Giovanni Boccaccio
Elegia di Madonna Fiammetta
Capitolo V
(Continuazione 2)
A queste cosí fatte feste e piacevoli
giuochi, come io solea, ancora, misera, sono chiamata; il che senza grandissima noia di me
non avviene, perciò che, queste cose mirando, mi torna a mente d'avere già, intra li
nostri piú antichi e per età reverendi cavalieri, veduto sedere il mio Panfilo a
riguardare, la cui sufficienza alla sua età giovinetta impetrava sí fatto luogo. E
alcuna volta fu che, stante egli non altramente che Daniello tra gli antichi sacerdoti ad
essaminare l'accusata donna intra li predetti cavalieri togati, de' quali per autorità
alcuno Scevola simigliava, e alcuno altro per la sua gravezza si saria detto il censorino
Catone, o l'Uticense, e alcuni sí nel viso appariano orrevoli, che appena altramente si
crede che fosse il Magno Pompeo, e altri, piú robusti, fingono Scipione Africano o
Cincinnato, rimirando essi parimente il correre di tutti, e quasi delli loro piú giovini
anni rimemorandosi, tutti fremendo, or questo or quell'altro commendavano, affermando
Panfilo i detti loro; al quale io alcuna volta, ragionando esso con essi, quanti ne
correvano udii gli antichi cosí giovini, come valorosi vecchi assimigliare.
Oh quanto m'era ciò caro ad udire, sí per colui che'l
diceva, e sí per quelli che ciò ascoltavano intenti, e sí per li miei cittadini,
de quali era detto! Certo tanto, che ancora m'è caro il rammentarlo. Egli soleva
delli nostri prencipi giovinetti, li quali nelli loro aspetti ottimamente li reali animi
dimostravano, alcuno dire essere allo arcadio Partenopeo simigliante, del quale non si
crede che altro piú ornato all'assedio di Tebe venisse che esso fu dalla madre mandato,
essendo egli ancora fanciullo; l'altro appresso il piacevole Ascanio parere confessava,
del quale Virgilio tanti versi, d'ottima testificanza del giovinetto descrisse; il terzo
comparando a Deifebo; il quarto per bellezza a Ganimede. Quindi alla piú matura turba che
loro seguiva vegnendo, non meno piacevoli simiglianze donava. Quivi vegnente alcuno
colorito nel viso, con rossa barba e bionda chioma sopra gli omeri candidi ricadente, e
non altramente che Ercule fare solesse, ristretta da verde fronda in ghirlandetta
protratta assai sottile, vestite di drappi sottilissimi serici, non occupanti piú spazio
che la grossezza del corpo, ornati di lavori varii fatti da maestra mano, con un mantello
sopra la destra spalla con fibula d'oro ristretto, e con iscudo coperto il manco lato,
portando nella destra un'asta lieve quale all'apparecchiato giuoco conviensi, ne' suoi
modi simile il diceva al grande Ettore; appresso al quale traendosi un altro avanti in
simile abito ornato, e con viso non meno ardito, avendo del mantello l'un lembo sopra la
spalla gittatosi, con la sinistra maestrevolmente reggendo il cavallo, quasi un altro
Achille il .giudicava; seguendone alcuno altro, pallando la lancia, e postergato lo scudo,
li biondi capelli avendo legati con sottile velo forse ricevuto dalla sua donna,
Protesilao gli si udia chiamare; quindi seguendone un altro con leggiadro cappelletto
sopra i capelli, bruno nel viso, e con barba prolissa, e nell'aspetto feroce, nomava
Pirro; e alcuno piú mansueto nel viso, biondisimo e pulito, e piú che altro ornatissimo,
lui credere il troiano París, o Menelao dicea possibile. Egli non è di necessità il
piú in ciò prolungare la mia novella: egli nella lunghissima schiera mostrava
Agamennone, Aiace, Ulisse, Diomedes, e qualunque altro Greco, Frigio o Latino fu degno di
laude. Né poneva a beneplacito cotali nomi, anzi con ragioni accettevoli fermando li suoi
argomenti sopra le maniere de' nominati, loro debitamente assimigliati mostrava; per che,
non era l'udire cotali ragionamenti meno dilettevole, che il vedere coloro medesimi di cui
si parlava.
