Giovanni Boccaccio
Elegia di Madonna Fiammetta
Capitolo VIII.
Nel quale Madonna Fiammetta le pene sue con quelle di molte antiche donne commensurando, le sue maggiori che alcune altre essere dimostra, e poi finalmente a' suoi lamenti conchiude.
Sono adunque, o pietosissime
donne, rimasa in cotale via, qual voi potete nelle cose udite presumere; e tanto opera
più verso me che l'usato il mio ingrato signore, che quanto più vede la speranza da me
fuggire, tanto più con disiderii soffiando nelle sue fiamme, le fa maggiori; le quali
come crescono, così le mie tribulazioni s'aumentano; ed esse mai da unguento debito non
essendo allenite, più ognora inaspriscono e, più aspre, più affliggono la trista mente.
Né dubito che ad esse secondo il loro còrso seguendo, che già esse alla mia morte da me
tanto per addietro disiderata con dicevole modo avessero aperta la via; ma avendo io ferma
speranza posta di dovere, come già dissi, nel futuro viaggio rivedere colui che di ciò
m'è cagione, non di mitigarle m'ingegno, ma piuttosto di sostenerle. Alla qual cosa fare
solo un modo possibile ho trovato intra gli altri, il quale è le mie pene con quelle di
coloro che sono dolorosi passati commensurare, e in ciò mi seguitano due acconci: l'uno
è che sola nelle miserie non mi veggio né prima, come già confortandomi la mia nutrice
mi disse; l'altro è che, secondo il mio giudicio, compensata ogni cosa degli altrui
affanni, li miei ogni altri trapassare di gran lunga dilibero; il che a non piccola gloria
mi reco, potendo dire che io sola sia colei, che viva abbia sostenute più crudeli pene
che alcuna altra. E con questa gloria, fuggita sì come somma miseria da ognuno e da me,
se io potessi, al presente in cotale guisa quale udirete il tempo malinconosa trapasso.
Dico adunque che ne' miei dolori affannata gli altrui
ricercando, primieramente gli amori della figliuola d'Inaco, la quale io morbida e vezzosa
donzella primieramente figuro, quindi la sua felicità, sentendosi amata da Giove, con
meco penso: la qual cosa ad ogni donna per sommo bene senza dubbio dovria essere assai;
quindi lei trasmutata in vacca e guardata da Argo ad instanzia di Giunone rimirandola, in
grandissima ansietà oltremodo essere la credo. E certo io giudico li suoi dolori li miei
in molto avanzare, se ella non avesse avuto continuamente a sua protezione l'amante iddio.
E chi dubita, se io il mio amante avessi aiutatore ne' danni miei, o pure di me pietoso,
che pena niuna mi fosse grave? Oltre a ciò il fine di costei fa le sue passate fatiche
levissime, però che, morto Argo, con grave corpo leggierissimamente trasportata in
Egitto, e, quivi in propria forma tornata e maritata ad Osiri, felicissima reina si vide.
Certo se io potessi sperare pure nella mia vecchiezza rivedere mio il mio Panfilo, io
direi le mie pene non essere da mescolare con quelle di questa donna; ma solo Iddio il sa
se essere dee, come che io con isperanza falsa me stessa di ciò inganni.
Appresso costei, mi si para davanti l'amor della sventurata
Biblìs, la quale ogni suo bene mi pare vederli lasciare, e seguitare il non pieghevole
Cauno. E con questa insieme considero la scelerata Mirra, la quale, dopo li suoi mal
goduti amori, fuggendo la morte dall'adirato padre minacciatale, in quella, misera,
incappò. Veggio ancora la dolorosa Canace, a cui, dopo il miserabile parto mal conceputo,
niuna altra cosa che 'l morir fu conceduto; e meco stessa pensando bene all'angoscia di
ciascheduna, senza niuno dubbio grandissima la discerno, avvegna che abominevoli fossero
li loro amori. Ma se bene considero, io le veggo finite, o per finire in corto spazio,
però che Mirra nell'albero del suo nome, avendo gl'iddii secondi al suo disio, senza
alcuno indugio fuggendo, fu permutata, né più (posto che egli sempre lagrimi, sì come
ella, allora che mutò forma, faceva) alcuna delle sue pene sente; e così come la cagione
da dolersi le venne, così quella le giunse che le tolse la doglia. Biblìs similmente,
secondo che alcuno dice, col capestro le terminò senza indugio, avvegna che altri tenga
che ella, per beneficio delle ninfe pietose de' suoi danni, in fonte, ancora il suo nome
servante, si convertisse; e questo avvenne, come conobbe a sé da Cauno negato del tutto
il suo piacere. Che dunque dirò, mostrando la mia pena molto maggiore che quella di
queste donne, se non che la brevità della loro è dalla mia molto lunga avanzata?
