Giovanni Boccaccio

Elegia di Madonna Fiammetta


Capitolo V

(Continuazione 1)

      Poi che l’ingannato marito vedea le molte medicine poco giovare, anzi niente, di me piú tenero che il dovere, da me in molte nuove e diverse maniere la mia malinconia s'ingegnava di cacciare via, e la perduta allegrezza restituire, ma invano le molte cose adoperava. Egli alcuna volta mi mosse cotali parole:
      - Donna, come tu sai, poco di là dal piacevole monte Falerno, in mezzo dell'antiche Cume e di Pozzuolo sono le dilettevoli Baie sopra li marini liti, del sito delle quali piú bello né piú piacevole ne cuopre alcuno il cielo. Egli di monti bellissimi tutti d'alberi varii e di viti coperti è circundato, fra le valli de' quali niuna bestia è a cacciare abile, che in quelle non sia; né a quelli lontana la grandissima pianura dimora, utile alle varie cacce de predanti uccelli e sollazzevole; quivi vicine l’isole Pittaguse e Nisida di conigli abondante, e la sepultura del gran Miseno, dante via a' regni di Plutone; quivi gli oracoli della Cumana Sibilla, il lago d'Averno, e 'l Teatro, luogo comune degli antichi giuochi, e le Piscine, e monte Barbaro, vane fatiche dello iniquo Nerone: le quali cose antichissime e nuove, a' moderni animi sono non piccola cagione di diporto ad andarle mirando. E oltre a tutte queste, vi sono bagni sanissimi ad ogni cosa e infiniti, e il cielo quivi mitissimo in questi tempi ci dà di visitarle materia. Quivi non mai senza festa e somma allegrezza con donne nobili e cavalieri si dimora. E però tu, non sana dello stomaco, e nella mente, per quel che io discerna, di molesta malinconia affannata, con meco per l'una sanità e per l'altra voglio che venghi; né fia fermamente senza utile il nostro andare.
      Io allora, queste parole udendo, quasi dubbiosa non nel mezzo della nostra dimora tornasse il caro amante, e cosí nol vedessi, lungamente penai a rispondere; ma poi, vedendo il suo piacere, imaginando che, vegnendo egli, esso dove che io fossi verrebbe, risposi me al suo volere apparecchiata, e cosí v'andammo.
      Oh, quanto contraria medicina operava il mio marito alle mie doglie! Quivi posto che i languori corporali molto si curino, rade volte o non mai vi s'andò con mente sana, che con sana mente se ne tornasse, non che l’inferme sanità v'acquistassero. E in verità di ciò non è maraviglia, ché o il sito vicino alle marine onde, luogo natale di Venere, che il dia, o il tempo nel quale egli piú s'usa, cioè nella primavera, sí come a quelle cose piú atto, che il faccia, non so; ma per quello che già molte volte a me paruto ne sia, quivi eziandio le piú oneste donne, posposta alquanto la donnesca vergogna, piú licenza in qualunque cosa mi pareva si convenisse, che in altra parte; né io sola di cotale oppinione sono, ma quasi tutti quelli che già vi sono costumati. Quivi la maggior parte del tempo ozioso trapassa, e qualora piú è messo in essercizio, si è in amorosi ragionamenti, o le donne per sé, o mescolate co’ giovini; quivi non s'usano vivande se non dilicate, e vini per antichità nobilissimi, possenti non che ad eccitare la dormente Venere, ma a risuscitare la morta in ciascuno uomo; e quanto ancora in ciò la virtú de’ bagni diversi adoperi, quegli il può sapere che l’ha provato; quivi i marini liti e i graziosi giardini e ciascun'altra parte sempre di varie feste, di nuovi giuochi, di bellissime danze, d'infiniti strumenti, d'amorose canzoni, cosí da giovini come da donne fatti, sonati e cantate risuonano. Tengasi adunque chi può quivi, tra tante cose, contra Cupido, il quale quivi, per quello che io creda, sí come in luogo principalissimo de’ suoi regni, aiutato da tante cose, con poca fatica usa le forze sue.
