Giovanni Boccaccio

Elegia di Madonna Fiammetta


Capitolo V

Nel quale la Fiammetta dimostra come alli suoi orecchi pervenne Panfilo aver presa moglie, mostrando appresso quanto del suo tornare disperata e dolorosa vivesse.

      Lievi sono state infino a qui le mie lagrime, o pietose donne, e i miei sospiri piacevoli a rispetto di quelli, i quali la dolente penna, piú pigra a scrivere che il cuore a sentire, s'apparecchia di dimostrarvi. E certo, se bene si considera, le pene infino a qui trapassate, piú di lasciva giovine che di tormentata quasi si possono dire; ma le seguenti vi parranno d'un'altra mano. Adunque fermate gli animi, né vi spaventino sí le mie promesse, che, le cose passate parendovi gravi, voi non vogliate ancora vedere le seguenti gravissime; e in verità io non vi conforto tanto a questo affanno perché voi piú di me divegniate pietose, quanto perché piú la nequizia di colui per cui ciò m'avviene conoscendo divegniate piú caute in non commettervi ad ogni giovine. E cosí forse ad un'ora a voi m'obligherò ragionando e disobligherò consigliando, ovvero per le cose a me avvenute ammonendo e avvisando.
       Dico adunque, donne, che con cosí varie imaginazioni, quali poco avanti avete potute comprendere nel mio dire, io stava continuo, quando, di piú d’uno mese essendo il tempo trapassato promesso, a me cosí dell'amato giovine un dí novelle pervennero. Io andata a visitare con animo pio sacre religiose, e forse per fare per me porgere a Dio pietose orazioni, che o rendendomi Panfilo o cacciandolmi della mente mi ritornasse il perduto conforto, avvenne che, sedendo io con le già dette donne, assai discrete e piacevoli nel loro ragionare e a me molte per parentado e per antica amistà congiunte, quivi venne un mercatante, né altramente che Ulisse e Diomedes a Deidamia e alle suore, cominciò diverse gioie e belle, quali a cosí fatte donne si conveniano, a mostrare.
       Egli, sí come io alla sua favella compresi, ed esso medesimo da una di quelle dimandatone confessò, era della terra di Panfilo mio. Ma poi che egli mostrate molte delle sue cose, e di quelle da esse alcune per lo convenuto pregio prese, e l'altre rendutegli, entrati in nuovi motti e lieti, e esse ed esso, .mentre che egli il pagamento aspettava, una di loro d'età giovine e di forma bellissima e chiara di sangue e di costumi, quella medesima ch'avanti dimandato l'avea onde fosse, il dimandò se egli Panfilo suo compatriota conosciuto avesse giammai. Oh, quanto cotale dimanda diè per lo mio disio!
       Certo io ne fui contentissima, e gli orecchi alla risposta levai. Il mercatante senza indugio rispose:
       - E chi è quegli che meglio di me il conosca?
       A cui seguí la giovine quasi infignendosi di sapere che di lui fosse:
       - E che è egli ora di lui?
       - Oh, - disse il mercatante - egli è assai che il padre, non essendogli rimaso altro figliuolo, il richiamò a casa sua.
       Il quale ancora la giovine dimandò:
       - Quanto ha che tu di lui sapesti novelle?
       - Certo, -.disse egli - non poi che da lui mi partii, che ancora non credo che siano quindici giorni compiuti.
       Continuò la donna:
       - E allora che era di lui?
       Alla quale esso rispose:
       - Molto bene; e dicovi che il dí medesimo che io mi partii, vidi con grandissima festa entrare di nuovo in casa sua una bellissima giovine, la quale, secondo che io intesi, era a lui novellamente sposata.
       Io, mentre che il mercatante queste cose diceva, ancora che con amarissimo dolore l'ascoltassi, fiso nel viso la dimandante giovine riguardava, maravigliandomi quale cagione potesse essere che costei inducesse a dimandare cosí strette particolarità di colui, cui io appena credeva che altra donna il conoscesse che io, e vidi che prima a' suoi orecchi non venne Panfilo avere moglie sposata, che, gli occhi bassati, tutta nel viso si tinse, e la pronta parola le morí in bocca, e per quello che io presumessi, essa con fatica grandissima le lagrime già agli occhi venute ritenne, Ma io prima, ciò udendo, da uno gravissimo dolore presa, súbito, ciò vedendo, fui da un altro non minore assalita, e appena mi ritenni che io con gravissima villania la turbazione di colei non riprendessi, invidiosa che da lei sí aperti segnali d'amore verso Panfilo si mostrassero, dubitando, non meno che essa, cosí, come io, non avesse legittima cagione di dolersi delle udite parole. Ma pure mi tenni, e con noiosa fatica, alla quale non credo che simigliante si truovi, il turbato cuore sotto non cambiato viso servai, di piagnere piú disiosa che di piú ascoltare.