Considerate adunque costoro, mi viene la pietà dello
sfortunato Piramo e della sua Tisbe, a' quali io porto non poca compassione, imaginandoli
giovinetti, e con affanno lungamente avere amato, ed essendo per congiugnere i loro disii,
perdere se medesimi. Oh, quanto è da credere che con amara doglia fosse il giovinetto
trafitto nella tacita notte, sopra la chiara fontana appiè del gelso trovando li
vestimenti della sua Tisbe laniati da salvatica fiera e sanguinosi, per li quali segnali
egli meritamente lei divorata comprese! Certo l'uccidere se medesimo il dimostra. Poi, in
me rivolgendo i pensieri della misera Tisbe guardante davanti da sé il suo amante pieno
di sangue, e ancora con poca vita palpitante, quelli e le sue lagrime sento, e sì le
conosco cocenti, che appena altre più che quelle, fuori che le mie, mi si lascia credere
che cuocano, però che questi due, sì come li già detti, nel cominciare de' loro dolori
quelli terminarono. Oh, felici anime le loro, se così nell'altro mondo s'ama come in
questo! Niuna pena di quello si potrà adeguare al diletto della loro etterna compagnia.
Vienmi poi innanzi, con molta più forza che alcuno altro,
il dolore dell'abandonata Dido, però che più al mio simigliante il conosco quasi che
altro alcuno. Io imagino lei edificante Cartagine, e con somma pompa dare leggi nel tempio
di Giunone a' suoi popoli, e quivi benignamente ricevere il forestiere Enea naufrago, ed
essere presa della sua forma, e sé e le sue cose rimettere nell'arbitrio del troiano
duca; il quale, avendo le reali delizie usate al suo piacere, e lei di giorno in giorno
più accesa del suo amore, abandonatala si diparte. Oh quanto senza comparazione mi si
mostra miserevole, mirando lei riguardante il mare pieno di legni del fuggente amante! Ma
ultimamente, più impaziente che dolorosa la tengo, considerando alla sua morte. E certo
io nel primo partire di Panfilo sentii per mio avviso quel medesimo dolore, che nella
partita di Enea; così avessero allora gl'iddii voluto che io poco sofferente mi fossi
subitamente uccisa! Almeno, sì come lei, sarei stata fuori delle mie pene, le quali poi
continuamente sono diventate maggiori.
Oltre a questi pensieri miserabili mi si para davanti la
tristizia della dolente Ero di Sesto, e vedere la mi pare discesa dell'alta torre sopra li
marini liti, ne' quali essa era usata di ricevere il faticato Leandro nelle sue braccia, e
quivi con gravissimo pianto la mi pare vedere riguardare il morto amante sospinto da uno
dalfino, ignudo giacere sopra la rena, e poi essa con li suoi vestimenti asciugare il
morto viso della salata acqua, e bagnarlo di molte lagrime. Ahi! con quanta compassione mi
strigne costei nel pensiero! In verità con molta più che nessuna delle donne ancora
dette, tanto che talvolta fu che, obliati li miei dolori, de' suoi lagrimai. E ultimamente
alla sua consolazione modo alcuno io non conosco, se non de' due l'uno: o morire, o lui,
sì come gli altri morti si fanno, dimenticare. Qualunque di questi si prende, è il
dolore finire; niuna cosa perduta, la quale di riavere non si possa sperare, può
lungamente dolere. Ma cessi Iddio, però, che questo avvenga a me; il che se pure
avvenisse, niuno consiglio se non la morte ci piglierei. Ma mentre che il mio Panfilo
vive, la cui vita lunghissima facciano gl'iddii come egli stesso disia, non mi puote
quello avvenire, però che, veggendo le mondane cose in continuo moto, sempre mi si lascia
credere che egli alcuna volta debba ritornare mio, sì come egli fu altra fiata; ma questa
speranza non venendo ad effetto, gravissima fa la mia vita continuamente, e però me di
maggior doglia gravata tengo.
