Giovanni Boccaccio
Elegia di Madonna Fiammetta
Capitolo I.
Nel quale la donna discrive chi essa fosse, e per quali segnali li suoi futuri mali le fossero premostrati, e in che tempo, e dove, e in che modo, e di cui ella si innamorasse, col seguito diletto.
Nel tempo nel quale la rinvestita terra
più che tutto l'altro anno si mostra bella, da parenti nobili procreata venni io nel
mondo, da benigna fortuna e abondevole ricevuta. Oh maladetto quello giorno, a me più
abominevole che alcuno altro, nel quale io nacqui! Oh quanto più felice sarebbe stato se
nata non fossi, o se dal tristo parto alla sepultura fossi stata portata, né più lunga
età avessi avuta, che i denti seminati da Cadmo, e ad una ora rotte e cominciate avesse
Lachesis le sue fila! Nella piccola età si sarebbero rinchiusi gl'infiniti guai, che ora
di scrivere trista cagione mi sono. Ma che giova ora di ciò dolersi? Io ci pur sono, e
così è piaciuto e piace a Dio che io ci sia. Ricevuta adunque, sì come è detto, in
altissime delizie, e in esse nutrita, e dall'infanzia nella vaga puerizia tratta, sotto
reverenda maestra, qualunque costume a nobile giovine si conviene apparai. E come la mia
persona negli anni trapassanti crescea, così le mie bellezze, de' miei mali speciale
cagione, multiplicavano. Ohimè, che io, ancora che piccola fossi, udendole a molti
lodare, me ne gloriava, e loro con sollecitudini e arti faceva maggiori.
Ma già dalla fanciullezza venuta ad età più compiuta,
meco dalla natura ammaestrata sentendo quali disii a' giovini possono porgere le vaghe
donne, conobbi che la mia bellezza, miserabile dono a chi virtuosamente di vivere
disidera, più miei coetanei giovinetti e altri nobili accese di fuoco amoroso. E me con
atti diversi, male allora da me conosciuti, volte infinite tentarono di quello accendere
di che essi ardevano, e che me dovea più che altra non riscaldare, anzi ardere nel
futuro; e da molti ancora con istantissima sollecitudine in matrimonio fui addomandata; ma
poi che de' molti uno, a me per ogni cosa dicevole, m'ebbe, quasi fuori di speranza cessò
la infestante turba degli amanti da sollecitarmi con gli atti suoi. Io, adunque,
debitamente contenta di tale marito, felicissima dimorai infino a tanto che il furioso
amore, con fuoco non mai sentito, non entrò nella giovine mente. Ohimè! che niuna cosa
fu mai che il mio disio o d'alcuna altra donna dovesse chetare, che prestamente a mia
satisfazione non venisse. Io era unico bene e felicità singulare del giovine sposo, e
così egli da me era igualmente amato, come egli mi amava. Oh quanto più che altra mi
potrei io dire felice, se sempre in me fosse durato cotale amore!
Vivendo adunque contenta, e in festa continua dimorando, la
fortuna, sùbita volvitrice delle cose mondane, invidiosa de' beni medesimi che essa avea
prestati, volendo ritrarre la mano, né sappiendo da qual parte mettere li suoi veleni,
con sottile argomento a' miei occhi medesimi fece all'avversità trovare via; e certo
niuna altra che quella onde entrò v'era al presente. Ma gl'iddii, a me favorevoli ancora,
e a' miei fatti di me più solleciti, sentendo le occulte insidie di costei, vollero, se
io prendere l'avessi sapute, armi porgere al petto mio, acciò che disarmata non venissi
alla battaglia nella quale io dovea cadere; e con aperta visione ne' miei sonni, la notte
precedente al giorno il quale a' miei danni dovea dare principio, mi chiarirono le future
cose in cotale guisa.