Essendo adunque la lieta schiera due o tre volte,
cavalcando con piccolo passo, dimostratasi a' circustanti, cominciavano i loro aringhi; e
diritti sopra le staffe, chiusi sotto gli scudi, con le punte delle lievi lance tuttavia
igualmente portandole quasi rasente terra, velocissimi piú che aura alcuna, corrono i
loro cavalli; e l'aere essultante per le voci del popolo circustante, per li molti
sonagli, per li diversi strumenti, e per la percossa del riverberante mantello del cavallo
e di sé, a meglio e piú vigoroso correre li rinfranca. E cosí tutti veggendoli, non una
volta ma molte, degnamente ne cuori de' riguardanti si rendono laudevoli. Oh quante
donne, quale il marito, quale l'amante, quale lo stretto parente veggendo tra questi, ne
vidi già piú fiate sommissimamente rallegrare! Certo assai e non che esse, ma ancora le
strane. Io sola, ancora che l mio marito vi vedessi o vi veggia, e con esso i miei
parenti, dolente li riguardava, Panfilo non veggendovi, e lui essere lontano ricordandomi.
Deh, or non è questa mirabile cosa, o donne, che ciò ch'io veggio mi sia materia di
doglia né mi possa rallegrare cosa alcuna? Deh, quale anima è in inferno con tanta pena,
che, queste cose veggendo non dovesse sentire allegrezza? Certo niuna, credo. Esse pur,
prese dalla piacevolezza della cetara d'Orfeo, obliarono per alquanto spazio le pene loro;
ma io tra mille strumenti, tra infinite allegrezze, e in molte e varie maniere di feste,
non posso la mia pena, non che dimenticare, ma solamente un poco alleviare.
E posto che io alcuna volta a queste feste o a simiglianti
con infinto viso la celi, e dea sosta a' sospiri, la notte poi, o qualora soletta
trovandomi prendo spazio, non perdona parte delle sue lagrime, anzi piú tante ne verso,
quanti per avventura ho il giorno risparmiati sospiri. E inducendomi queste cose in piú
pensieri, e massimamente in considerare la loro vanità, piú possibile a nuocere che a
giovare, si come io manifestamente, provandolo, conosco, alcuna volta, finita la festa e
da quella partitami, meritamente contra alle mondane apparenze crucciandomi, cosí dissi:
- Oh, felice colui il quale innocente dimora nella
solitaria villa, usando l'aperto cielo! Il quale, solamente conoscendo di preparare
maliziosi ingegni alle selvatiche fiere, e lacciuoli a semplici uccelli, da affanno
nell'animo essere stimolato non puote, e se grave fatica per avventura nel corpo sostiene,
incontanente sopra la fresca erba riposandosi la ristora, tramutando ora in questo lito
del corrente rivo, e ora in quell'altra ombra dell'alto bosco li luoghi suoi, ne' quali
ode i queruli uccelli fremire con dolci canti, e i rami tremanti e mossi da lieve vento,
quasi fermo tenenti alle loro note! Deh, cotale vita, o Fortuna, avessi tu a me conceduta,
alla quale le tue disiderate larghezze sono di sollecitudine assai dannosa! Deh, a che mi
sono utili gli alti palagi, i ricchi letti e la molta famiglia, se l'animo da ansietà è
occupato, errando per le contrade da lui non conosciute dietro a Panfilo, non concedendo
a lassi membri quiete alcuna?
Oh come è dilettevole, e quanto è grazioso con tranquillo
e libero animo il priemere le ripe de trascorrenti fiumi, e sopra i nudi cespiti menare li
lievi sonni, li quali il fuggente rivo con mormorevoli suoni e dolci senza paura nutrica!