       Ma la giovine, forse con quella medesima forza che io, ritenendo dentro il dolore, come se stata non fosse quella che s'era davanti turbata, fattasi far fede di quelle parole, quanto piú dimandava piú trovava la cosa contraria al suo disio e al mio. Onde, dato al mercatante commiato, ché l domandava, e ricoperta con infinite risa la sua tristizia, con ragionamenti diversi insieme quivi per piú lungo spazio ch'io non averei voluto ci rimanemmo.
       Venuti meno i nostri ragionamenti, ciascuna si dipartí, e io con anima piena d'angosciosa ira, non altramente fremendo che il leone libico poscia che nelle sue insidie scuopre i cacciatori, ora nel viso accesa e ora palida divenendo, quando con lento passo e quando con piú veloce che la donnesca onestà non richiede, tornai alla mia casa. E poi che licito mi fu di potere di me fare a mio senno, entrata nella mia camera, amaramente cominciai a piagnere, e quando per lungo spazio le molte lagrime parte della gran doglia ebbero sfogata, essendomi alquanto piú libero il parlare, con voce assai debole incominciai:
       - Ora, o misera Fiammetta, sai perché il tuo Panfilo non ritorna; ora sai la cagione della sua dimora tanto da te disiata; ora hai quello che tu andavi cercando di trovare. Che, misera, chiedi piú? Che piú addimandi? Bastiti questo: Panfilo non è piú tuo. Gitta via omai i disiderii di riaverlo, abandona la mal ritenuta speranza, poni giú il fervente amore, lascia i pensieri matti; credi omai agli agurii e alla tua divinante anima, .e comincia a conoscere gl’inganni de' giovini. Tu se' a quello punto venuta, là dove l'altre sogliono venire che troppo si fidano.
       E con queste parole mi raccesi nell’ira, e rinforzai il pianto; e da capo con parole troppo piú fiere ricominciai cosí a parlare:
       - O iddii ove sete? Ove ora mirano gli occhi vostri? Ov'è ora la vostra ira? Perché sopra lo schernitore della vostra potenza non cade? O spergiurato Giove, che fanno le folgori tue? Ove ora le adoperi? Chi piú empiamente l’ha meritate? Come non scendono esse sopra il pessimo giovine, acciò che gli altri per innanzi di spergiurarti abbiano temenza? O luminoso Febo, dove sono ora le tue saette, male merite di ferire il Fitone, a rispetto di colui che falsamente te a' suoi inganni chiamò testimonio? Privalo della luce de' raggi tuoi, e non meno gli torna nemico che tu fosti al misero Edippo. O voi altri qualunque dii e dèe, e tu Amore, la cui potenza ha schernita il falso amante, come ora non mostrate le vostre forze e la dovuta ira? Come non convertite voi il cielo e la terra contra il novello sposo, sí che egli nel mondo per essemplo d'ingannatore e d'annullatore della vostra potenza non rimanga a piú schernirvi? Molto minori falli mossero già l’ira vostra a vendetta men giusta. Dunque ora perché tardate? Voi non potreste appena tanto incrudelire verso di lui, che egli debitamente punito fosse.
       Ohimè misera! Perché non è egli possibile che voi l'effetto de' suoi inganni cosí sentiate come io, acciò che cosí in voi come in me s'accendesse l'ardore della punizione? O iddii, rivolgete in lui alcuni di quelli pericoli, o tutti, de' quali io già dubitai; uccidetelo di qualunque generazione di morte piú vi piace, acciò che io ad un'ora tutta e l'ultima doglia senta, che mai debba sentire per lui, e voi e me vendichiate ad un'ora. Non consentite che io sola per li peccati di lui pianga la pena, ed egli, voi e me avendo beffati, lieto si goda con la nuova sposa, e cosí per contrario tagli la vostra spada.
