Giovanni Boccaccio
Elegia di Madonna Fiammetta
Capitolo III.
Nel quale si dimostra chenti e quali fossero di questa donna i pensieri e l'opera, trascorrendo il tempo a lei dal suo amante promesso di ritornare.
Quale voi avete di sopra udito, o donne,
cotale, dipartito il mio Panfilo, rimasi, e più giorni con lagrime di tal partenza mi
dolsi, né altro era nella mia bocca, benché tacitamente fosse, che: «O Panfilo mio,
come può egli essere che tu m'abbi lasciata?». Certo intra le lagrime mi dava tal nome,
ricordandolo, alcuno conforto. Niuna parte della mia camera era che io con disiderosissimo
occhio non riguardassi, fra me dicendo: «Qui sedette il mio Panfilo, qui giacque, quivi
mi promise di tornare tosto, quivi il baciai io». E, brievemente, ciascuno luogo m'era
caro. Io alcuna volta meco medesima fingeva lui dovere ancora, indietro tornando, venirmi
a vedere, e quasi come se venuto fosse, gli occhi all'uscio della mia camera rivolgeva, e
rimanendo dal mio consapevole imaginamento beffata, così ne rimaneva crucciosa come se
con verità fossi stata ingannata. Io più volte per cacciare da me i non utili
riguardamenti cominciai molte cose a voler fare; ma vinta da nuove imaginazioni, quelle
lasciava stare. Il misero cuore con non usato battimento continuamente m'infestava. Io mi
ricordava di molte cose, le quali io gli vorrei aver dette, e quelle che dette gli aveva,
e le sue ripetendo con meco stessa; e in tal maniera, non fermando l'animo a nulla cosa,
più giorni mi stetti dogliosa.
Poi che la doglia gravissima per la nuova partenza
incominciò per interposizione di tempo alquanto ad allenare, a me incominciarono a venire
più fermi pensieri; e venuti, se medesimi con ragioni verisimili difendevano. Egli, non
dopo molti dì dimorando io nella mia camera sola, m'avvenne ch'io con meco a dir
cominciai: «Ecco, ora l'amante è partito, e vassene; e tu, misera, non che dire addio,
ma rendergli i baci dati al morto viso o vederlo nel suo partire non potesti; la quale
cosa egli forse tenendo a mente, se alcuno caso noioso gli avviene, della tua taciturnità
malo agurio prendendo, forse di te si biasimerà». Questo pensiero mi fu nel principio
nell'animo molto grave, ma nuovo consiglio da me il rimosse, perciò che meco pensando
dissi: «Di qui non dee biasimo alcuno cadere, perciò che egli, savio, piuttosto il mio
avvenimento prenderà in agurio felice, dicendo: «Ella non disse addio, sì come si suol
dire a quelli, i quali o per lungamente dimorare o per non tornare si sogliono partire
d'altrui; ma tacendo, me seco quasi reputando d'avere, brevissimo spazio disegnò alla mia
dimora». E così, me con meco racconsolata, lascio questo andare, intrando in altri.
Alcun'altra volta con più gravezza mi venne pensato lui
avere il piè percosso nel limitare dell'uscio della nostra camera, sì come la fedele
serva m'avea ridetto; e ricordandomi che a niuno altro segnale Laudomia prese tanta
fermezza, quanta a così fatto del non redituro Protesilao, già molte volte ne piansi,
quello medesimo di ciò sperando che n'è avvenuto. Ma, non capendomi allora nell'animo
che avvenire mi dovesse, quasi vani cotali pensieri imaginai da dover lasciare andar via.
I quali però non si partiano a mia posta, ma talvolta altri sopravvegnendone, questi
m'uscivano di mente, pensando a già venuti, i quali tanti e tali erano, che di quelli il
numero, non che altro, graverebbe a ricordarsi.
Egli non mi venne una volta sola nell'animo l'avere già
letto ne' versi di Ovidio che le fatiche traevano a' giovini amore delle menti, anzi mi
veniva tante quante volte io mi ricordava lui essere in camino. E sentendo quello non
piccolo affanno, e massimamente a chi è di riposo uso, o il fa contro voglia, forte meco
dubitava in prima non quello avesse forza di torlomi, e appresso non la invita fatica né
il noioso tempo gli fosse cagione d'infermità, o di peggio. E in questo molto mi ricorda
più che negli altri dimorare occupata, benché sovente io e dalle sue medesime lagrime da
me vedute, e dalle mie fatiche, le quali mai non mutarono la mia fermezza, argomentai non
potere essere vero, che per sì piccolo affanno si spegnesse amore così grande, sperando
ancora che la sua giovine età e la discrezione da altro accidente noioso me 'l
guarderebbero.