Ricordami alcuna volta avere letti li franceschi romanzi,
a' quali se fede alcuna si puote attribuire, Tristano e Isotta oltre ad ogni altro amante
essersi amati, e con diletto mescolato a molte avversità avere la loro età più giovine
essercitata dobbiamo credere; li quali, però che molto amandosi insieme vennero ad un
fine, non pare che si creda che senza grandissima doglia e dell'uno e dell'altro li
mondani diletti abandonassero: il che agevolmente si può concedere, se essi con credenza
si partirono del mondo, che altrove questi diletti non si potessero avere; ma se questa
oppinione ebbero d'essere altrove, come di qua erano, piuttosto a loro nel loro morire
letizia si dee credere che tristizia la ricevuta morte, la quale, benché da molti sia
fierissima e dura tenuta, non credo che sia così. E che certezza di doglia puote uno
rendere, testimoniando cosa che egli non provò mai? Certo niuna. Nelle braccia di
Tristano era la morte di sé e della sua donna: se quando strinse gli fosse doluto, egli
avrebbe aperte le braccia, e saria cessato il dolore. E oltre a ciò, diciamo pure che
gravissima sia ragionevolmente: che gravezza diremo noi che possa essere in cosa che non
avvenga se non una volta, e quella occupi pochissimo spazio di tempo? Certo niuna.
Finirono adunque Isotta e Tristano ad un'ora li diletti e le doglie, ma a me molto tempo
in doglia incomparabile è sopra gli avuti diletti avanzato.
Aggiugne ancora il mio pensiero al numero delle predette la
misera Fedra, la quale, col suo mal consigliato furore, fu cagione di crudelissima morte a
colui il quale ella più che se medesima amava. E certo io non so quello che a lei si
seguì di cotale fallo, ma certa sono, se a me mai avvenisse, niuna altra cosa che
rapinosa morte il purgherebbe; ma se essa pure in vita si sostenne così come già dissi,
agevolmente il mise in oblio, come mettere si sogliono le cose morte.
E oltre a ciò con costei accompagno la doglia che sentì
Laudomia, e quella di Deifile e d'Argìa e di Evannes e di Deianira e d'altre molte, le
quali o da morte o da necessaria dimenticanza furono racconsolate. E che può cuocere il
fuoco, o il caldo ferro, o li fonduti metalli a chi dentro subitamente vi tuffa il dito, e
sùbito fuori nel trae? Senza dubbio credo che molto, ma nulla è a rispetto di chi per
lungo spazio vi sta dentro con tutto il corpo; il che a quante ne ho di sopra in pene
discritte, si può dire il simigliante essere incontrato nelle loro doglie, là dove io in
esse sono stata e sto continuamente.
Sono state le predette noie amorose; ma, oltre a queste,
lagrime non meno triste mi si parano davanti, mosse da miserabili e inoppinati assalti
della fortuna, se quello è vero che egli sia generazione di sommo infortunio l'essere
stato felice. E queste sono quelle di Giocasta, d'Ecuba, di Sofonisba, di Cornelia e di
Cleopatras. Oh quanta miseria, bene investigando di Giocasta gli avvenimenti, vedremo noi
avvenuta tutta a lei pertinente ne' giorni suoi, possibile a turbare ogni forte animo!
Ella, giovine maritata a Laio re tebano, il primo suo parto convenne che alle fiere
mandasse a divorare, credendo per quello il misero padre fuggire quello che li cieli con
còrso infallibile gli apprestavano. Oh chente dolore dobbiamo pensare che questo fosse, e
maggiore pensando il grado di colei che mandava! Ella poi da' portanti il tristo figliuolo
certificata di ciò che fatto aveano, lui reputando morto, dopo certo tempo da colui
medesimo cui ella avea partorito le fu il marito miseramente ucciso, e del non conosciuto
figliuolo divenne sposa, e generògli quattro figliuoli; e così madre e moglie ad un'ora
del patricida si vide, e 'l riconobbe poi che egli, del regno e degli occhi privatosi
insiememente, la sua colpa fece palese.