       Poi, non meno accesa d'ira, ma con pianto piú fiero rivolgendo a Panfilo le parole, mi ricorda che io cominciai:
       - O Panfilo, ora la cagione della tua dimora conosco, ora i tuoi inganni mi sono palesi, ora veggo che ti ritiene, e qual pietà. Tu ora celebri i santi imenei, e io, dal tuo parlare e da te e da me medesima ingannata, mi consumo piagnendo e con le mie lagrime apro la via alla mia morte, la quale con titolo della tua crudeltà debitamente segnerà la sua dolente venuta; e gli anni, i quali io cotanto disiderai d'allungare, si mozzeranno, essendone tu cagione. O scelerato giovine e pronto ne' miei affanni! Or con che cuore hai tu presa la nuova sposa? Con intendimento d'ingannare lei, come tu hai me fatto? Con quali occhi la riguardasti tu? Con quelli con li quali miseramente me credula troppo pigliasti? Qual fede le promettesti tu? Quella che tu avevi a me promessa? Or come potevi tu? Non ti ricordi tu che piú che una volta la cosa obligata non si può obligare? Quali iddii giurasti? Gli spergiurati da te? Ohimè misera! che io non so quale avverso piacere l'animo t'accecò, sentendoti mio, che tu d'altrui divenissi. Ohimè! per qual colpa meritai io d'esserti cosí poco a cura? Dove è fuggito da noi cosí tosto il lieve amore? Ohimè! che fa trista fortuna cosí .miseramente costrigne i dolenti! Tu ora fa promessa fede e a me dalla tua destra data, e li spergiurati iddii per li quali tu con sommo disio giurasti di ritornare, e le tue lusinghevoli parole delle quali molto eri fornito, e le tue lagrime con le quali non solamente il tuo viso bagnasti, ma ancora il mio, tutte insieme raccolte hai gittate a' venti, e me schernendo, lieto vivi con la nuova donna.
       Ohimè! or chi averebbe mai potuto credere che falsità fosse nelle tue parole nascosta e che le tue lagrime fossero con arte mandate fuori? Certo non io; anzi cosí come fedelmente parlava, cosí con fede le parole e le lagrime riceveva E se forse in contrario dicessi e le lagrime vere e i saramenti e la fede prestati con puro cuore, concedasi; ma quale scusa darai tu al non averli servati cosí puramente come promessi? Dirai tu: «La piacevolezza della nuova donna ne è stata cagione?». Certo debole fia, e manifesta dimostrazione di mobile animo. E oltre a tutto questo, sarà egli però satisfatto a me? Certo no. O malvagissimo giovine! Non t'era egli manifesto l'ardente amore che io ti portava e porto ancora contro a mia voglia? Certo sí era; dunque molto meno d'ingegno ti bisognava ad ingannarmi. Ma tu, acciò che piú sottile ti mostrassi poi ne' tuoi parlari, ogni arte volesti usare; ma tu non pensavi quanto poco di gloria ti séguita ad ingannare una giovine, la quale di te si fidava. La mia semplicità meritò maggior fede che la tua non era. Ma che? Io ciò credetti non meno agl’iddii da te giurati, che a te, li quali io priego che facciano che questa sia la piú somma parte della tua fama, cioè avere ingannata una giovine che piú che sé t'amava.
       Deh, Panfilo, dimmi ora: avea io commesso alcuna cosa per la quale io meritassi da te d'essere con cotanto ingegno tradita? Certo niuno altro fallo feci verso di te giammai se non che poco saviamente di te innamorai, e oltre al dovere ti portai fede e t'amai; ma questo peccato almeno da te non meritava ricevere cotale penitenza. Veramente una iniquità in me conosco, per la quale l’ira degl’iddii, faccendola, giustamente impetrai; e questa fu di ricevere te, scelerato giovine e senza alcuna pietà, nel letto mio, e avere sostenuto che il tuo lato al mio s'accostasse; avvegna che di questo, come essi medesimi videro, non io, ma tu se' colpevole; il quale col tuo ardito ingegno, me presa nella tacita notte sicura dormendo, sí come colui che altre volte eri uso d'ingannare, prima nelle braccia m'avesti e quasi la mia pudicizia violata, che io appena fossi dal sonno interamente sviluppata. E che doveva io fare, questo veggendo? Doveva io gridare e col mio grido a me infamia perpetua, e a te, il quale io piú che me medesima amava, morte cercare? Io opposi le forze mie, come Iddio sa, quanto io potei; le quali, alle tue non potendo resistere, vinte, possedesti la tua rapina. Ohimè! ora mi fosse il dí precedente a quella notte stato l'ultimo, nel quale io sarei potuta morire onesta!