Così adunque a me opponendo, e rispondendo, e solvendo,
trapassai tanti giorni, che non che lui alla sua patria pervenuto pensai solamente, ma
ancora ne fui per sua lettera fatta certa. La quale essendo a me per molte cagioni
graziosissima, lui ardere come mai mi fece palese, e con maggiori promesse vivificò la
mia speranza del suo tornare.
Da questa ora innanzi, partiti i primi pensieri, nuovi in
luogo di quelli subitamente ne nacquero. Io alcuna volta diceva: «Ora Panfilo unico
figliuolo al vecchio padre, da lui, il quale già è molti anni nol vide, con grandissima
festa ricevuto, non che egli di me si ricordi, ma io credo che egli maledice i mesi i
quali qui con diverse cagioni per amor di me si ritenne; e ricevendo onore ora da questo
amico e ora da quell'altro, biasima forse me, che altro che amarlo non sapea quando c'era.
E gli animi pieni di festa sono atti a potere essere tolti d'uno luogo, e obligarsi in un
altro. Deh, ora potrebbe egli essere che io in così fatta maniera il perdessi? Certo
appena che io il possa credere. Iddio cessi che questo avvenga; e come egli ha me tenuta e
tiene, tra' miei parenti e nella mia città, sua, così lui tra' suoi e nella sua conservi
mio». Ohimè! con quante lagrime erano mescolate queste parole, e con quante più
sarebbero state, se vero avessi creduto ciò che esse medesime vero indovinavano! Avvegna
che quelle che allora non vennero, io poi in molti doppii l'abbia sparte invano.
Oltre a cotal ragionare, l'anima, spesse volte conoscitrice
de' suoi futuri mali, presa da non so che paura, tremava forte; la qual paura più volte
in cotal pensiero si risolvette: «Panfilo ora nella sua città, piena di templi
eccellentissimi e per molte e grandissime feste pomposi, visita quelli, li quali senza
niuno dubbio trova di donne pieni, le quali sì come io ho molte fiate udito, ancora che
bellissime sieno, di leggiadria e di vaghezza tutte l'altre trapassano, né alcune ne sono
con tanti lacciuoli da pigliare animi, quanti loro. Deh, chi può essere sì forte
guardiano di se medesimo, dove tante cose concorrono, che, posto che egli pure non voglia,
egli non sia almeno per forza preso alcuna volta? E io medesima fui per forza presa. E
oltre a ciò le cose nuove sogliono più che l'altre piacere. Adunque è leggier cosa che
egli a loro nuovo ed esse a lui, e possa ad alcuna piacere, e a lui similmente alcuna
piacerne». Ohimè! quanto m'era grave cotale imaginare, il quale, che egli non dovesse
avvenire, appena poteva da me cacciare, dicendo: «Or come potrebbe Panfilo, che te più
che sé ama, ricevere nel cuore da te occupato un altro amore? Non sai tu qui alcuna
essere stata ben degna di lui, la quale con maggior forza che con quella degli occhi
s'ingegnò d'entrarvi, né vi poté onde trovare? Certo appena, non essendo egli tuo sì
come egli è, trapassando ancora qualunque donne si sono di bellezza e d'arte le dèe, che
egli così tosto, come tu di', innamorare si potesse. E oltre a questo, come credi tu che
egli la fede a te promessa volesse rompere per alcun'altra? Egli nol farebbe giammai; e
similemente nella sua discrezione ti dei fidare. Tu dei ragionevolmente pensare che egli
non è sì poco savio, che egli non conosca che mattamente fa chi lascia quel ch'egli ha,
per acquistare quello che non ha; se già quello che lasciasse non fosse piccolissima cosa
per acquistare una grandissima, e di ciò speranza avere infallibile; il che in questo non
può avvenire, però che se tu hai il vero udito, tu saresti nel numero delle belle nella
sua terra, la quale niuna più ricca di te ne tiene o gentile; e oltre a questo, cui
troverebbe egli, che sì l'amasse come tu l'ami? Esso, sì come in ciò esperto, conosce
quanta fatica sia il disporre una donna, che di nuovo piaccia, a farsi amare, le quali,
ancora che amino, il che di rado avviene, sempre il contrario mostrano di ciò che
disiano. Egli, quando pure te non amasse, intorno a molte cose da altri suoi fatti
impedito, non potrebbe ora vacare a dimesticare novelle donne; e però di ciò non
pensare, ma tieni per certa regola, che quanto tu ami, cotanto se' amata».