      In cosí fatto luogo, o pietosissime donne, mi solea il mio marito menare a guarire dell'amorosa febbre; nel quale, poi pervenimmo, non usò Amore vèr .me altro modo che vèr l'altre facesse; anzi l'anima che presa piú pigliare non si potea, alquanto, certo assai poco, rattiepidita, e per lo lungo dimorare lontano a me che Panfilo fatto aveva, e per le molte lagrime e dolori sostenuti, raccese in sí gran fiamma, che mai tale non mi ve la pareva avere avuta. E ciò non solamente dalle predette cagioni procedeva, ma il ricordarmi quivi molte volte essere stata da Panfilo accompagnata, amore e dolore, vedendomivi senza esso, senza dubbio nessuno mi cresceva. Io non vedea né monte né valle alcuna, che io da molti e da lui accompagnata, quando le reti portando, e quando i cani menando ponendo insidie alle selvatiche bestie, e pigliandone, non conoscessi per testimonio e delle mie e delle sue allegrezze essere stata. Niuno lito, né scoglio, né isoletta ancora si vedea, che io non dicessi: «Qui fui io con Panfilo, e cosí mi disse, e cosí quivi facemmo.» Similmente niun'altra cosa vedere vi potea, che prima non mi fosse cagione di ricordarmi con piú efficacia di lui, e poi di piú fervente disio di rivederlo o quivi o in altra parte, e ritornare in ieri.
      Come al caro marito aggradiva, cosí quivi varii diletti a prendere si cominciarono. Noi alcuna volta, levati prima che il giorno chiaro apparisse, saliti sopra i portanti cavalli, quando con cani e quando con uccelli e quando con amenduni, ne’ vicini paesi di ciascuna caccia copiosi, ora per l'ombrose selve e ora per gli aperti campi, solleciti n'andavamo; e quivi varie cacce vedendo, ancora che esse molto rallegrassero ciascuno altro, in me solo alquanto minuivano il mio dolore. E come alcuno bello volo o notabile córso vedeva, cosí mi ricorreva alla bocca: «O Panfilo, ora fossi tu qui a vedere, come già fosti!» Ohimè! Che infino a quel punto alquanto avendo con meno noia sostenuto e il riguardare e l'operare, per tale ricordarmi quasi vinta nel nascoso dolore, ogni cosa lasciava stare. Oh, quante volte e’ mi ricorda che in tale accidente già l'arco mi cadde e le saette di mano, nel quale, né in reti distendere o in lasciare cani, niuna che Diana seguisse fu piú di me ammaestrata giammai. E non una volta, ma molte, nel piú spesso uccellare qualunque uccello si fu a ciò convenevole, quasi essendo io a me medesima uscita di mente, non lasciandolo io, si levò volando delle mie mani; di che io, già in ciò studiosissima, quasi niente curava. Ma poi che ciascuna valle e ogni monte, e li spaziosi piani erano da noi ricercati, di preda carichi i miei compagni e io a casa ne tornavamo, la quale lieta per molte feste e varie trovavamo le piú volte.
      Noi alcuna volta sotto gli altissimi scogli sopra il mare estendentisi e facienti ombra graziosissima, sulle arene poste le mense con compagnia di donne e di giovini grandissima mangiavamo. Né prima eravamo da quelle levate, che sonantisi diversi strumenti, i giovini varie danze incominciavano, nelle quali me medesima, quasi sforzata, alcuna volta convenne pigliare; ma in esse, sí per l'animo non a quelle conforme, e sí per lo corpo debole, per piccolo spazio durava; per che indietro trattami, sopra gli stesi tappeti con alcune altre mi ponea a sedere. Quivi ad un'ora i suoni ascoltando entranti con dolci note nell'animo mio, e a Panfilo pensando, discorde, festa con noia comprendo; perciò che i piacevoli suoni, ascoltando, in me ogni tramortito spiritello d'amore fanno risuscitare, e nella mente tornare i lieti tempi, ne’ quali io al suono di quelli variamente con arte non piccola, in presenza del mio Panfilo laudevolmente soleva operare; ma quivi Panfilo non vedendo, volontieri, con tristi sospiri, pianti l'averei dolentissima, se convenevole mi fosse paruto. E oltre a ciò, questo medesimo le varie canzoni quivi da molte cantate mi solevano fare; delle quali se forse alcuna n'era conforme alli miei mali, con orecchia l'ascoltava intentissima, di saperla disiderando, acciò che poi fra me ridicendola, con piú ordinato parlare e piú coperto mi sapessi e potessi in publico alcuna volta dolere, e massimamente di quella parte de’ danni miei che in essa si contenesse.