       Oh, quante doglie e come acerbe m'assaliranno oggimai! E tu con la menata giovine stando, per piú piacerle, i tuoi antichi amori racconterai, e me misera farai in molte cose colpevole, e la mia bellezza avvilendo e i miei costumi, la quale e li quali da te con somma laude solevano sopra tutti quelli e quelle dell'altre donne essere essaltati, sommamente li suoi lauderai; e quelle cose, le quali io pietosamente verso di te da molto amore sospinta operai, da focosa libidine dirai nate.
       Ma ricorditi, tra le cose che non vere racconterai, di narrare i tuoi veri inganni, per li quali me piagnevole e misera potrai dire aver lasciata, e con essi i ricevuti onori, acciò che bene facci la tua ingratitudine manifesta all'ascoltante. Né t'esca di mente di raccontare quanti e quali giovini già d'avere il mio amore tentassero, e i diversi modi, e le inghirlandate porte da' loro amori, e le notturne risse e le diurne prodezze per quelli operate; né mai dal tuo ingannevole amore mi poterono piegare. E tu per una giovine appena da te ancora conosciuta, súbito mi cambiasti; la quale, se come me non fia semplice, i tuoi baci prenderà sempre sospetti e guarderassi da’ tuoi inganni, da' quali io guardare non mi seppi. La quale io priego che tale con teco sia, quale con Atreo fu la sua, o le figliuole di Danao con li nuovi sposi, o Clitemestra con Agamennone, o almeno quale io, operandolo la tua nequizia, col mio marito, non degno di queste ingiurie, sono dimorata; e te a tale miseria perduca, che come io ora per la pietà di me medesima piango, cosí mi sforzi di spandere lagrime per te: e questo, se dagl’iddii verso i miseri con pietà nulla si mira, priego che tosto sia.
       Come che io fossi molto da queste dolenti ramaricazioni offesa, e sovente sopra esse tornassi, e non solamente quello dí ma molti altri seguenti, nondimeno mi pungeva d'altra parte non poco la turbazione veduta della giovine sopraddetta, la quale alcuna volta m'indusse a cosí con greve doglia pensare; io, sí come molte volte era usata, diceva con meco stessa:
       «Deh, perché, o Panfilo, mi dolgo io del tuo essere lontano, e che tu di nuova giovine sii divenuto, con ciò sia cosa che, essendo tu qui presente, non mio ma d'altrui dimoravi? O pessimo giovine, in quante parti era il tuo amore diviso, o atto a potersi dividere? Io posso presumere che come questa giovine con meco insieme, alle quali hai ora aggiunta la terza, t'eravamo donne, che tu a questo modo n'avevi molte, dove io sola mi credeva essere; e cosí avveniva che, credendo le mie medesime cose trattare, occupava l'altrui. E chi può sapere, se questo già si seppe per alcuna, la quale, piú della grazia degl’iddii di me degna, pregando per le ricevute ingiurie, per li miei mali impetrò che io cosí sia, come io sono, d'angoscie piena? Ma chiunque ella è, s'alcuna è, perdonimi, ché ignorantemente peccai, e la mia ignoranza merita il perdono. Ma tu con quale arte queste cose fingevi? Con quale coscienza l'adoperavi? Da quale amore o da quale tenerezza eri a ciò tirato? Io ho piú volte inteso non potersi amare piú che una persona in un medesimo tempo, ma questa regola mostra che in te non avesse luogo: tu n'amavi molte ovvero facevi vista d'amare.