Ohimè! quanto falsamente argomentava, fatta sofistica
contro al vero! Ma con tutto il mio argomentare mai non mi pote' dell'animo cacciare la
miserabile gelosia, entratavi per giunta degli altri miei danni. Ma pure, quasi veramente
arguissi, alquanto alleviata, a mio potere da tale pensiero mi scostava.
Carissime donne, acciò ch'io non metta il tempo in
raccontare ciascuno mio pensiero, quali le mie opere più sollecite fossero ascolterete;
né di ciò piglierete ammirazione, se furono nuove, perciò che non quali io l'avrei
volute, ma quali Amore le mi dava, seguire le mi conveniva. Egli trapassavano poche
mattine che io, levata, non salissi nella più eccelsa parte della mia casa, e quindi non
altramente che li marinari, sopra la gabbia del loro legno saliti, speculano se scoglio o
terra vicina scorgono che gli impedisse, riguardo tutto il cielo; poi verso l'oriente
fermata, considero quanto il sole, sopra l'orizonte levato, abbia del nuovo giorno
passato; e tanto quanto io il veggio più innalzato, cotanto diceva più il termine
avvicinarsi della tornata di Panfilo. E quasi con diletto quello molte volte rimirava
salire; né discernendolo, ora alla mia ombra fatta minore, e quando dallo spazio del suo
corpo alla terra fatto maggiore, di lui la salita quantità estimava, e meco stessa diceva
lui più pigramente che mai andare, e più dare a' giorni di spazio nel Capricorno che nel
Cancro dar non solea; e così similmente lui al mezzo cerchio salito, dicea a diletto
starsi a riguardare le terre, e quantunque egli velocemente si calasse all'occaso, sì mi
parea tardo. Il quale, poi che, tolta al nostro mondo la luce sua, alle stelle la loro
lasciava mostrare, io contenta molte volte meco i dì trapassati annoverando, quello con
gli altri passati con una piccola pietra segnava, non altramente che gli antichi, i lieti
dalli dolenti spartendo, con bianche e con nere petruzze solevano fare. Oh quante volte
già mi ricorda che anzi tempo io la vi giunsi, parendomi tanto del termine dato scemare,
quanto più tosto l'aggiungeva al trapassato, ora le petruzze per li passati segnate, e
ora quelle, che per quelli che erano a passare stavano, annoverando, benché di ciascune
ottimamente il numero nella mente avessi; ma quasi ogni volta sperava l'une cresciute e
l'altre dover trovare scemate. Così il disio mi trasportava volonterosa alla fine del
tempo dato.
Usata adunque questa sollecitudine vana, il più delle
volte nella mia camera mi tornava, e quivi più volontieri sola che accompagnata. Per
fuggire i pensieri nocevoli, quando sola mi vi trovava, aprendo uno mio forziere, di
quello molte cose già state sue ad una ad una traeva, e quelle, con quello disiderio
ch'io soleva già lui riguardare, le mirava, e miratele, appena le lagrime ritenute,
sospirando le baciava; e quasi come se intelligenti creature state fossero, le dimandava:
«Quando ci fia il signor nostro?». Quindi, riposte queste, infinite sue lettere a me da
lui mandate traeva fuori, e quelle quasi tutte leggendo, quasi con lui parendomi
ragionare, sentiva non poco conforto. E molte volte fu che io, la mia serva chiamata,
varii parlamenti con lei tenni di lui, ora dimandandola qual fosse la sua speranza della
tornata di Panfilo, ora dimandandola quello che di lui le paresse, e talvolta se di lui
avesse udito alcuna cosa. Alle quali cose essa, o per piacermi, o pure secondo il suo
parere il vero rispondendomi, non poco mi consolava; e così molte volte gran parte del
dì trapassava con poca noia.