      Ma poi che le danze in molti giri volte e reiterate hanno le giovini donne rendute stanche, tutte postesi con noi a sedere, piú volte avvenne che i giovini vaghi, di sé d'intorno a noi accumulati, quasi facevano una corona, la quale mai né quivi né altrove avvenne che io vedessi, che ricordandomi del primo giorno, nel quale Panfilo a tutti dimorando di dietro, mi prese, che io invano non levassi piú volte gli occhi fra loro rimirando, quasi tuttavia sperando in simile modo Panfilo rivedere. Tra questi adunque mirando, vedea alcuna volta alcuni con occhi intentissimi mirare il suo disio, e io in quegli atti sagacissima per addietro, con occhio perplesso ogni cosa mirava, e conosceva chi amava e chi scherniva; e talora l'uno laudava e talora l'altro, e in me diceva talvolta che il mio migliore sarebbe stato se cosí io come quelle facevano avessi fatto, servando l’anima libera come quelle, gabbando, servavano; poi dannando cotal pensiero, piú contenta (se essere si può contenta di male avere) sono d'avere fedelmente amato. Ritorno adunque e gli occhi e l pensiero agli atti vaghi de giovini amanti, e quasi alcuna consolazione prendendo di quelli, li quali ferventemente amare discerno, piú con meco stessa di ciò li commendo, e quelli lungamente con intero animo avendo mirati, cosí fra me medesima tacita incomincio:
      - Oh felici voi a’ quali come a me non è tolta la vista di voi stessi! Ohimè! che cosí come voi fate, soleva io per addietro fare. Lunga sia la vostra felicità, acciò che io sola di miseria possa essemplo rimanere a’ mondani. Almeno, se Amore, faccendomi mal contenta della cosa amata da me, sarà cagione che li miei giorni si raccorcino, me ne seguirà che io, come Dido, con dolorosa fama diventerò etterna.
      E questo detto, tacendo torno gli occhi a riguardare quello che diversi diversamente adoperino. Oh quanti già in simili luoghi ne vidi, li quali dopo avere mirato, e non avendo la loro donna veduta, reputando meno che bello il festeggiare, malinconiosi si partivano! De' quali alcuno, avvegna che debole, riso nel mezzo de’ miei mali trovava luogo, veggendomi compagnia ne’ dolori, e conoscendo per li miei mali stessi li guai altrui.
      Adunque, carissime donne, cosí disposta, quale le mie parole dimostrano, m'aveano li dilicati bagni, le faticose cacce e li marini liti d'ogni festa ripieni: per che dimostrando il mio palido viso, li sospiri continui e il cibo parimente col sonno perduti, allo ingannato marito e alli medici la mia infermità non curabile, quasi della .mia vita disperandosi, alla città lasciata ne tornavamo; nella quale la qualità del tempo molte e diverse feste apprestante, con quelle, cagioni di varie angoscie m'apparecchiava.
      Egli avvenne, non una volta ma molte, che dovendo novelle spose andare a’ loro mariti, primieramente io, o per parentado stretto, o per amistà, o per vicinanza fui invitata alle nuove nozze, alle quali andare piú volte mi costrinse il mio marito, credendosi in cotale guisa la manifesta mia malinconia alleggiare. Adunque in questi cosí fatti giorni li lasciati ornamenti mi convenia ripigliare, e i negletti capelli, d'oro per addietro da ognuno giudicati, allora quasi a cenere simili divenuti, come io poteva in ordine rimetteva. E ricordandomi con piú piena memoria, a cui essi oltre ad ogni altra mia bellezza soleano piacere, con nuova malinconia riturbava il turbato animo; e alcuna volta avendo io me medesima obliata, mi ricorda che non altramente che da intimo sonno rivocata dalle mie serve, ricogliendo il caduto pettine, ritornai al dimenticato oficio. Quindi volendomi, sí come usanza è delle giovini donne consigliare col mio specchio de' presi ornamenti, vedendomi in esso orribile quale io era, avendo nella mente la forma perduta, quasi non quella la mia che nello specchio vedeva, ma d'alcuna infernal furia pensando, intorno volgendomi, dubitava. Ma pure, poi che ornata era, non dissimile alla qualità dell'animo con l'altre andava alle liete feste, liete dico per l'altre, ché, come colui sa a cui niuna cosa è nascosa, nulla ne fu mai, dopo la partita del mio Panfilo, che a me non fosse di tristizia cagione.
      Pervenute adunque alli luoghi diputati alle nozze, ancora che diversi e in diversi tempi fossero, non altramente che in una sola maniera mi videro, cioè con viso infinto, qual io poteva, ad allegrezza, e con l'animo al tutto disposto a dolersi, prendendo cosí dalle liete cose come dalle triste che gli avveniano, cagione alla sua doglia. Ma poi che quivi dall'altre con molto onore ricevute eravamo, l'occhio disideroso non di vedere ornamenti, de' quali li luoghi tutti risplendevano, ma se stesso col pensiero ingannando se forse quivi Panfilo vedesse, come piú volte già in simile luogo veduto aveva, intorno solea girare; e non vedendolo, come fatta piú certa di ciò di che prima io era certissima, quasi vinta, con l'altre mi poneva a sedere, rifiutando gli offerti onori, non vedendovi io colui per lo quale essere mi soleano cari. E poi che la nuova sposa era giunta, e la pompa grandissima delle mense celebrata si toglieva via, come le varie danze, ora alla voce d'alcuno cantante guidate e ora al suono di diversi strumenti menate, erano cominciate, risonando ogni parte della sposaresca casa di festa, io, acciò che non isdegnosa, ma urbana paressi, data alcuna volta in quelle, mi riponeva a sedere entrando in nuovi pensieri.