Chente l'animo di lei già d'anni piena allora fosse,
essendo più di riposo vaga che di angoscia? Pensare si può che fosse dolorosissimo; ma
la sua fortuna, ancora non perdonante, più guai aggiunse alla sua miseria. Ella vide con
patti tra' due figliuoli del regnare diviso il tempo, poi al non servante fratello nella
città rinchiuso vide dintorno gran parte di Grecia sotto sette re, e ultimamente l'uno
l'altro de' due figliuoli, dopo molte battaglie e incendii, vide uccidere, e sotto altro
reggimento, scacciato il marito figliuolo, vide cadere le mura antiche della sua terra
edificate al suono della cetara d'Anfione, e perire il regno suo; e impiccatasi, in forse
lasciò le figliuole di vituperevole vita. Che poterono più gl'iddii, il mondo e la
fortuna contro a costei? Certo nulla mi pare: cerchisi tutto lo 'nferno, appena che in
esso tanta miseria si trovi. Ogni parte d'angoscia provò, e così di colpa. Niuna sarebbe
che giudicasse la mia potere a questa aggiugnere; e certo io direi che così fosse se ella
non fosse amorosa. Chi dubita che costei, sé e la sua casa e il marito degni dell'ira
degl'iddii conoscendo, non reputasse li suoi accidenti degni? Certo niuno che lei senta
discreta. Se ella fu pazza, vie meno li suoi danni conobbe, li quali non conoscendo, non
le dolevano. E chi sé degno conosce del male che egli sostiene, senza noia, o con poca,
il comporta.
Ma io mai non commisi cosa onde giustamente verso me si
potessero o dovessero turbare gl'iddii: continuamente gli ho onorati, e con vittime sempre
la loro grazia ho cercata, né sono di quelli stata dispregiatrice, come già furono li
Tebani. Bene potrebbe forse dire alcuna: «Come di' tu non avere meritata ogni pena né
mai avere fallito? Or non hai tu rotte le sante leggi e con adultero giovine violato il
matrimoniale letto?» Certo sì. Ma, se bene si guarderà, questo fallo solo è in me, il
quale però non merita queste pene, ché pensare si dee me tenera giovine non potere
resistere a quello che gl'iddii e li robusti uomini non poterono. E in questo io non sono
prima, né sarò ultima, né sono sola, anzi quasi tutte quelle del mondo ho in compagnia,
e le leggi contro alle quali io ho commesso, sogliono perdonare alla multitudine.
Similmente la mia colpa è occultissima, la qual cosa gran parte dee della vendetta
sottrarre. E oltre a tutto questo, posto che gl'iddii pure debitamente contro a me
crucciati fossero, e vendetta del mio fallo cercassero, non saria da commettere il pigliar
la vendetta a colui che del peccato m'è stato cagione. Io non so chi mi condusse a
rompere le sante leggi, o Amore o la forma di Panfilo: qualunque si fosse, l'uno e l'altro
avea maggiori forze a tormentarmi aspramente, sì che già questo non m'avvenne per lo
fallo commesso, anzi è un dolore nuovo e diviso dagli altri, più aspramente che alcuno
tormentante il suo sostenitore; il quale ancora se per lo peccato commesso mel dessero
gl'iddii, essi fariano contro al loro diritto giudicio e usato costume, ché essi non
compenserieno col peccato la pena; la quale, se a' peccati di Giocasta si mira e alla pena
data, e al mio e alla pena che io soffero si guarda, ella poco punita, e io di soperchio
sarò conosciuta.