A me, nello ampissimo letto dimorante con tutti li membri
risoluti nell'alto sonno, pareva, in un giorno bellissimo e più chiaro che alcuno altro,
essere, non so di che, più lieta che mai; e con questa letizia, a me, sola fra verdi
erbette, era avviso sedere in un prato dal cielo difeso e da' suoi lumi da diverse ombre
d'alberi vestiti di nuove frondi; e in quello diversi fiori avendo còlti, de' quali tutto
il luogo era dipinto, con le candide mani, in uno lembo de' miei vestimenti raccoltili,
fiore da fiore sceglieva, e degli scelti leggiadra ghirlandetta faccendo, ne ornava la
testa mia. E così ornata levatami, quale Proserpina allora che Pluto la rapì alla madre,
cotale m'andava per la nuova primavera cantando; poi, forse stanca, tra la più folta erba
a giacere postami, mi posava. Ma non altramente il tenero piè d'Euridice trafisse il
nascoso animale, che me sopra l'erbe distesa, una nascosa serpe vegnente tra quelle, parve
che sotto la sinistra mammella mi trafiggesse; il cui morso, nella prima entrata degli
acuti denti, parea che mi cocesse; ma poi, assicurata, quasi di peggio temendo, mi pareva
mettere nel mio seno la fredda serpe, imaginando lei dovere, col beneficio del caldo del
proprio petto, rendere a me più benigna. La quale, più sicura fatta per quello e più
fiera, al dato morso raggiunse la iniqua bocca, e dopo lungo spazio, avendo molto del
nostro sangue bevuto, mi pareva che, me renitente, uscendo del mio seno, vaga vaga fra le
prime erbe col mio spirito si partisse. Nel cui partire il chiaro giorno turbato, dietro a
me vegnendo, mi copria tutta, e secondo l'andare di quella così la turbazione seguitava,
quasi come a lei tirante fosse la moltitudine de' nuvoli appiccata, e seguissela; e non
dopo molto, come bianca pietra gittata in profonda acqua a poco a poco si toglie alla
vista de' riguardanti, così si tolse agli occhi miei. Allora il cielo di somme tenebre
chiuso vidi, e quasi partitosi il sole, e la notte tornata pensai, quale a' Greci tornò
nel peccato d'Atreo; e le corruscazioni correano per quello senza alcuno ordine, e i
crepitanti tuoni spaventavano le terre e me similemente. Ma la piaga, la quale infino a
quella ora per la sola morsura m'avea stimolata, piena rimasa di veleno vipereo, non
valendovi medicina, quasi tutto il corpo con enfiatura sozzissima parea che occupasse;
laonde io, prima senza spirito non so come parendomi essere rimasa, e ora sentendo la
forza del veleno il cuore cercare per vie molto sottili, per le fresche erbe aspettando la
morte mi voltolava. E già l'ora di quella venuta parendomi, offesa ancora dalla paura del
tempo avverso, sì fu grave la doglia del cuore quella aspettante, che tutto il corpo
dormente riscosse, e ruppe il forte sonno; dopo il quale rotto, sùbito, paurosa ancora
delle cose vedute, con la destra mano corsi al morso lato, quello nel presente cercando
che nel futuro m'era apparecchiato; e senza alcuna piaga trovandolo, quasi rallegrata e
sicura, le sciocchezze de' sogni cominciai a deridere, e così vana feci degl'iddii la
fatica. Ahi, misera me! Quanto giustamente, se io li schernii allora, poi con mia grave
doglia gli ho veri creduti, e piantili senza frutto, non meno degl'iddii dolendomi, li
quali con tanta oscurità alle grosse menti dimostrano i loro secreti, che quasi non
mostrati se non avvenuti si possono dire! Io, adunque, escitata, alzai il sonnacchioso
capo, e per piccolo buco vidi entrare nella mia camera il nuovo sole; per che, ogni altro
pensiero gittato via, sùbito mi levai.