      Egli mi ritornava a mente quanto solenne fosse stata quella festa, la quale a questa simile già per me s'era fatta, nella quale io semplice e libera senza alcuna malinconia lieta mi vidi onorare, e quelli tempi con questi altri misurando in me medesima, e oltremodo veggendoli variati, con sommo disio, se il luogo conceduto l'avesse, provocata era a lagrimare. Correvami ancora nell'animo con pensiero prontissimo, veggendo li giovini parimente e le donne far festa, quant'io già in simili luoghi, il mio Panfilo me mirando, con atti varii e maestrevoli a cotali cose, festeggiato avessi; e piú meco della cagione del far festa, che tolta m'era, che del non far festa medesimo mi doleva Quindi orecchie porgendo a’ motti, alle canzoni e alli suoni, ricordandomi de preteriti, sospirava, e con infinto piacere, disiderando la fine di cotale festa, meco medesima mal contenta con fatica passava. Nondimeno, riguardando ogni cosa, essendo intorno alle riposanti donne la multitudine de' giovini a rimirarle sopravvenuti, manifestamente scorgea molti di quelli, o quasi tutti, in me rimirare alcuna volta e quale una cosa del mio aspetto, e quale un'altra fra sé tacito ragionava, ma non si, che de loro occulti parlari, o per imaginazione o per udita, non pervenissero gran parte alle mie orecchie. Alcuni l'uno verso l'altro dicevano:
      - Deh, guarda quella giovine, alla cui bellezza nulla ne fu nella nostra città simigliante, e ora vedi quale ella è divenuta! Non miri tu come ella ne' sembianti pare sbigottita, qua le che la cagione si sia?
      E detto questo, mirandomi con atto umilissimo quasi da compassione delli miei mali compunti, partendosi, me di me lasciavano piú che l'usato pietosa. Altri intra sé dimandavano: «Deh, è questa donna stata inferma?», e poi a se medesimi rispondevano: «Egli mostra di sí, sí è magra tornata' e iscolorita; di che egli è gran peccato, pensando alla sua smarrita bellezza».
      Certi ve n'erano di piú profondo conoscimento, il che mi dolea, li quali dopo lungo parlare dicevano:
      - La palidezza di questa giovine dà segnali d'innamorato cuore. E quale infermità mai alcuno assottiglia, come fa il troppo fervente amore? Veramente ella ama, e se cosí è, crudele è colui che a lei è di si fatta noia cagione, per la quale essa cosí s’assottigli.
      Quando questo avvenne, dico che io non potei ritenere alcuno sospiro, veggendo di me molta piú pietà in altrui che in colui che ragionevolmente avere la dovria. E dopo li mandati sospiri, con voce tacita pregai per li coloro beni umilemente gl’iddii. E certo egli mi ricorda la mia onestà avere avute tra quelli che cosí ragionavano tante forze che alcuni mi scusavano, dicendo:
      - Cessi Iddio che questo di questa donna si creda, cioè che amore la molesti; ella, piú che alcuna altra onesta, mai di ciò non mostrò sembiante alcuno, né mai ragionamento nessuno tra gli amanti si poté di suo amore ascoltare: e certo egli non è passione da potere lungamente occultare.
      «Ohimè!» diceva io allora fra me medesima «quanto sono costoro lontani alla verità, me innamorata non reputando, perciò che come pazza negli occhi e nelle bocche de’ giovini non metto li miei amori, come molte altre fanno!».
      Quivi ancora mi si paravano molte volte davanti giovini nobili, e di forma belli, e d'aspetto piacevoli, li quali per addietro piú volte con atti e modi diversi tentati aveano gli occhi miei, ingegnandosi di :trarre quelli a’ loro disii. Li quali poi che me cosí deforme un pezzo aveano mirata, forse contenti che io non gli avessi amati, si dipartivano dicendo: «Guasta è la bellezza di questa donna.
      Perché nasconderò io a voi, o donne, quel che non solamente a me, ma generalmente a tutte dispiace d'udire? Io dico che, ancora che ’l mio Panfilo non fosse presente, per lo quale era a me sommamente cara la mia bellezza, con gravissima puntura di cuore d'avere quella perduta ascoltava.
      Oltre a queste cose, ancora mi ricordo io essermi alcuna volta in cosí fatte feste avvenuto che io in cerchio con donne d'amore ragionanti mi sono ritrovata; là dove con disiderio ascoltando quali gli altrui amori siano stati, agevolmente ho compreso niuno si fervente né tanto occulto né con si grevi affanni essere stato come il mio, avvegna che de’ piú felici e de’ meno onorevoli il numero ne sia grande. Adunque in cotal guisa una volta mirando, e un'altra ascoltando ciò che nelli luoghi ne' quali stava s'adoperava, pensosa passava il discorrevole tempo.