Né a questo s'appicchi alcuna, dicendo a lei privato il
regno, i figliuoli e il marito, e ultimamente la propria persona essere stato, e a me
solamente l'amante. Certo io il confesso; ma la fortuna con questo amante trasse ogni
felicità, e ciò che forse alla vista degli uomini m'è felice rimaso, è il contrario,
però che il marito, le ricchezze, li parenti e l'altre cose tutte mi sono gravissimo
peso, e contrarie al mio disio; le quali se come l'amante mi tolse m'avesse tolte, a
fornire il mio disio mi rimaneva apertissima via, la quale io avrei usata; e se fornire
non l'avessi potuta, mille generazioni di morte m'erano presenti a potere usare per
termine de' miei guai. Dunque più gravi le pene mie che alcuna delle predette meritamente
giudico.
Ecuba appresso vegnente nella mia mente, oltre modo mi pare
dolorosa, la quale sola rimase a vedere le dolenti reliquie scampate di sì gran regno, di
sì mirabile città, di sì fatto marito, di tanti figliuoli, di tante figliuole e così
belle, di tante nuore, di tanti nipoti e di così grande ricchezza, di tanta eccellenza,
di tanti tagliati re, di così crudeli opere, e dello sperso popolo troiano, de' caduti
templi, de' fuggiti iddii, vecchia mirandole; e nella memoria riducendo chi fosse il
potente Ettore, chi Troiolo, chi Deifebo e chi Polidoro, chi gli altri e come miseramente
tutti li vedesse morire; tornandosi a mente il sangue del suo marito, poco avanti
reverendo e da temere da tutto il mondo, spandere nel tristo grembo, e l'avere veduta
Troia d'altissimi palagi e di nobile popolo piena, accesa di greco fuoco e abbattuta
tutta; e oltre a ciò il misero sacrificio fatto da Pirro della sua Pulissena, con quanta
tristizia si dee pensare che il riguardasse? Certo con molta. Ma brieve fu la sua doglia;
ché la debole e vecchia mente, non potendo ciò sostenere, in lei smarritasi, la rendé
pazza, sì come il suo latrare per li campi fe' manifesto.
Ma io con più ferma e più sostenente memoria che non mi
bisogna, a mio danno, continuo rimango nel tristo senno, e più discerno le cagioni da
dolermi; per che, più lungamente perseverando in male, come io fo, estimo quello,
quantunque leggiero sia, da parere molto più grave, sì come più volte ho già detto,
che il gravissimo il quale in brieve tempo si finisce e termina.
Sofonisba, mescolata tra l'avversità del vedovatico e le
letizie delle nozze, in un medesimo momento di tempo dolente e lieta, prigione e sposa,
spogliata del regno e rivestitane, e ultimamente in queste medesime brievi permutazioni
bevente il veleno, piena di noiosa angoscia m'apparisce. Videsi costei reina altissima dei
Numidi; quindi, andando avversamente le cose de' suoi parenti, vide preso Siface suo
marito, e prigione divenire di Massinissa re, e ad un'ora caduta del regno, e prigione del
nemico nel mezzo dell'armi, facendolasi Massinissa moglie, in quello restituita. Oh, con
quanto sdegno d'animo si dee credere che ella queste mutabili cose mirasse, né sicura
dalla volubile fortuna, con tristo cuore celebrasse le nuove nozze! Il che il suo ardito
finire assai chiaro dimostra; però che non essendo dopo le sue sponsalizie ancora uno dì
naturale valicato, appena credendosi ella rimanere nel reggimento e seco di ciò
combattente, non accostandosi ancora al suo animo il nuovo amore di Massinissa, come
l'antico di Siface, ricevette dal servo, mandato dal nuovo sposo, con ardita mano lo
stemperato veleno, e quello, premesse sdegnose parole, senza paura bevve, poco appresso
rendendo lo spirito. Oh, quanto amara si puote immaginare che stata saria la vita di
costei, se spazio avesse avuto di pensare! La quale però tra le poco dolenti è da porre,
considerando che la morte quasi prevenne alla sua tristizia, dove ella a me ha prestato
tempo lunghissimo, e presta oltre a mia voglia, e presterà, per farla maggiore.