Quello giorno era solennissimo quasi a tutto il mondo; per
che, io con sollecitudine li drappi di molto oro rilucenti vestitami e con maestra mano di
me ornata ciascuna parte, simile alle dèe vedute da Parìs nella valle d'Ida tenendomi,
per andare alla somma festa m'apparecchiai. E mentre che io tutta mi mirava, non
altramente che il pavone le sue penne, imaginando di così piacere ad altrui come io a me
piacea, non so come, uno fiore della mia corona preso dalla cortina del letto mio o forse
da celestiale mano da me non veduta, quella, di capo trattami, cadde in terra; ma io, non
curante alle occulte cose dagl'iddii dimostrate, quasi come non fosse, ripresala, sopra il
capo la mi riposi, e oltre andai. Ohimè! che segnale più manifesto di quello che avvenne
mi poteano dare gl'iddii? Certo niuno. Questo bastava a dimostrarmi che quello giorno la
mia libera anima, e di sé donna, disposta la sua signoria, serva dovea divenire, come
avvenne. Oh, se la mia mente fosse stata sana, quanto quel giorno a me nerissimo avrei
conosciuto, e senza uscire di casa l'avrei trapassato! Ma gl'iddii, a coloro verso i quali
essi sono adirati, benché della loro salute porgano ad essi segno, elli privano lui del
conoscimento debito; e così ad una ora mostrano di fare il loro dovere e saziano l'ira
loro. La fortuna mia adunque me vana e non curante sospinse fuori; e accompagnata da
molte, con lento passo pervenni al sacro tempio, nel quale già il solenne oficio debito a
quel giorno si celebrava.
La vecchia usanza e la mia nobiltà m'avea tra l'altre
donne assai eccellente luogo servato; nel quale poi che assisa fui, servato il mio
costume, gli occhi subitamente in giro vòlti, vidi il tempio d'uomini e di donne
parimente ripieno, e in varie caterve diversamente operare. Né prima, celebrandosi il
sacro oficio, nel tempio sentita fui, che, sì come l'altre volte soleva avvenire, così e
quella avvenne, che non solamente gli uomini gli occhi torsero a riguardarmi, ma eziandio
le donne, non altramente che se Venere o Minerva, mai più da loro non vedute, fossero in
quello luogo, là dove io era, nuovamente discese. Oh, quante fiate, tra me stessa ne
risi, essendone meco contenta, e non meno che una dèa gloriandomi di tale cosa! Lasciate
adunque quasi tutte le schiere de' giovini di mirare l'altre, a me mi posero d'intorno, e
diritti quasi in forma di corona mi circuivano, e variamente fra loro della mia bellezza
parlando, quasi in una sentenza medesima concludendo la laudavano. Ma io che, con gli
occhi in altra parte voltati, mostrava me d'altra cura sospesa, tenendo gli orecchi a'
ragionamenti di quelli sentiva disiderata dolcezza, e quasi loro parendomene essere
obligata, tale fiata con più benigno occhio li rimirava; e non una volta m'accorsi, ma
molte, che di ciò alcuni, vana speranza pigliando, co' compagni vanamente se ne
gloriavano.
Mentre che io in cotal guisa, poco altrui rimirando, e
molto da molti rimirata, dimoro, credendo che la mia bellezza altrui pigliasse, avvenne
che l'altrui me miseramente prese. E già essendo vicina al doloroso punto, il quale o di
certissima morte o di vita più che altra angosciosa dovea essere cagione, non so da che
spirito mossa, gli occhi con debita gravità elevati, intra la multitudine de' circustanti
giovini con acuto riguardamento distesi; e oltre a tutti, solo e appoggiato ad una colonna
marmorea, a me dirittissimamente uno giovine opposto vidi; e, quello che ancora fatto non
avea d'alcuno altro, da incessabile fato mossa, meco lui e li suoi modi cominciai ad
estimare. Dico che, secondo il mio giudicio, il quale ancora non era da amore occupato,
egli era di forma bellissimo, negli atti piacevolissimo e onestissimo nell'abito suo, e
della sua giovinezza dava manifesto segnale crespa lanugine, che pur mo' occupava le
guance sue; e me non meno pietoso che cauto rimirava tra uomo e uomo. Certo io ebbi forza
di ritrarre gli occhi da riguardarlo alquanto, ma il pensiero, dell'altre cose già dette
estimante, niuno altro accidente, né io medesima sforzandomi, mi poté tòrre. E già
nella mia mente essendo l'effigie della sua figura rimasa, non so con che tacito diletto
meco la riguardava, e quasi con più argomenti affermate vere le cose che di lui mi
pareano, contenta d'essere da lui riguardata, talvolta cautamente se esso mi riguardasse
mirava.