      Essendo adunque per alcuno spazio le donne, sedendosi, riposate, m'avvenne alcuna volta che, rilevatesi esse alle danze, avendo me piú volte a quelle invitata indarno, e dimorando esse e li giovini parimente in quelle, con cuore d'ogni altra intenzione vacuo, molto attente, quale forse da vaghezza di dimostrare sé in quelle essere maestra, e quale dalla focosa Venere a ciò sospinta, io quasi sola rimasa a sedere, con isdegnoso animo li nuovi atti e le qualità di molte donne mirava. E certo d'alcune avvenne che io le biasimai, benché io sommamente disiderassi, se essere fosse potuto, di fare io, se il mio Panfilo fosse stato presente; il quale tante volte quante a mente mi tornava o torna, tante di nuova malinconia m'era ed è cagione: il che, come Iddio sa, non merita il grande amore ch'io gli porto e ho portato.
      Ma poi che quelle danze con gravissima noia di me alcuna volta per lungo spazio rimirate avea, essendomi divenute per altro pensiero tediose, quasi da altra sollecitudine mossa, del publico luogo levatami, volonterosa di sfogare il raccolto dolore, se fatto mi veniva acconciamente, in parte solitaria me n'andava; e quivi dando luogo alle volonterose lagrime, delle vanità vedute alli miei folli occhi rendea guiderdone. Né quelle senza parole accese d'ira uscivano fuori, anzi, conoscendo io la misera mia fortuna, verso lei mi ricorda d'avere alcuna volta cosí parlato:
      - O Fortuna, spaventevole nemica di ciascuno felice, e de piú miseri singulare speranza, tu, permutatrice de' regni e de’ mondani casi adducitrice, sollevi e avvalli con le tue mani, come il tuo indiscreto giudicio ti porge; e non contenta d'essere tutta d'alcuno, o in uno caso l'essalti e in uno altro il deprimi, o dopo alla data felicità aggiugni agli animi nuove cure, acciò che i mondani in continue necessità dimorando, secondo il parere loro, te sempre prieghino, e la tua deità orba adorino. Tu, cieca e sorda, li pianti de' miseri rifiutando; con gli essaltati ti godi, li quali te ridente e lusingante abbracciando con tutte le forze, con inoppinato avvenimento da te si trovano prostrati e allora miseramente te conoscono aver mutato viso. E di questi cotali io misera mi trovo, né so quale inimicizia o cosa da me commessa inverso te a ciò t'inducesse, o mi ci noccia. Ohimè! chiunque nelle grandi cose si fida, e potente signoreggia negli alti luoghi, l'animo credulo dando alle cose liete, riguardi me, d'alta donna piccolissima serva tornata, e peggio, che disdegnata sono dal mio signore, e rifiutata. Tu non desti mai, o Fortuna, piú ammaestrevole essemplo di me de' tuoi mutamenti, se con sana mente si riguarderà. Io da te, o Fortuna mutabile, nel mondo ricevuta fui in copiosa quantità de tuoi beni, se la nobiltà e le ricchezze sono di quelli, sí come io credo; e oltre a ciò in quelle cresciuta fui, né mai ritraesti la mano. Queste cose certo continuamente magnanima possedei, e come mutabili le trattai e, oltre alla natura delle femine, liberalissimamente l’ho usate.
      Ma io, ancora nuova, te delle passioni dell’anima donatrice non sappiendo che tanta parte avessi ne' regni d'Amore, come volesti, m'innamorai, e quello giovine amai, il quale tu sola, e altri no, parasti davanti agli occhi miei allora che io piú ad innamorar mi credea essere lontana. Il piacere del quale poi che nel cuore con legame indissolubile mi sentisti legato, non stabile piú volte hai cercato di farmene noia; e alcuna volta hai li vicini animi con vani e ingannevoli ingegni sommossi e talvolta gli occhi, acciò che palesato nocesse il nostro amore. E piú volte, sí come tu volesti, sconce parole dell'amato giovine alli miei orecchi pervennero, e alli suoi di me sono certa che facesti pervenire, possibili, essendo credute, a generare odio; ma esse non vennero mai al tuo intendimento seconde, ché, posto che tu, dèa, come ti piace guidi le cose esteriori, le virtú dell'anima non sono sottoposte alle tue forze: il nostro senno continuamente in ciò t’ha soperchiata. Ma che giova però a te opporsi? A te sono mille vie da nuocere a’ tuoi nemici, e quelle che per diritto non puoi, conviene che per obliquo fornischi. Tu non potesti ne' nostri animi generare inimicizia, e ’ngegnastiti di mettervi cosa equivalente, e oltre a ciò gravissima doglia e angoscia.