Non meno che le già dette cose, o pietose donne, m'era
caro il visitare li templi, e il sedere alla mia porta con le mie compagne, dove spesso da
ragionamenti varii alquanto erano da me rimosse le mie sollecitudini infinite. Nelli quali
luoghi stando, più volte m'avvenne che io vidi di quelli giovini quali io molte volte con
Panfilo avea veduti; né mai che io gli vedessi avvenia che io tra loro non mirassi, quasi
tra essi dovessi Panfilo rivedere. Oh quante volte io fui in ciò avvedutamente ingannata!
E come, ancora che ingannata fossi, mi giovava di loro vedere! Li quali, se il loro
aspetto non mi mentiva, io gli vedea della mia compassione medesima pieni, e quasi del
loro compagno rimasi soli, mi pareano non così lieti come soleano. Oh, che voler fu più
volte il mio di dimandarli che fosse del loro compagno, se la ragione non m'avesse tenuta!
Ma certo la fortuna in ciò alcuna volta mi fu benigna, ché, non credendo essi di lui in
alcuno luogo essere da me intesi, dissero la sua tornata essere vicina. Quanto ciò mi
piacesse, invano mi faticherei ad esprimerlo. E in questa maniera, con cotali pensieri e
con così fatte opere e con molte altre a queste simili m'ingegnava di trapassare li
giorni, a me nella loro piccolezza gravosi, la notte appetendo, non perché io a me più
utile la sentissi, ma perché, venuta, meno era del tempo a trapassare.
Poi che 'l dì, le sue ore finite, era dalla notte
occupato, nuove sollecitudini le più volte mi s'apprestavano. Io dalla mia puerizia nelle
notturne tenebre paurosa, accompagnata da Amore era divenuta sicura; e sentendo già nella
mia casa ciascuno riposare, sola alcuna volta là onde la mattina il sole montante avea
veduto, me ne saliva, e quale Arunte tra' bianchi marmi de' monti Lucani i corpi celesti e
i loro moti speculava, cotale io la notte lunghissime ore traente, sentendo alli miei
sonni le varie sollecitudini essere nemiche, da quella parte il cielo mirava, e i suoi
moti più ch'altri veloci, meco tardissimi reputava. E alcuna volta vòlti gli occhi
attenti alla cornuta luna, non che alla sua ritondità corresse, ma più acuta l'una notte
che l'altra la giudicava, tanto era più il mio disio ardente che tosto le quattro volte
si consumassero, che veloce il còrso suo. Oh quante volte, ancora che freddissima luce
porgesse, la rimirai io a diletto lunga fiata, imaginando che così in essa fossero allora
gli occhi del mio Panfilo fissi come i miei! Il quale io ora non dubito che, essendogli io
già uscita di mente, non che egli alla luna mirasse, ma solo un pensiero non avendone,
forse nel suo letto si riposava. E ricordami che io, della lentezza del corso di lei
crucciandomi, con varii suoni, seguendo gli antichi errori, aiutai i corsi di lei alla sua
ritondità pervenire; alla quale poi che pervenuta era, quasi contenta dello intero suo
lume, alle nuove corna non pareva che di tornare si curasse, ma pigra nella sua ritondità
dimorava, avvegna che io di ciò l'avessi quasi in me medesima talvolta per iscusata, più
grazioso reputando lo stare con la sua madre, che negli oscuri regni del suo marito
tornare. Ma bene mi ricorda che spesso già le voci in prieghi per li suoi agevolamenti
usate io le rivolsi in minacce, dicendo:
«O Febea, mala guiderdonatrice de' ricevuti servigi, io
con pietosi prieghi le tue fatiche m'ingegno di menomare, ma tu con pigre dimoranze le mie
non ti curi d'accrescere. E però, se più a' bisogni del mio aiuto cornuta ritorni, me
così allora sentirai pigra, come io ora te discerno. Or non sai tu, che quanto più tosto
quattro volte cornuta, e altrettante tonda t'avrai mostrata, cotanto più tosto il mio
Panfilo tornerammi? Il quale tornato, così tarda o veloce come ti piace corri per li tuoi
cerchi».