Dietro a questa, così piena di tristizia come fu, mi si
para Cornelia, la quale la fortuna avea tanto levata in alto, che prima di Crasso, e poi
moglie del magno Pompeo, il cui valore quasi sommo principato in Roma avea acquistato, si
vide; la quale prima di Roma, poi di tutta Italia quasi in fuga, rivolgendo la fortuna le
cose, col marito da Cesare seguitato miseramente uscì, e dopo molti casi in Lesbo
lasciata da lui, quivi lui medesimo sconfitto in Tessaglia, e le sue forze dal suo
avversario abbattute, ricevette. E oltre a tutto questo, lui ancora con isperanza di
rintegrare la sua potenza nel conquistato Oriente, il mare solcando, ne' regni d'Egitto
arrivato, da lui medesimo conceduti al giovine re, seguitò, e quivi il suo busto senza
capo infestato dalle marine onde vide. Le quali cose ciascuna per sé, e tutte insieme,
dobbiamo pensare che senza comparazione afflissero l'anima sua; ma li sani consigli
dell'Uticense Catone, e la perduta speranza di più riaver Pompeo, lei in piccolo tempo di
molto poco renderono dogliosa, là dove io, vanamente sperando, né da me potendo questa
speranza cacciare, senza alcuno consiglio o conforto, fuor che della vecchia mia balia
consapevole de' miei mali, nella quale io conosco più fede che senno, perché spesso
credendomi dare alle mie pene rimedio, m'accresce doglia, dimoro piagnendo.
Sono ancora molti che crederebbero Cleopatras reina
d'Egitto pena intollerabile e oltre alla mia assai maggiore avere sofferta, però che
prima veggendosi col fratello insieme regnante e di ricchezza abondante, e da questo in
prigione messa, senza modo si crede dolente; ma questo dolore futura speranza di quel che
avvenne l'aiutò agevolmente a portare. Ma poi di prigione uscita e divenuta di Cesare
amica, e da lui poi abandonata, sono chi pensano ciò da lei con gravissimo affanno essere
passato, non riguardando essere corta noia d'amore in colui, o in colei, il quale a
diletto si può tòrre ad uno e darsi ad uno altro, come essa mostrò spesse volte di
potere. Ma cessi Iddio che in me mai tale consolazione possa avvenire! Egli non fu né fia
giammai, da colui in fuori di cui io ragionevolmente esser dovrei, chi potesse dire, o
possa, che io mai fossi sua, o sia, se non Panfilo; e sua vivo e viverò; né spero che
mai alcuno altro amore abbia forza di potermi il suo spegnere della mente. Oltre a ciò,
se ella di Cesare rimase sconsolata nel suo partire, sarebbero, chi non sapesse il vero,
di quelli che crederebbero ciò esserle doluto; ma egli non fu così; ché, se essa del
suo partire si doleva, d'altra parte con allegrezza avanzante ogni tristizia la
racconsolava l'esserle rimaso di lui uno figliuolo e il restituito regno. Questa letizia
ha forza di vincere troppo maggiori doglie che non sono quelle di chi lentamente ama, come
io già dissi che ella faceva.
Ma quello che per sua gravissima ed estrema doglia
s'aggiugne, è l'essere stata moglie d'Antonio; il quale ella con le sue libidinose
lusinghe avea a cittadine guerre incitato contro il fratello; quasi di quelle vittoria
sperando, aspirava all'altezza del romano imperio, ma venutale di ciò ad un'ora doppia
perdita, cioè quella del morto marito, e della spogliata speranza, lei dolorosissima
oltre ad ogni altra femina essere rimasa si crede. E certo, considerando sì alto
intendimento venire meno per una disavventurata battaglia, quale è il dovere essere
generale donna di tutto il circuito della terra, senza aggiugnervi il perdere così caro
marito, è da credere essere dolorosissima cosa; ma ella a ciò trovò subitamente quella
sola medicina che v'era a spegnere il suo dolore, cioè la morte; la quale ancora che
rigida fosse, non si distese però in lungo spazio, però che in piccola ora possono per
le poppe due serpenti trarre d'un corpo il sangue e la vita. Oh quante volte io, non
minore doglia sentendo di lei, posto che per minore cagione secondo il parere di molti,
avrei volontieri fatto il simigliante se io fossi stata lasciata, o pure paura di futura
infamia da ciò non m'avesse ritratta!