Ma intra l'altre volte che io, non guardandomi dagli
amorosi lacciuoli, il mirai, tenendo alquanto più fermi che l'usato ne' suoi gli occhi
miei, a me parve in essi parole conoscere dicenti: «O donna, tu sola se' la beatitudine
nostra». Certo, se io dicessi che esse non mi fossero piaciute, io mentirei; anzi sì mi
piacquero, che esse del petto mio trassero un soave sospiro, il quale veniva con queste
parole: «E voi la mia». Se non che io, di me ricordandomi, gli le tolsi. Ma che valse?
Quello che non si esprimea, il cuore lo 'ntendeva con seco, in sé ritenendo ciò che, se
di fuori fosse andato, forse libera ancora sarei. Adunque, da questa ora innanzi
concedendo maggiore arbitrio agli occhi miei folli, di quello che essi erano già vaghi
divenuti li contentava; e certo, se gl'iddii, li quali tirano a conosciuto fine tutte le
cose, non m'avessero il conoscimento levato, io poteva ancora essere mia, ma ogni
considerazione all'ultimo posposta, seguitai l'appetito, e subitamente atta divenni a
potere essere presa; per che, non altramente il fuoco se stesso d'una parte in un'altra
balestra, che una luce, per un raggio sottilissimo trascorrendo, da' suoi partendosi,
percosse negli occhi miei, né in quelli contenta rimase, anzi, non so per quali occulte
vie, subitamente al cuore penetrando, se ne gìo. Il quale, nel sùbito avvenimento di
quella temendo, rivocate a sé le forze esteriori, me palida e quasi freddissima tutta
lasciò. Ma non fu lunga la dimoranza, che il contrario sopravvenne, e lui non solamente
fatto fervente sentii, anzi le forze tornate ne' luoghi loro, seco uno calore arrecarono,
il quale, cacciata la palidezza, me rossissima e calda rendé come fuoco, e quello mirando
onde ciò procedeva, sospirai. Né da quell'ora innanzi niuno pensiero in me poteo, se non
di piacergli.
A così fatti sembianti, esso, senza mutare luogo,
cautissimo riguardava, e forse, sì come esperto in più battaglie amorose, conoscendo con
quali armi si dovea la disiata preda pigliare, ciascuna ora con umiltà maggiore
pietosissimo si mostrava e pieno d'amoroso disio. Ohimè! quanto inganno sotto sé quella
pietà nascondea, la quale, secondo che gli effetti ora dimostrano, partitasi dal cuore,
ove mai poi non ritornò, fittizia si mostrò nel suo viso. E acciò che io non vada ogni
suo atto narrando, de' quali ciascuno era pieno di maestrevole inganno, o egli che
l'operasse, o i fati che 'l concedessero, in sì fatta maniera andò, che io, oltre ad
ogni potere raccontare, da sùbito e inoppinato amore mi trovai presa, e ancora sono.
Questi adunque, o pietosissime donne, fu colui il quale il
mio cuore con folle estimazione fra tanti nobili, belli e valorosi giovini, quanti non
solamente quivi presenti, ma eziandio in tutta la mia Partenope erano, primo, ultimo e
solo, elesse per signore della mia vita; questi fu colui, il quale io amai e amo più che
alcuno altro; questi fu colui, il quale essere dovea principio e cagione d'ogni mio male,
e, come io spero, di dannosa morte. Questo fu quel giorno nel quale io prima, di libera
donna, divenni miserissima serva; questo fu quel giorno nel quale io prima amore, non mai
prima da me conosciuto, conobbi; questo fu quel giorno nel quale primieramente li venerei
veleni contaminarono il puro e casto petto. Ohimè misera! quanto male per me nel mondo
venne sì fatto giorno! Ohimè! quanto di noia e d'angoscia sarebbe da me lontana, se in
tenebre si fosse mutato sì fatto giorno! Ohimè misera! quanto fu al mio onore nemico sì
fatto giorno! Ma che? Le preterite cose mal fatte, si possono molto più agevolmente
biasimare che emendare. Io fui pur presa, sì come è detto; e qualunque si fosse quella o
infernal furia, o inimica fortuna che alla mia casta felicità invidia portasse, ad essa
insidiando, questo dì con speranza d'infallibile vittoria si poté rallegrare.
