpa potrebbe nascere di leggieri; o almeno taci, non forse il tuo marito senta
le triste cose, e per doppia cagione meritevolmente si dolga del fatto tuo.
Allora al ricordato sposo pensando, da nuova pietà mossa,
più forte piango, e nell'anima volgendo la rotta fede e le male servate leggi, così dico
alla mia balia:
- O fidissima compagna delle nostre fatiche, di poco si
può dolere il mio marito. Colui che fu del nostro peccato cagione, di quello è stato
agrissimo purgatore; io ho ricevuto e ricevo secondo i meriti il guiderdone. Niuna pena mi
poteva il marito dare maggiore, che quella che m'ha porta l'amante: sola la morte, se la
morte è penosa come si dice, mi puote il marito per pena accrescere. Venga adunque, e
déalami: ella non mi fia pena, anzi diletto, però che io la disidero, e più dalla sua
mano che dalla mia mi fia graziosa. Se egli non la mi dà, o ella da sé non viene, il mio
ingegno da sé la troverà, però che io per quella spero ogni mia doglia finire. Lo
'nferno, de' miseri suppremo supplicio, in qualunque luogo ha in sé più cocente, non ha
pena alla mia simigliante. Tizio ci è porto per gravissimo essemplo di pena dagli antichi
autori, dicenti a lui sempre essere pizzicato dagli avoltoi il ricrescente fegato, e certo
io non la stimo piccola, ma non è alla mia simigliante; ché se a colui avoltoi pizzicano
il fegato, a me continuo squarciano il cuore cento milia sollecitudini più forti che
alcuno rostro d'uccello. Tantalo similmente dicono tra l'acque e li frutti morirsi di fame
e di sete; certo e io, posta nel mezzo di tutte le mondane delizie, con affettuoso
appetito il mio amante disiderando, né potendolo avere, tal pena sostengo quale egli,
anzi maggiore, però che egli con alcuna speranza delle vicine onde e de' propinqui pomi
pure si crede alcuna volta potere saziare, ma io ora del tutto disperata di ciò che a mia
consolazione sperava, e più amando che mai colui che nell'altrui forza con suo volere è
ritenuto, tutta di sé m'ha fatta di speranza rimanere di fuori. E ancora il misero
Issione nella fiera ruota voltato non sente doglia sì fatta, che alla mia si possa
agguagliare: io, in continuo movimento da furiosa rabbia per gli avversarii fati rivolta,
patisco più pena di lui assai. E se le figliuole di Danao ne' forati vasi con vana fatica
continuo versano acque credendoli empiere, e io con gli occhi, tirate dal tristo cuore,
sempre lagrime verso.
continuazione 1 del capitolo 6
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 06 febbraio 1998