       Deh, desti tu a tutte, o almeno a questa una, che male ha saputo celare quello che tu hai bene celato, quella fede, quelle promessioni, quelle lagrime che a me donasti? Se ciò facesti, tu puoi, sí come ùa niuna obligato, dimorarti sicuro, perciò che quello che a molti indistintamente si dona, non pare che ad alcuno sia donato. Deh, come può egli essere che chi di tante piglia i cuori non sia il suo alcuna volta preso? Narcisso, amato da molte, essendo a tutte durissimo, ultimamente fu preso dalla sua forma; Atalanta, velocissima nel suo córso, rigida superava i suoi amanti, infino che Ipomenes con maestrevole inganno, come ella medesima volle, la vinse. Ma perché vo io per gli essempli antichi? Io medesima, non potuta mai da alcuno essere presa, fui presa da te. Tu adunque come tra le molte non hai trovato chi t'abbia preso? La qual cosa io non credo, anzi sicura sono che preso fosti; e se fosti, chi che colei si fosse che con tanta forza ti prese, come a lei non torni? Se tu non vuogli a me tornare, torna a costei che celare non ha saputo il vostro amore; se la fortuna vuogli che a me sia contraria, che forse secondo la tua oppinione l’ho meritato, non nocciano all'altre li miei peccati. Torna almeno ad esse, e serva loro la promessa fede forse prima che a me; non volere, per far noia a me, offenderne tante quante io credo che in isperanza qua n'abbi lasciate, né possa costà una sola piú che qua molte. Cotesta è oramai tua, né può, volendo, non essere; dunque, lei sicuramente lasciando, vieni, acciò che quelle, che non tue si possono fare, per tue con la tua presenza le conservi».
       Dopo questi molti parlari e vani, però che né l'orecchie degl’iddii toccavano né quelle del giovine ingrato, avveniva alcuna volta che io subitamente mutava consiglio, dicendo:
       «O misera, perché disideri tu che Panfilo qui torni? Credi tu con maggiore pazienza sostenere vicino quello che gravissimo t'è lontano? Tu disideri il tuo danno. E cosí come ora in forse dimori che egli t'ami o no, cosí, lui tornando, potresti divenire certa che non per te, ma per altrui fosse tornato. Stiasi, e innanzi, essendo lontano, te tenga del suo amore in forse, che vegnendo vicino, del non amarti ti faccia certa. Sii almeno contenta che sola non dimori in cotali pene, e quello conforto piglia che i miseri sogliono fare nelle miserie accompagnati.»
       Egli mi sarebbe duro il potere, o donne, mostrare con quanta focosa ira, con quante lagrime, con quanta strettezza di cuore, io quasi ogni dí cotali pensieri e ragionamenti solessi fare; ma però che ogni dura cosa in processo di tempo si pur matura e ammollisce, avvenne che, avendo io piú giorni cotale vita tenuta, né potendo piú oltre nel dolore procedere che proceduta mi fossi, esso alquanto si cominciò a cessare. E tanto quanto egli della mente disoccupava, cotanto, fervente amore e tiepida speranza ne raccendevano, e cosí a poco a poco con esso il dolore dimorandovi, me fecero di voglia cambiare, e il primo disiderio di riavere il mio Panfilo ritornò. E quantunque in ciò mi fosse alcuna speranza di mai dover riaverlo contraria, tanto ne divenne maggiore il disio; e cosí come le fiamme da' venti agitate crescono in maggiore vampa, cosí amore, per li contrarii pensieri stati, tutte le sue forze contra di loro adoperate, si fece maggiore. Laonde delle cose dette súbito pentimento mi venne.
       Io, riguardando a quello a che m'avea l’ira condotta a dire, quasi come se udita m'avesse, mi vergognai, e lei forte biasimai, la quale ne' primi assalti con tanto fervore piglia gli animi, che alcuna verità a loro essere palese non lascia. Ma nondimeno quanto piú viene grave, tanto piú in processo di tempo diventa fredda, e lascia chiaro conoscere quelle che seco male ha fatte adoperare; e riavuta la debita mente, cosí incominciai a dire:
       - O stoltissima giovine, di che cosí ti turbi? Perché senza certa cagione in ira t'accendi? Posto che vero sia ciò che il mercatante disse, il che è forse non vero, cioè che egli abbia moglie sposata, è questo cosí gran fatto e cosa nuova, o che tu non dovessi sperare? Egli è di necessità che i giovini in cosí fatte cose compiacciane a’ padri. Se il padre ha voluto questo, con che colore il potea esso negare? E credere dei che né tutti coloro che moglie prendono e che l’hanno, l'amano, come fanno dell'altre donne: la soperchia copia che le mogli fanno di sé a’ loro mariti, è cagione di tostano rincrescimento, quando pure nel principio sommamente piacesse, e tu non sai quanto costei sipiaccia. Forse che sforzato Panfilo la prese e, amando ancora te piú di lei, gli è noia d'essere con essa; e se ella gli pur piace, tu puoi sperare che ella gli rincrescerà tosto. E certo della sua fede e de' suoi giuramenti tu non ti puoi con ragione biasimare, però che egli a te tornando nella tua camera l'uno e l'altro adempie.