Soppresa adunque dalla passione nuova, quasi attonita e di
me fuori, sedeva infra le donne, e li sacri oficii, appena da me uditi non che intesi,
passare lasciava, e similemente delle mie compagne li ragionamenti diversi. E sì tutta la
mente avea il nuovo e sùbito amore occupata, che, o con gli occhi o col pensiero sempre
l'amato giovine riguardava, e quasi con meco medesima non sapeva qual fine di sì fervente
disio io mi chiedessi. Oh quante volte, disiderosa di vederlomi più vicino, biasimai io
il suo dimorare agli altri di dietro, quello tiepidezza estimando, che egli usava a
cautela! E già mi noiavano i giovini a lui stanti dinanzi, de' quali mentre io fra loro
alcuna volta il mio intendimento mirava, alcuni, credendosi che in loro il mio riguardare
terminasse, si credettero forse da me essere amati. Ma, mentre che in cotali termini
stavano li miei pensieri, si finì l'oficio solenne, e già per partirsi erano le mie
compagne levate, quando io, rivocata l'anima, che d'intorno alla imagine del piaciuto
giovine andava vagando, il conobbi. Levata adunque con l'altre, e a lui gli occhi rivolti,
quasi negli atti suoi vidi quello che io ne' miei a lui m'apparecchiava di dimostrare, e
mostrai, cioè che il partire mi doleva. Ma pure, dopo alcuno sospiro, ignorando chi elli
si fosse, mi dipartii.
Deh, pietose donne, chi crederà possibile in un punto uno
cuore così alterarsi? Chi dirà che persona mai più non veduta sommamente si possa amare
nella prima vista? Chi penserà accendersi sì di vederla il disio, che, dalla vista di
quella partendosi, senta gravissima noia, solo disiderando di vederla? Chi imaginerà
tutte l'altre cose, per addietro molto piaciute, a rispetto della nuova spiacere? Certo
niuna persona, se non chi provato l'avrà o pruova come fo io. Ohimè! che Amore così
come ora in me usa crudeltà non udita, così nel pigliarmi nuova legge dagli altri
diversa gli piacque d'usare! Io ho più volte udito che negli altri i piaceri sono nel
principio levissimi, ma poi, da' pensieri nutricati, aumentando le forze loro, si fanno
gravi; ma in me così non avvenne, anzi con quella medesima forza m'entrarono nel cuore,
che essi vi sono poi dimorati, e dimorano. Amore il primo dì di me ebbe interissima
possessione; e certo sì come il verde legno malagevolissimamente riceve il fuoco, ma
quello ricevuto più conserva e con maggior caldo, così a me avvenne. Io, avanti non
vinta da alcuno piacere giammai, tentata da molti, ultimamente vinta da uno, e arsi e
ardo, e servai e servo più che altra facesse giammai il preso fuoco.
Lasciando molti pensieri che nella mente quella mattina,
con accidenti diversi, mi furono, oltre alli raccontati, dico che di nuovo furore accesa,
e con l'anima fatta serva, là onde libera l'avea tratta, mi ritornai. Quivi, poi che
nella mia camera sola e oziosa mi ritrovai, da diversi disii accesa e piena di nuovi
pensieri e da molte sollecitudini stimolata, ogni fine di quelli nella imaginata effigie
del piaciuto giovine terminando, pensai che, se amore da me cacciare non poteasi, almeno
cauto si reggesse e occulto nel tristo petto; la qual cosa quanto sia dura a fare nullo il
può sapere, se nol pruova: certo io non credo che ella faccia meno noia che amore stesso.