      I tuoi ingegni, per addietro rotti col nostre senno, si risarcirono per altra via, e inimica a lui parimente e a me, con li tuoi accidenti porgesti cagione di dividere da me l'amato giovine con lunga distanza. Ohimè! quando avrei io potuto pensare che in luogo a questo tanto distante e da questo diviso da tanto mare, da tanti monti e valli e fiumi, dovesse nascere, te operante, la cagione de’ miei mali? Certo non mai, ma pure è cosí; ma con tutto questo, avvegna che egli sia lontano a me, e io a lui, non dubito che egli m'ami, si come io lui, il quale io sopra tutte le cose amo. ma che vale questo amore ad effetto piú che se fossimo nemici? Certo niuna cosa: dunque al tuo contrasto niente valse il senno nostro. Tu insiememente con lui ogni mio diletto, ogni mio bene e ogni mia gioia te ne portasti, e con questi le feste, li vestimenti, le bellezze e ’l vivere lieto, in luogo de quali pianti, tris tizia e intollerabile angoscia lasciasti; ma certo che io non l'ami non m’hai tu potuto tòrre, né puoi. Deh, se io giovine ancora avea contro alla tua deità commessa alcuna cosa, l'età semplice mi dovea rendere scusata. Ma se tu pure di me volevi vendetta, perché non l'operavi tu nelle tue cose? Tu ingiusta hai messa la tua falce nell'altrui biade. Che hanno le cose d'amore a fare con teco? A me sono altissime case e belle, ampissimi campi e molte bestie, a me tesori conceduti dalla tua mano; perché in queste cose, o con fuoco o con acqua o con rapina o con morte non si distese la tua ira? Tu m’hai lasciate quelle cose che alla mia consolazione non possono valere, se non come a Mida la ricevuta grazia da Bacco alla fame, e haitene portato colui solo, il quale io piú che tutte l'altre cose avea caro.
      Ahi, maladette siano l'amorose saette, le quali ardirono di prendere vendetta di Febo, e da te tanta ingiuria sostengono! Ohimè! che se esse t'avessero mai punta come elle pungono ora me, forse tu con piú diliberato consiglio offenderesti agli amanti. Ma, ecco, tu m’hai offesa, e a quello condotta che io ricca, nobile e possente, sono la piú misera parte della mia terra, e ciò vedi tu manifesto. Ogni uomo si rallegra e fa festa, e io sola piango; né questo ora solamente comincia, anzi è lungamente durato tanto, che la tua ira doveria essere mitigata. Ma tutto il ti perdono se tu solamente, di grazia, il mio Panfilo, come da me il dividesti con meco il ricongiungi; e se forse ancora la tua ira pur dúra, sfoghisi sopra il rimanente delle mie cose. Deh, increscati di me, o crudele! Vedi che io sono divenuta tale che quasi come favola del popolo sono portata in bocca, dove con solenne fama la mia bellezza soleva essere narrata. Comincia ad essere pietosa verso di me, acciò che io, vaga di potermi di te lodare, con parole piacevoli onori la tua maestà, alla quale, se benigna mi torni nel dimandato dono, infino ad ora prometto, e qui sieno testimonii gl’iddii, di porre la .mia imagine ornata quanto potrassi ad onore di te, in qual tempio piú ti fia caro, e quella, con versi soscritti che diranno: Questa è Fiammetta, dalla Fortuna di miseria infima recata in somma allegrezza, si vedrà da tutti.
      Oh quante piú altre cose ancora dissi piú volte, le quali lungo e tedioso sarebbe il raccontarle! Ma tutte, brievemente, in amare lagrime terminavano, dalle quali alcuna volta avvenne che io, dalle donne sentita, con varii conforti levatane, alle festevoli danze fui rimenata a mal mio grado.
      Chi crederebbe possibile, o amorose donne, tanta tristizia nel pretto capere d'una giovine che niuna cosa fosse, la quale non solamente non rallegrar la potesse, ma eziandio cagione di maggior doglia le fosse continuo? Certo egli pare incredibile a tutti, ma io misera, sí come colei che ’l pruovo, sento e conosco ciò essere vero. Egli avvenia spesse volte che, essendo, sí come la stagione richiedeva, il tempo caldissimo, molte altre donne e io, acciò che piú agevolmente quello trapassassimo, sopra velocissima barca armata di molti remi, solcando le marine onde, cantando e sonando, li rimoti scogli, e le caverne ne’ monti dalla natura medesima fatte, essendo esse e per ombra e per li venti recentissime, cercavamo. Ohimè, che questi erano al corporale caldo sommissimi rimedii a me offerti, ma al fuoco dell'anima per tutto questo niuno alleggiamento era prestato, anzi piuttosto tolto; però che, cessanti li calori esteriori, li quali senza dubbio alli dilicati corpi sono tediosi, incontanente piú ampio luogo si dava agli amorosi pensieri, li quali non solamente materia sostentante le fiamme di Venere sono, ma aumentante, se bene si mira.