Con questa e con le predette m'occorrono la eccellenzia di
Ciro da Tamiris morto nel sangue; il fuoco e l'acqua di Creso; li ricchi regni di Persio;
la magnificenza di Pirro; la potenza di Dario; la crudeltà di Giugurta; la tirannia di
Dionisio; l'altezza d'Agamennone, e altri molti. Tutti da doglie simili alle predette o
furono stimolati, o altrui lasciarono sconsolati; li quali similmente furono da sùbiti
argomenti aiutati, né lungamente in quelle dimorando, sentirono intera la loro gravezza,
come io faccio.
Mentre che io vado agli antichi danni in cotal guisa, quale
avanti vedete, nella mia mente cercando per trovare lagrime o fatiche meritamente alle mie
simiglianti, acciò che avendo compagni mi dolga meno, mi vengono innanzi quelle di Tieste
e di Tereo, li quali amenduni furono misera sepultura de' loro figliuoli. E senza dubbio
io non conosco qual temperanza a' riluttanti figliuoli nelle interiora paterne per uscir
fuori, abominando il luogo donde erano entrati, di ritornarvi, ancora dubitando i crudeli
morsi, né avendo luogo per altra parte, li ritenne di loro aprire con li taglienti ferri.
Ma questi con ciò che poterono ad un'ora l'odio e il dolore sfogarono, e quasi ne' danni
prendevano conforto, sentendo che senza colpa erano tenuti miseri da' loro popoli: quello
che a me non avviene. A me è portata compassione di ciò onde io non ho doglia niuna, né
oso scoprire quello onde io mi doglio; la qual cosa se fare osassi, non dubito che, come
agli altri dolenti è stato alcuno rimedio, che a me similmente non si trovasse.
Vengonmi ancora nella mente talvolta le pietose lagrime di
Licurgo e della sua casa, meritamente avute del morto Archemoro, e con queste quelle della
dolente Atalanta madre di Partenopeo morto ne' tebani campi; e sì proprie a me con li
loro effetti s'accostano e sì mi si fanno conoscere, che appena più sapere le potrei, se
io non le provassi, come già da me un'altra volta provate furono. Dico che di tanta
mestizia sono piene, che più non potrebbero, ma ciascune con tanta gloria sono in etterno
ritratte, che quasi liete si potriano dire: quelle di Licurgo con le notabili essequie
onorate da sette re e da infiniti giuochi fatti da loro, e quelle d'Atalanta dalla
laudevole vita e morte vittoriosa del figliuolo. A me non è niuna cosa che le mie lagrime
bene impiegate faccia contente, però che se questo fosse, là dove io più che alcuna mi
chiamo dogliosa, e sono, forse al contrario affermare m'accosterei.
Mostranmisi ancora le lunghe fatiche d'Ulisse, e li mortali
pericoli, e gli strabocchevoli fatti essere a lui non senza gravissime angoscie d'animo
intervenute; ma in me ripetute più volte, le mie fanno più gravi estimare; e udite
perché. Egli prima e principalmente, uomo, dunque di natura più forte a sostenere di me
tenera giovine; egli robusto e fiero, sempre negli affanni e ne' pericoli usato, quasi
naturato fra loro, allora che egli faticava gli pareva avere sommo riposo; ma io nella mia
camera tra le morbide cose dilicata e usa di trastullarmi col lascivo amore, ogni piccola
pena m'è grave molto; egli da Nettuno stimolato e in varie parti portato, e da Eolo
similmente le sue fatiche ricevette; ma io sono infestata dal sollecito Amore, da signore
il quale già molestò e vinse coloro che infestarono Ulisse; e se a lui erano imminenti
li mortali pericoli, egli li andava cercando; e chi si può ramaricare, se egli trova
quello che cerca? Ma io misera volontieri viverei quieta, se io potessi; e quelli
fuggirei, se ad essi non fossi sospinta. Oltre a ciò, egli non temeva la morte, e però
sicuramente si metteva nelle sue forze, ma io la temo, e da doglia sforzata, alcuna volta
non senza speranza di grave doglia corsi verso lei. Egli ancora della sua fatica e
pericoli sperava etterna gloria e fama, ma io delle mie vituperio temo e infamia, se
avvenisse che si scoprissero. Sì che già non avanzano le sue le mie, anzi sono dalle mie
molto le sue avanzate; e in tanto più, in quanto di lui molto più che non fu se ne
scrive, ma le mie sono molto più che io non posso contare.