E in tale proponimento fermata, non sappiendo ancora di cui, me con meco medesima chiamava
innamorata.
Quanti e quali fossero in me da questo amore li pensieri
nati, lungo sarebbe a tutti volerli narrare; ma alquanti, quasi sforzandomi, mi tirano a
dichiararsi, con alcune cose oltre all'usato incominciatemi a dilettare. Dico adunque che,
avendo ogni altra cosa proposta, solo il pensare all'amato giovine m'era caro, e parendomi
che, in questo perseverando, forse quello che io intendeva celare si potrebbe presumere,
me più volte di ciò ripresi; ma che giovava? Le mie riprensioni davano luogo larghissimo
alli miei disii, e inutili si fuggivano co' venti. Io disiderai più giorni sommamente di
sapere chi fosse l'amato giovine; a che nuovi pensieri mi dierono aperta via, e cautamente
il seppi, di che non poco contenta rimasi. Similmente gli ornamenti, de' quali io prima,
sì come poco bisognosa di quelli, niente curava, mi cominciarono ad essere cari, pensando
più ornata piacere; e quindi li vestimenti, l'oro e le perle e l'altre preziose cose più
che prima pregiai. Io infino a quella ora alli templi, alle feste, alli marini liti e alli
giardini andata senza altra vaghezza che solamente con le giovini ritrovarmi, cominciai
con nuovo disio li detti luoghi a cercare, pensando che e vedere e veduta potrei essere
con diletto. Ma veramente mi fuggì la fidanza, la quale io nella mia bellezza soleva
avere, e mai fuori di sé la mia camera non m'avea senza prima pigliare del mio specchio
il fidato consiglio, e le mie mani, non so da che maestra nuovamente ammaestrate, ciascuno
giorno più leggiadra ornatura trovando, aggiunta l'artificiale alla naturale bellezza,
tra l'altre splendidissima mi rendeano.
Gli onori similmente a me fatti per propria cortesia dalle
donne, ancora che forse alla mia nobiltà s'affacessero, quasi debiti cominciai a volerli,
pensando che, al mio amante parendo magnifica, più giustamente mi gradirebbe; l'avarizia,
nelle femine innata, da me fuggendosi, cotale mi lasciò, che così le mie cose come non
mie m'erano care, e liberale diventai; l'audacia crebbe, e alquanto mancò la feminile
tiepidezza, me follemente alcuna cosa più cara reputando che prima; e oltre a tutto
questo, gli occhi miei, infino a quel dì stati semplici nel guardare, mutarono modo e
mirabilmente artificiosi divennero al loro oficio. Oltre a queste, ancora molte altre
mutazioni in me apparirono, le quali tutte non curo di raccontare, sì perché troppo
sarebbe lungo, e sì perché credo che voi, sì come me innamorate, conosciate quante e
quali sieno quelle che a ciascuna avvengono, posta in cotal caso.
Era il giovine avvedutissimo, sì come più volte
esperienza rendé testimonio. Egli rade volte e onestissimamente vegnendo colà dove io
era, quasi quel medesimo avesse proposto che io, cioè di celare in tutto l'amorose
fiamme, con occhio cautissimo mi mirava. Certo, s'io negassi che, quando ciò mi avveniva
che io il vedessi, amore, quantunque fosse in me sì possente che più non potea, alcuna
cosa, quasi l'anima ampliando per forza crescesse, io negherei il vero. Egli allora in me
le fiamme accese facea più vive, e non so quali spente, se alcuna ve n'era, accendeva; ma
in questo non era sì lieto il principio, che la fine non rimanesse più trista, qualora
della vista di quello rimanea privata: perciò che gli occhi, della loro allegrezza
privati, davano al cuore noiosa cagione di dolersi, di che i sospiri, e in quantità e in
qualità diventavano maggiori, e il disio, quasi ogni mio sentimento occupando, mi
toglieva di me medesima, e quasi non fossi dov'era, feci più volte maravigliare chi mi
vide, dando poi a cotali accidenti cagioni infinte, da amore medesimo insegnate. E oltre a
questo, sovente la notturna quiete e il cotidiano cibo togliendomi, alcuna volta ad atti
più furiosi che sùbiti, e a parole mi moveano inusitate.