       Priega adunque Iddio che Amore, il quale piú che saramento o promessa fede puote, il costringa a tornarci. E oltre a questo, perché per la turbazione della giovine di lui prendi sospetto? Non sai tu quanti giovini te amano invano, i quali, sappiendo te essere di Panfilo, senza dubbio si turberebbero? Cosí dei credere possibile lui essere amato da molte, alle quali pare duro di lui udire quello che a te dolse, benché per diverse ragioni a ciascuna ne incresca.
       E in cotale modo me medesima dimentendo quasi in sulla prima speranza tornando, dove molte bestemmie mandate aveva, con orazioni supplico in contrario.
       Questa speranza in cotal guisa tornata, non avea però forza di rallegrarmi, anzi con tutta essa con turbazione continua e nell'animo e nell'aspetto era veduta, e io medesima non sapeva che farmi. Le prime sollecitudini erano fuggite; io avea nel primo impeto della mia ira gittate via le pietre, le quali de' giorni stati erano memorevoli testimonie, e aveva arse le lettere da lui ricevute, e molte altre cose guastate. Il rimirare il cielo piú non mi gradiva, sí come a colei che incerta era della tornata allora, sí come certa me ne pareva essere avanti. La volontà del favoleggiare se n'era ita, e il tempo, che molto aveva le notti abbreviate, nol concedea, le quali sovente, o tutte o gran parte di loro, io passava senza dormire, continuamente o piagnendo o pensando passandole; e qualora pure avveniva che io dormissi, diversamente era da' sogni occupata, alcuna lieti vegnenti, e alcuna tristissimi. Le feste e i templi m'erano noievoli, né mai se non di rado, quasi non potendo altro fare, li visitava. E il mio viso, palido ritornato, faceva tutta malinconiosa la casa mia, e da varii variamente di me parlare: e cosí, aspettando, e quasi che non sappiendo, malinconica e trista mi stava.
       Li miei dubbiosi pensieri il piú mi traevano tutto il giorno incerta di dolermi o di rallegrarmi; ma vegnendo la notte, attissimo tempo alli miei mali, trovandomi nella mia camera sola, avendo prima e pianto e molte cose con meco dette, quasi mossa da consiglio migliore, le mie orazioni a Venere rivolgea, dicendo:
       - O del cielo bellezza speciale, o pietosissima dèa, o santa Venere, la cui effigie nel principio de’ miei affanni in questa camera fu manifesta, porgi conforto alli miei dolori, e per quello venerabile e intrinseco amore che tu portasti ad Adone, mitiga li miei mali. Vedi quanto per te io tribulo; vedi quante volte per te la terribile imagine della morte sia già stata innanzi agli occhi miei; vedi se tanto male ha la mia pura fede meritato, quanto io sostegno. Io, lasciva giovine, non conoscendo li tuoi dardi, al primo tuo piacere senza disdire mi ti feci suggetta. Tu sai quanto per te mi fu promesso di bene, e certo io non niego che parte già non n'avessi; ma, se questi affanni che tu mi dài, di quel bene parte s'intendono perisca il cielo e la terra ad un'otta, e rifacciansi col mondo che seguirà le leggi nuove a queste simili. Se egli è pur male, come a me il pare sentire, venga, o graziosa dèa, il bene promesso, acciò che la santa bocca non si possa dire come gli uomini avere apparato a mentire.