      Venute adunque ne’ luoghi da noi cercati, e presi per li nostri diletti ampissimi luoghi, secondo che il nostro appetito richiedeva, ora qua e ora là, ora questa brigata di donne e di giovini, e ora quell'altra, delle quali ogni piccolo scoglietto o lito, solo che d'alcuna ombra di monte da' solari raggi difeso fosse, erano pieni, veggendo andavamo. Oh quale e quanto è questo diletto grande alle sane menti! Quivi si vedevano in molte parti le mense candidissime poste e di cari ornamenti sí belle, che solo il riguardarle aveva forza di risvegliare l'appetito in qualunque piú fosse stato svogliato; e in altra parte, già richiedendolo l'ora, si discernevano alcuni prendere lietamente li mattutini cibi, da' quali e noi e quale altro passava con allegra voce alle loro letizie eravamo convitati.
      Ma poi che noi medesimi avevamo, si come gli altri, mangiato con grandissima festa, e dopo le levate mense piú giri dati in liete danze al modo usato, risalite sopra le barche, subitamente or qua e ora colà n'andavamo. E in alcuna parte cosa carissima agli occhi de' giovini n'appariva, ciò erano vaghissime .giovini in giubbe .di zendado spogliate, e scalze e isbracciate nell'acqua andanti, dalle dure pietre levanti le marine conche; e a cotale oficio bassandosi, sovente le nascose delizie dell'uberifero petto mostravano. E in alcuna altra con piú ingegno, altri con reti, e quali con piú nuovi artificii, alli nascosi pesci si vedeano pescare.
      Che giova il faticarsi in voler dire ogni particulare diletto che quivi si prende? Egli non verrebbero meno giammai. Pensi seco chi ha intelletto, quanti e quali essi debbano essere, non andandovi (e se vi pur va, non vi si vede) alcuno altro che giovine e lieto. Quivi gli animi aperti e liberi sono, e sono tante e tali le cagioni per le quali ciò avviene, che appena alcuna cosa addimandata negare vi si puote. In questi cosí fatti luoghi confesso io, per non turbare le compagne, d'avere avuto viso coperto di falsa allegrezza, senza avere ritratto l'animo da' suoi mali; la qual cosa quanto sia malagevole a fare, chi l’ha provato ne può testimonianza donare. E come potrei io nell'animo essere stata lieta ricordandomi già e meco e senza me avere in simili diletti veduto il mio Panfilo, il quale io sentiva da me oltremodo essere lontano, e oltre a ciò senza speranza di rivederlo? Se a me non fosse stata altra noia che la sollecitudine dell'animo, la quale me continuamente teneva sospesa a molte cose, sí m'era ella grandissima, che è egli a pensare che il fervente disio di rivederlo avesse sí di me tolta la vera conoscenza, che, certamente sappiendo lui in quelle parti non essere, pur possibile che vi fosse argomentassi, e come se ciò fosse senza alcuna contraddizione vero, procedea a riguardare se io il vedessi? Egli non vi rimaneva alcuna barca, delle quali, quale in una parte volante e quale in un'altra, era cosí il seno di quel mare ripieno come il cielo di stelle, qualora egli appare piú limpido e sereno, che io, prima a quella con gli occhi che con la persona, riguardando, non pervenissi. Io non sentiva alcuno suono di qualunque strumento, quantunque io sapessi lui se non in uno essere ammaestrato, che con gli orecchi levati non cercassi di sapere chi fosse il sonatore, sempre imaginando quello essere possibile d'essere colui il quale io cercava. Niuno lito, niuno scoglio, niuna grotta da me non cercata vi rimaneva, né ancora alcuna brigata. Certo io confesso che questa talora vana e talora infinta speranza mi toglieva molti sospiri; la quale poi che da me era partita, quasi come se nella concavità del mio cerebro raccolti si fossero quelli che uscire doveano fuori, convertiti in amarissime lagrime per li miei dolenti occhi spiravano. E cosí le finte allegrezze in verissime angoscie si convertiano.