Ecco che li cresciuti ornamenti, gli accesi sospiri, li
nuovi atti, li furiosi movimenti, la perduta quiete, e l'altre cose in me per lo nuovo
amore venute, tra gli altri domestici familiari a maravigliarsi mossero una mia balia,
d'anni antica e di senno non giovine, la quale, già seco conoscendo le triste fiamme,
mostrando di non conoscerle, più fiate mi riprese de' nuovi modi. Ma pure un giorno me
trovando sopra il mio letto malinconiosa giacere, vedendo di pensieri carica la mia
fronte, poi che d'ogni altra compagnia ci vide libere, così mi cominciò a parlare:
«O figliuola a me come me medesima cara, quali
sollecitudini da poco tempo in qua ti stimolano? Tu niuna ora trapassi senza sospiri, la
quale altra volta lieta e senza niuna malinconia sempre vedere solea».
Allora io, dopo un gran sospiro, d'uno in altro colore più
d'una volta mutatami, quasi di dormire infignendomi, e di non averla udita, ora qua ora
là rivolgendomi, per tempo prendere alla risposta, appena potendo la lingua a perfetta
parola conducere, pur le risposi:
«Cara nutrice, niuna cosa nuova mi stimola, né più
sollecitudini sento che io mi sia usata; solamente li naturali corsi, non tenenti sempre
d'una maniera li viventi, ora più che l'usato mi fanno pensosa».
«Certo, figliuola, tu m'inganni, - rispose la vecchia
balia - né pensi quanto sia grave il fare alle persone attempate credere in parole una
cosa, e un'altra negli atti mostrarne; egli non t'è bisogno celarmi quello che io, già
sono più giorni, in te manifestamente conobbi».
Ohimè! che quando io udii così, quasi dolendomi e
sperando e crucciandomi, le dissi:
«Dunque, se tu il sai, di che addimandi? A te più non
bisogna se non celare quello che conosci».
«Veramente - disse ella allora - celerò io quello che non
è licito che altri sappia; e avanti s'apra la terra e me tranghiotta, che io mai cosa che
a te torni a vergogna, palesi: gran tempo è che io a tenere celate le cose apparai. E
perciò di questo vivi sicura, e con diligenza guarda non altri conosca quello che io,
senza dirlomi tu o altri, ne' tuoi sembianti ho conosciuto. Ma, se quella sciocchezza,
nella quale io ti conosco caduta, ti si conviene, se in quel senno fossi nel quale già
fosti, a te sola il lascerei a pensare, sicurissima che in ciò luogo il mio ammaestrare
non avrebbe. Ma perciò che questo crudele tiranno, al quale, sì come giovine, non avendo
tu presa guardia di lui, semplicemente ti se' sommessa, suole insieme con la libertà il
conoscimento occupare, mi piace di ricordarti e di pregarti che tu del casto petto esturbi
e cacci via le cose nefande, e ispegni le disoneste fiamme, e non ti facci a turpissima
speranza servente. E ora è tempo da resistere con forza, però che chi nel principio bene
contrastette, cacciò il villano amore, e sicuro rimase e vincitore; ma chi con lunghi
pensieri e lusinghe il nutrica, tardi può poi ricusare il suo giogo, al quale quasi
volontario si sommise».
«Ohimè - dissi io allora - quanto sono più agevoli a
dire queste cose che a menarle ad effetto!»
«Come ch'elle sieno a fare assai malagevoli, pure
possibili sono, - disse ella - e fare si convengono. Vedi se l'altezza del tuo parentado,
la gran fama della tua virtù, il fiore della tua bellezza, l'onore del mondo presente, e
tutte quell'altre cose che a donna nobile debbono essere care, e sopra a tutte la grazia
del tuo marito, da te tanto amato e tu da lui, per questa sola di perdere disideri. Certo
volere nol dei, né credo che 'l vogli, se savia teco medesima ti consigli. Dunque, per
Dio, ritienti, e i falsi diletti promessi dalla sozza speranza caccia via, e con essi il
preso furore. Io supplicemente, per questo vecchio petto e nelle molte cure affaticato,
dal quale tu prima li nutritivi alimenti prendesti, ti priego che tu medesima t'aiuti, e
alli tuoi onori provvegga, e li miei conforti in questo non rifiutare: pensa che parte
della sanità fu il volere essere guarita».