Dopo tutti questi, quasi da se medesimi riservati, come
molto gravi mi si fanno sentire i guai d'Isifile, di Medea, d'Oenone e d'Adriana, le
lagrime delle quali e i dolori assai con le mie simiglianti le giudico; però che ciascuna
di queste, dal suo amante ingannata, così come io, sparse lagrime, gittò sospiri, e
amarissime pene senza frutto sostenne; le quali, avvegna che, come è detto, sì come io
si dolessero, pure ebbero termine con giusta vendetta le lagrime loro, la qual cosa ancora
non hanno le mie. Isifile avvegna che molto avesse onorato Giasone, e suo per debita legge
se lo avesse obligato, veggendolsi da Medea tolto, come io posso, ragionevolmente si poté
dolere; ma la provvidenza degl'iddii con occhio giusto guardante ad ogni cosa, se non a
miei danni, le rendé gran parte della disiderata letizia, però che ella vide Medea, che
Giasone le aveva tolto, da Giasone per Creusa abandonata. Certo io non dico che la mia
miseria finisse, se questo vedessi a colei avvenire che m'ha tolto il mio Panfilo, eccetto
se io non fossi già colei che gliel togliessi, ma ben dico che gran parte mancherebbe di
quella. Medea similmente si rallegrò di vendetta, posto che essa così crudele divenisse
contro di sé, come contro lo 'ngrato amante, uccidendo li comuni figliuoli in presenza di
lui, ardendo li reali ostieri con la nuova donna. Oenone ancora, lungamente dolutasi, alla
fine sentì l'infedele e disleale amante avere sostenuta meritamente pena delle rotte
leggi, e la sua terra per la mal mutata donna vide in fiamme consumarsi miseramente. Ma
certo io amo meglio li miei dolori che cotal vendetta del mio.
Adriana ancora, divenuta moglie di Bacco, vide dal cielo
furiosa Fedra dell'amor del figliastro, la quale prima era stata consenziente al suo
abandonamento nell'isola per divenire di Teseo. Sì che, ogni cosa pensata, io sola tra le
misere mi trovo ottenere il principato, e più non posso.
Ma se forse, o donne, li miei argomenti frivoli già
tenete, e ciechi come da cieca amante li reputate, l'altrui lagrime più che le miei
infelici estimando, quest'uno solo e ultimo a tutti gli altri dea supplimento: se chi
porta invidia è più misero che colui a cui la porta, io sono di tutti li predetti de'
loro accidenti, meno miseri che li miei reputandoli, invidiosa.
Ecco, adunque, o donne, che per gli antichi inganni della
Fortuna io sono misera; e oltre a questo, essa, non altramente che come la lucerna vicina
al suo spegnersi suole alcuna vampa piena di luce maggiore che l'usato gittare, ha fatto;
però che, dandomi in apparenza alcuno rifrigerio, me poi nelle separate lagrime
ritornante, ha miserissima fatta. E acciò che io, proposta ogni altra comparazione, con
una sola m'ingegni di farvi certe de' nuovi mali, v'affermo con quella gravità che le
misere mie pari possono maggiore affermare, cotanto essere le mie pene al presente più
gravi, che esse avanti la vana letizia fosero, quanto più le febbri sogliono, con egual
caldo o freddo vegnendo, offendere li ricaduti inferni che le primiere. E perciò che
accumulazione di pene, ma non di nuove parole, vi potrei dare, essendo alquanto di voi
diventata pietosa, per non darvi più tedio in più lunga dimoranza traendo le vostre
lagrime, s'alcuna di voi forse leggendo n'ha sparte o spande, e per non ispendere il
tempo, che me a lagrimare richiama, in più parole, di tacere omai dilibero, faccendovi
manifesto non essere altra comparazione dal mio narrare verissimo a quello che io sento,
che sia dal fuoco dipinto a quello che veramente arde. Al quale io priego Iddio, che per
li vostri prieghi, o per li miei, sopra quello salutevole acqua mandi, o con trista morte
di me, o con lieta tornata di Panfilo.
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 06 febbraio 1998