Certo quella demenza medesima che me a fare cotali prieghi
induceva, quella stessa tolse sì me a me, che ella mi fece parere alcuna volta che essa,
temorosa delle mie minacce, s'avacciasse nel còrso suo a' miei piaceri; e altre volte,
quasi non curantesi di me, più che l'usato parea che tardasse. Questo riguardarla sovente
ma sì nota del suo andamento rendeo, che ella né di corpo piena o vòta in alcuna parte
era del cielo o con qualunque stella congiunta, che io non avessi il tempo della notte
passato e l'avvenire giudicato dirittamente; similemente l'una e l'altra Orsa, se essa non
fosse paruta, per lunga notizia me ne facevano certa. Deh, chi crederebbe che Amore
m'avesse potuto mostrare astrologia, arte da solennissimi ingegni e non da menti occupate
dal suo furore?
Quando il cielo, d'oscurissimi nuvoli pieno, trascorso da
varii e sonanti venti, per ogni parte questa veduta mi toglieva, alcuna volta, se altro
affare non mi occorreva, ragunate le mie fanti con meco nella mia camera, e raccontava e
facea raccontare storie diverse, le quali quanto più erano di lungi dal vero, come il
più così fatte genti le dicono, cotanto parea che avessero maggior forza a cacciare i
sospiri e a recare festa a me ascoltante, la quale alcuna volta, con tutta la malinconia,
di quelle lietissimamente risi. E se questo forse per cagione legittima non potea essere,
in libri diversi ricercando l'altrui miserie e quelle alle mie conformando, quasi
accompagnata sentendomi, con meno noia il tempo passava. Né so qual più grazioso mi
fosse, o vedere i tempi trascorrere, o trovarli, in altro essendo stata occupata, essere
trascorsi.
Ma poi che le operazioni predette e altre me aveano per
lungo spazio tenuta occupata, quasi a forza, assai bene conoscendo che invano ancora me
n'andava a dormire, anzi piuttosto a giacere per dormire. E nel mio letto dimorando sola,
e da niuno romore impedita, quasi tutti i preteriti pensieri del dì mi venivano nella
mente, e mal mio grado con molti più argomenti e pro e contra mi si faceano ripetere; e
molte volte volli entrare in altri, e rade furono quelle che io il potessi ottenere; ma
pure alcuna volta, loro a forza lasciati, giacendo in quella parte ove il mio Panfilo era
giaciuto, quasi sentendo di lui alcuno odore, mi pareva essere contenta, e lui tra me
medesima chiamava e, quasi mi dovesse udire, il pregava che tosto tornasse.
Poi lui imaginava tornato, e meco fingendolo, molte cose
gli dicea, e di molte il dimandava, e io stessa in suo luogo mi rispondea; e alcuna volta
m'avvenne che io in cotali pensieri m'addormentai. E certo il sonno m'era alcuna volta
più grazioso che la vigilia, perciò che quello che io con meco falsamente vegghiando
fingeva, esso, se durato fosse, non altramente che vero mel concedeva. Egli mi pareva
alcuna volta, lui tornato, vagare in giardini bellissimi, di frondi, di fiori e di frutti
varii adorni, con lui insieme quasi d'ogni temenza rimoti, come già facemmo; e quivi lui
per la mano tenendo, ed esso me, farmi ogni suo accidente contare; e molte volte, avanti
che 'l suo dire avesse fornito, mi parea baciandolo rompergli le parole, e quasi appena
vero parendomi ciò che io vedea, diceva: «Deh, è egli vero che tu sii tornato? Certo
sì è, io ti pur tengo». E quindi da capo il baciava. Altra volta mi pareva essere con
lui sopra i marini liti in lieta festa, e tal fu che io affermai meco medesima, dicendo:
«Ora pur non sogno io d'averlo nelle mie braccia». Oh, quanto m'era discaro, quando ciò
m'avveniva, che 'l sonno da me si partisse! Il quale partendosi, sempre seco se ne portava
ciò che senza sua fatica m'avea prestato; e ancora ch'io ne rimanessi malinconiosa assai,
non per tanto tutto il dì seguente, bene sperando, contentissima dimorava, disiderando
che tosto la notte tornasse, acciò ch'io, dormendo, quello avessi che vegghiando aver non
poteva. E benché così grazioso alcuna volta mi fosse il sonno, nondimeno non sofferse
egli che io cotale dolcezza senza amaritudine mescolata sentissi, perciò che furono assai
di quelle volte che egli il mi parea vedere in vilissimi vestimenti vestito, tutto non so
di che macchie oscurissime maculato, palido e pauroso, e come se cacciato fosse, inverso
me gridare: «Aiutami!». Altre, mi pareva udir parlare a più persone della sua morte; e
tal volta fu ch'io mel vidi morto davanti, e in altre molte e varie forme a me spiacenti.