      La nostra città, oltre a tutte l'altre italiche di lietissime feste abondevole, non solamente rallegra li suoi cittadini o con nozze o con bagni o con li marini liti, ma, copiosa di molti giuochi, sovente ora con uno ora con un altro letifca la sua gente. Ma tra l'altre cose nelle quali essa appare splendidissima, è nel sovente armeggiare. Suole adunque essere questa a noi consuetudine antica che, poi che i guazzosi tempi del verno sono trapassati e la primavera con li fiori e con la nuova erba ha al mondo rendute le sue perdute bellezze, essendo con questo li giovaneschi animi per la qualità del tempo raccesi e piú che l'usato pronti a dimostrare li loro disii, di convocare li dí piú solenni alle logge de' cavalieri le nobili donne, le quali, ornate delle loro gioie piú care, quivi s'adunano. Né credo che piú nobile o ricca cosa fosse a riguardare le nuore di Priamo con l'altre frigie donne, qualora piú ornate davanti al suocero loro a festeggiare s'adunavano, che sono in piú luoghi della nostra città le nostre cittadine a vedere; le quali poi che alli teatri in grandissima quantità radunate si veggono, ciascuna quanto il suo potere si stende dimostrandosi bella, non dubito che qualunque forestiere intendente sopravvenisse, considerate le contenenze altiere, li costumi notabili, gli ornamenti piuttosto reali che convenevoli ad altre donne, non giudicasse noi non donne moderne, ma di quelle antiche magnifiche essere al mondo tornate: quella, per alterezza, dicendo Semiramís simigliare; quell'altra, agli ornamenti guardando, Cleopatràs si crederebbe; l'altra, considerata la sua vaghezza, sarebbe creduta Elena; e alcuna, gli atti suoi bene mirando, in niente si direbbe dissimigliare a Didone. Perché andrò io simigliandole tutte? Ciascuna per se medesima pare una cosa piena di divina maestà, non che d'umana. E io misera, prima che il mio Panfilo perdessi, piú volte udii tra li giovini quistionare a quale io fossi piú da essere assimigliata, o alla vergine Pulissena, o alla Ciprigna Venere, dicenti alcuni di loro essere troppo assimigliarmi a dèa, e altri rispondenti in contrario essere poco il simigliarmi a femina umana.
      Quivi tra cotanta e cosí nobile compagnia non lungamente, si siede né vi si tace, né mormora; ma stanti gli antichi uomini a riguardare, li chiari giovini, prese le donne per le dilicate mani, danzando, con altissime voci cantano i loro amori: e in cotal guisa con quante maniere di gioia si possono divisare, la calda parte del giorno trapassano. E poi che 'l sole ha cominciato a dare piú tiepidi li suoi raggi si veggono quivi venire gli onorevoli prencipi del nostro Ausonico regno in quell'abito, che alla loro magnificenza si richiede; li quali, poi che alquanto hanno mirato e le bellezze delle donne e le loro danze, quasi con tutti li giovini cosí cavalieri come donzelli partendosi, dopo non lungo spazio in abito tutto al primo contrario con :grandissima comitiva ritornano.
      Quale lingua sí d'eloquenza splendida, o sí di vocaboli eccellenti facunda sarebbe quella che interamente potesse li nobili abiti e di varietà pieni interamente narrare? Non il greco Omero, non il latino Virgilio, li quali tanti riti di Greci, di Troiani e d'Italici già ne’ loro versi discrissero. Lievemente adunque, a comparazione del vero, m'ingegnerò di farne alcuna particella a quelle che non gli hanno veduti palese. E ciò non fia nella presente materia dimostrato invano; anzi si potrà per le savie comprendere la mia tristizia essere, oltre a quella d'ogni altra donna preterita o presente, continua, poi la dignità di tante e sí eccelse cose vedute non l’hanno potuta intrarompere con alcuno lieto mezzo. Dico, adunque, al proposito ritornando, che li nostri prencipi sopra cavalli tanto nel correre veloci, che non che gli altri animali, ma li venti medesimi, qualunque piú si crede festino, di dietro correndo si lascerieno, vengono, la cui giovinetta età, la speciosa bellezza, e la virtú espettabile d'essi, graziosi li rende oltre modo a' riguardanti. Essi di porpora o di drappi dalle indiane mani tessuti con lavori di colori varii e d'oro intermisti, e oltre a ciò soprapposti di perle e di care pietre, vestiti, e i cavalli coverti, appariscono; de' quali i biondi crini penduli sopra li candidissimi omeri, da sottiletto cerchiello d'oro, o da ghirlandetta di fronda novella sono sopra la testa ristretti. Quindi la sinistra un leggierissimo scudo, e la destra mano arma una lancia, e al suono delle tostane trombe l'uno appresso l'altro, e seguiti da molti, tutti in cotale abito cominciano davanti alle donne il giuoco loro, colui lodando piú in esso, il quale con la lancia piú vicino alla terra con la sua punta, e meglio chiuso sotto lo scudo, senza muoversi sconciamente, dimora, correndo sopra il cavallo.

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continuazione 2 del 5 capitolo



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Ultimo aggiornamento: 06 febbraio 1998