       Manda il tuo figliuolo con le sue saette e con le tue fiaccole al mio Panfilo, là dove egli ora da me dimora lontano, e lui se forse per non vedermi nel mio amore è raffreddato, o di quello d'alcun'altra è fatto caldo, rinfiammilo per tal maniera che, ardendo come io ardo, niuna cagione il ritenga che egli non torni, acciò che io, riprendendo conforto, sotto questa gravezza non muoia. O bellissima dèa, vengano le mie parole a’ tuoi orecchi, e se lui riscaldar non vuoi, trai a me di cuore i dardi tuoi acciò che io, cosí come egli, possa senza tante angoscie passare li giorni miei.
       In questi cosí fatti prieghi, ancora che vani gli vedessi poi riuscire, pure allora quasi essauditi credendomi, alquanto con isperanza alleviava il mio tormento, e nuovi mormorii ricominciando, diceva:
       - O Panfilo, dove se’ tu ora? Deh, che fai tu ora? Hatti la tacita notte senza sonno e con tante lagrime quante me, o forse nelle braccia ti tiene della giovine male per me udita? O pure senza alcuno ricordo di me soavissimamente dormi? Deh, come può questo essere che Amore due amanti con disiguali leggi governi, ciascuno ferventemente amando, come io fo, e forse come tu fai? Io non so, ma se cosí è, che quelli pensieri te, che me, occupino quali prigioni e quali catene ti tengono, che quelle rompendo a me non torni? Certo io non so chi mi potesse tenere di venire a te, se lamia forma sola, la quale senza dubbio d'impedimento e di vergogna in piú luoghi mi sarebbe cagione, non mi tenesse. Qualunque affari, qualunque altre cagioni costà trovasti, già deono essere finite; e il tuo padre, già di te dee essere sazio, il quale, come gl’iddii sanno, io priego sovente per la sua morte, fermamente credendo lui cagione della tua dimora; e se cosí non è, almeno del tormiti pur fu. Ma io non dubito che, della morte pregando, non gli si prolunghi la vita, tanto mi sono gl’iddii contrarii e male essaudevoli in ogni cosa. Deh, vinca il tuo amore, se cotale è quale essere solea, le sue forze, e vienne. Non pensi tu me sola gran parte delle notti giacere, nelle quali tu fida compagnia mi faresti, se tu ci fossi, come già facesti? Ohimè! quante il passato verno lunghissime senza te fredda nel grandissimo letto, sola n’ho trapassate! Deh, ricòrditi de' varii diletti da noi molte volte in varie cose presi de' quali ricordandoti tu, sono certa niuna altra donna mai mi ti potrà tòrre. E quasi questa credenza piú che altra mi rende sicura che falsa sia l'udita novella della nuova sposa, la quale, ancora che vera fosse, non spero mi ti potesse tòrre, se non un tempo. Dunque ritorna; e se i graziosi diletti non hanno forza di qua tirarti, tíritici il volere da morte turpissima liberare colei che sopra tutte le cose t'ama. Ohimè! che se tu ora tornassi, appena ch'io creda che tu mi riconoscessi, sí m’ha trasformata l'angoscia. Ma certo ciò che infinite lagrime m’hanno tolto, brieve letizia, vedendo il tuo bel viso, mi renderebbe, e senza fallo tornerei quella Fiammetta che già fui.
       Deh vieni, vieni, ché ’l cuor ti chiama: non lasciar perire la mia giovinezza presta a' tuoi piaceri. Ohimè! ch'io non so con che freno io temperassi la mia letizia, se tu tornassi, in modo che a tutti manifesta non fosse; per che io, e meritamente, dubito che ’l nostro amore, lungamente e con grandissimo senno e sofferenza celato, non si scoprisse a ciascuno. Ma ora pur venissi tu a vedere, se cosí ne’ prosperi casi come negli avversi l’ingegnose bugie avessero luogo! Ohimè! or fossi tu già venuto, e se meglio non potesse essere, sapesselo chi volesse, ché a tutto mi crederei dare riparo.