Il che niuna volta avvenne, che il sonno avesse maggiori le forze che il dolore; e
subitamente risvegliata, e la vanità del mio sogno conoscendo, quasi contenta d'avere
sognato, ringraziava Iddio; non che io turbata non rimanessi, temendo non le cose vedute,
se non tutte, almeno in parte fossero vere o figure di vere. Né mai, quantunque io meco
dicessi, e da altrui udissi vani essere i sogni, di ciò non era contenta, se io di lui
non sapea novelle, delle quali io astutissimamente era divenuta sollecita dimandatrice.
In cotal guisa, quale udito avete, i giorni e le notti
trapassava aspettando. Vero è che, avvicinandosi il tempo della promessa tornata, io
estimai che utile consiglio fosse il vivere lieta, acciò che le mie bellezze, alquanto
smarrite per l'avuto dolore, ritornassero ne' loro luoghi acciò che egli tornando, io
essendo sformata non gli potessi spiacere. E questo mi fu assai agevole a fare, però che
per il già essermi negli affanni adusata, quelli con pochissima fatica portava, e oltre a
ciò la propinqua speranza del promesso tornare con non usata letizia ogni dì mi si
faceva più sentire. Io le feste non poco intralasciate, dando di ciò al sozzo tempo
cagione, venendone il nuovo, ricominciai ad usare; né prima l'animo, da gravissime
amaritudini ristretto, si cominciò in lieta vita ad ampliare, ch'io più bella che mai
ritornai; e li cari vestimenti e li preziosi ornamenti, non altramente che il cavaliere
per la futura battaglia risarcisce le sue forti armi dove bisogna, li feci belli, acciò
che in quelli più ornata paressi nel suo tornare, il quale io invano e ingannata
aspettava.
Adunque, sì come gli atti si tramutarono, così si fecero
i miei pensieri. A me il non averlo nel suo partir veduto, né il tristo agurio del piè
percosso, né le sostenute fatiche di lui, né li dolori ricevuti, né la nemica gelosia
più nella mente venivano, anzi già forse a otto dì alla sua promessa vicina, fra me
diceva:
«Ora al mio Panfilo rincresce l'essere a me stato lontano,
e sentendo il tempo vicino a ciò che promise, di tornar s'apparecchia; e forse ora,
lasciato il vecchio padre, è nel camino». Oh quanto m'era cotal ragionare caro, e quanto
sopr'esso volontieri mi volgeva, molte volte entrando in pensiero con che atto a lui più
grazioso mi dovessi ripresentare! Ohimè! quante volte dissi:
«Egli fia nella sua tornata da me centomilia volte
abbracciato, e i miei baci multiplicheranno in tanta quantità, che niuna parola intera
lasceranno della sua bocca uscire; e in cento doppii renderò quelli che esso, senza
riceverne nullo, diede al tramortito viso».
E nel pensiero più volte dubitai di non poter raffrenare
l'ardente disio d'abbracciarlo, quando prima il vedessi innanzi a qualunque persona. Ma a
queste cose provvidero gl'iddii per modo a me noievole più che troppo. Io ancora, nella
mia camera stando, quante volte in quella alcuna persona entrava, tante credeva che venuta
mi fosse a dire: «Panfilo è venuto». Io non udiva voce alcuna in alcuno luogo, che io
con gli orecchi levati non le raccogliessi tutte, pensando che di lui tornato dovessero
dire. Io mi levai, credo, più di cento volte già da sedere correndo alla finestra, quasi
d'altro sollecita, in giù e 'n su rimirando, avendo prima a me medesima pensando
scioccamente fatto credere: «Egli è possibile che Panfilo ora venuto ti venga a
vedere». E vano ritrovando il mio avviso, quasi confusa dentro mi ritornava. Io, dicendo
che esso alcune cose dovea al mio marito recare nella sua tornata, spesso e se venuto
fosse o quando s'aspettasse e dimandava e facea dimandare. Ma di ciò niuna lieta risposta
mi pervenia, se non come di colui che mai più venire non dovea, se non come ha fatto.
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 06 febbraio 1998