Allora cominciai io:
«O cara nutrice, assai conosco vere le cose che narri; ma
il furore mi costrigne a seguitare le piggiori, e l'animo consapevole, e ne' suoi disideri
strabocchevole, indarno li sani consigli appetisce; e quello che la ragione vuole è vinto
dal regnante furore. La nostra mente tutta possiede e signoreggia Amore con la sua deità,
e tu sai che non è sicura cosa alle sue potenzie resistere».
E questo detto, quasi vinta, sopra le mie braccia ricaddi.
Ma ella, alquanto più che prima turbata, con voce più rigida cominciò tali parole:
«Voi, turba di vaghe giovini, di focosa libidine accese,
sospingendovi questa, vi avete trovato Amore essere iddio al quale piuttosto giusto titolo
sarebbe furore; e lui di Venere chiamate figliuolo, dicendo che egli dal terzo cielo
piglia le forze sue, quasi vogliate alla vostra follia porre necessità per iscusa. O
ingannate, e veramente di conoscimento in tutto fuori! Che è quello che voi dite? Costui,
da infernale furia sospinto, con sùbito volo visita tutte le terre, non deità, ma
piuttosto pazzia di chi il riceve, benché esso non visiti al più se non quelli, li
quali, di soperchio abondanti nelle mondane felicità, conosce con gli animi vani e atti a
fargli luogo: e questo ci è assai manifesto. Ora non veggiamo noi Venere santissima
abitare nelle piccole case sovenente, solamente e utile al necessario nostro procreamento?
Certo sì; ma questi, il quale, per furore, Amore è chiamato, sempre le dissolute cose
appetendo, non altrove s'accosta che alla seconda fortuna. Questi, schifo così di cibi
alla natura bastevoli come di vestimenti, li dilicati e risplendenti persuade, e con
quelli mescola i suoi veleni, occupando l'anime cattivelle; per che, costui così
volontieri gli alti palagi colente, nelle povere case rade volte si vede o non giammai;
però che è pestilenza, che solo elegge i dilicati luoghi, sì come più al fine delle
sue operazioni inique conformi. Noi veggiamo nell'umile popolo gli affetti sani; ma li
ricchi d'ogni parte di ricchezze splendenti, così in questo come nell'altre cose
insaziabili, sempre più che il convenevole cercano, e quello che non può chi molto può
disidera di potere; de' quali te medesima sento essere una, o infelicissima giovine, in
nuova sollecitudine e isconcia entrata per troppo bene».
Alla quale dopo molto averla ascoltata, io dissi:
«O vecchia, taci, e contro agl'iddii non parlare. Tu
oramai a questi effetti impotente, e meritamente rifiutata da tutti, quasi volontaria
parli contro di lui, quello ora biasimando che altra volta ti piacque. Se l'altre donne di
me più famose, savie e possenti, così per addietro l'hanno chiamato e chiamano, io non
gli posso dare nome di nuovo; a lui sono veramente suggetta, quale che di ciò si sia la
cagione, o la mia felicità o la mia sciagura, e più non posso. Le forze mie, più volte
alle sue oppostesi, vinte, indietro si sono tirate. Adunque, o la morte o il giovine
disiato resta per sola fine alle mie pene; alle quali tu, piuttosto, se così se' savia
come io ti tengo, porgi consiglio e aiuto, il quale minori le faccia, io te ne priego, o
tu ti rimani di inasprirle, biasimando quello a che l'anima mia, non potendo altro, con
tutte le sue forze è disposta».
Ella allora sdegnando, e non senza ragione, senza
rispondermi, non so che mormorando con seco, me, della camera uscita, lasciò soletta.
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 06 febbraio 1998