       E questo detto, quasi come se egli le mie parole avesse intese súbito mi levava e correva alla finestra, me nell'estimazione ingannando d’udire quello che io udito non avea, cioè che egli la nostra porta toccasse, come era usato. Oh quante volte, se i solleciti amanti avessero saputo questo, forse sarei stata potuta ingannare, se alcuno malizioso sé Panfilo avesse finto a cotali punti! Ma poi che la finestra aperta aveva, e riguardata la porta, gli occhi del conosciuto inganno mi faceano piú certa; e cotale la vana letizia in me con turbazione súbita si volgeva, quale, poi che il forte albero rotto da' potenti venti con le vele ravviluppate in mare a forza da quelli è trasportato, la tempestosa onda cuopre senza contrasto il legno periclitante. E nel modo usato alle lagrime ritornando, miseramente piango, e isforzandomi poi di dare alla mente riposo con gli occhi chiusi allettando gli umidi sonni, tra me médesima in cotal guisa gli chiamo:
       «O Sonno, piacevolissima quiete di tutte le cose, e degli animi vera pace, il quale ogni cura fugge come nemico, vieni a me, e le mie sollecitudini alquanto col tuo operare caccia del petto mio. O tu, che i corpi ne’ duri affanni gravati diletti, e ripari le nuove fatiche, come non vieni? Deh, tu dài ora a ciascun altro riposo: donalo a me, piú che altra di ciò bisognosa. Fuggi degli occhi alle liete giovini, le quali ora tenendo i loro amanti in braccio nelle palestre di Venere essercitandosi, te rifiutano e odiano, ed entra negli occhi miei, che sola e abandonata, e vinta dalle lagrime e da' sospiri dimoro. O domatore de’ mali e parte migliore dell'umana vita, consolami di te, e lo stare a me lontano riserva quando Panfilo co' suoi piacevoli ragionari diletterà le mie avide orecchie di lui udire. O languido fratello della dura morte, il quale le false cose alle vere rimescoli, entra negli occhi tristi! Tu già i cento d'Argo volenti vegghiare occupasti; deh, occupa ora i miei due che ti disiderano! O porto di vita, o di luce riposo, e della notte compagno, il quale parimente vieni grazioso agli eccelsi re e agli umili servi, entra nel tristo petto, e piacevole alquanto le mie forze ricrea. O dolcissimo Sonno, il quale l'umana generazione pavida della morte costrigni ad apparare le sue lunghe dimore, occupa me con le forze tue e da me caccia gl’insani movimenti, ne quali l'animo se medesimo senza pro fatica».
       Egli, piú pietoso che alcuno altro iddio a cui io porga prieghi, avvegna che indugio ponga alla grazia chiesta da' prieghi miei, pure dopo lungo spazio, quasi piú a servirmi costretto che volonteroso, pigro viene, e senza dire alcuna cosa, non avvedendomene io, sottentra al lasso capo, il quale di lui bisognoso, quello volonteroso pigliando, tutto in lui si ravvolge.
       Non viene, posto che il sonno venga, però in me la disiata pace, anzi, in luogo de’ pensieri e delle lagrime, mille visioni piene d'infinite paure mi spaventano. Io non credo che niuna furia rimanga nella città di Dite, che in diversi modi e terribili già piú volte mostrata non mi si sia, diversi mali minacciando, e spesso col loro orribile aspetto li miei sonni rotti, di che io quasi, per non vederle, mi sono con tentata. E poche sono brievemente state quelle notti, dopo la male udita novella della menata sposa, che rallegrata m'abbiano dormendo, come davanti mostrandomi lietamente il mio Panfilo assai sovente solean fare: il che senza modo mi doleva, e ancora duole.
       Di tutte queste cose, delle lagrime e del dolore dico, ma non della cagione, s'avvedea il caro marito; e considerando il vivo colore del mio viso in palidezza essere cambiato, e gli occhi piacevoli e lucenti veggendo di purpureo cerchio intorniati e quasi della mia fronte fuggiti, molte volte già si maravigliò perché fosse; ma pure veggendo me e il cibo e il riposo avere perduto, alcuna volta mi dimandò che fosse di ciò la cagione. Io gli rispondea lo stomaco averne colpa, il quale, non sappiendo io per quale cagione guastatomisi, a quella deforme magrezza m'avea condotta. Ohimè! che egli intera fede dando alle mie parole, il mi credeva, e infinite medicine già mi fece apparecchiare; le quali io per contentarlo usava, non per utile che di quelle aspettassi. E quale alleviamento di corpo puote le passioni dell'anima alleviare? Niuno credo; forse che quelle dell'anima via levate potrebbero il corpo alleviare. La medicina utile al mio male non era piú che una, la quale troppo era lontana a potermi giovare.

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continuazione 1 del 5 capitolo



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Ultimo aggiornamento: 06 febbraio 1998