Questi senza alcuna invidia sono conceduti al povero abitante le ville, molto piú da
disiderare che quelli, li quali, allettati con piú lusinghe, sovente o da pronte
sollecitudini cittadine o da strepiti di tumultuante famiglia sono rotti. La costui fame,
se forse alcuna volta lo stimola, li còlti pomi nelle fedelissime selve raccolti la
scacciano, e le nuove erbette di loro propria volontà fuori della terra uscite sopra li
piccoli monti ancora gli ministrano saporosi cibi. Oh quanto gli è, a temperare la sete,
dolce l'acqua della fonte presa e del rivo con concava mano. Oh infelice sollecitudine de'
mondani, a sostentamento de' quali la natura richiede e apparecchia leggierissime cose!
Noi nellinfinita multitudine di cibi la sazietà del corpo crediamo compiere, non
accorgendoci in quelli essere le cagioni nascose, per le quali gli ordinati omori spesse
volte sono piuttosto corrotti che sostentati; e alli lavorati beveraggi apprestando l'oro
e le cavate gemme, sovente in essi veggiamo gustare li veleni frigidissimi, e se non
questi, almeno Venere pur si bee; e talvolta per quelli a sicurtà soperchia si viene, per
la quale, o con parole o con fatti, misera vita o vituperevole morte s'acquista. E spesse
volte ancora avviene che, molti di quelli avendo bevuti, assai peggio che insensato corpo
n'è renduto il bevitore. A costui li Satiri, li Fauni, le Driadi, le Naiadi, le Ninfe
fanno semplice compagnia; costui non sa che si sia Venere né il suo biforme figliuolo, e
se pur la conosce, rozzissima sente la forma sua, e poco amabile.
Deh, or fosse stato piacere d'Iddio, che io similmente mai
conosciuta l'avessi, e da semplice compagnia visitata, rozza mi fossi vivuta! Io sarei
lontana da queste insanabili sollecitudini che io sostengo, e l'anima insieme con la mia
fama santissime non curerebbero di vedere le mondane feste simili al vento che vola, né
da quelle vedute avrebbero angoscie come io ho. A costui non l'alte torri, non l'armate
case, non la molta famiglia, non i dilicati letti, non i risplendenti drappi, non i
correnti cavalli, non centomilia altre cose involatrici della miglior parte della vita,
sono cagione d'ardente cura. Questi, de malvagi uomini, non cercanti ne' luoghi
rimoti e oscuri li furti loro, vive senza paura; e, senza cercare nell'altissime case i
dubbiosi riposi, l'aere e la luce dimanda, e alla sua vita è il cielo testimonio. Oh,
quanto è oggi cotale vita male conosciuta, e da ciascuno cacciata come nemica, dove
piuttosto dovrebbe essere, come carissima, cercata da tutti! Certo io arbitro che in
cotale maniera vivesse la prima età! la quale insieme gli uomini e gliddii
produceva. Ohimè! niuna è piú libera né senza vizio o migliore che questa, la quale li
primi usarono e che colui ancora oggi usa, il quale, abandonate le città, abita nelle
selve. Oh felice il mondo, se Giove mai non avesse cacciato Saturno! e ancora l'età aurea
durasse sotto caste leggi! Però che tutti alli primi simili viveremmo. Ohimè! che
chiunque è colui li primi riti servante, non è nella mente infiammato dal cieco furore
della non sana Venere, come io sono né è colui che sé dispose ad abitare ne' colli de'
monti, suggetto ad alcuno regno: non al vento del popolo non allinfido vulgo non
alla pestilenziosa invidia, né ancora al favore fragile di fortuna, al quale io troppo
fidandomi, in mezzo l'acque per troppa sete perisco. Alle piccole cose si presta alta
quiete, come che grandissimo fatto sia senza le grandi potere sostenere di vivere. Quegli
che alle grandissime cose soprasta, o disidera soprastare, séguita li vani onori delle
trascorrenti ricchezze; e certo le piú volte alli falsi uomini piacciono gli alti nomi;
ma quegli è libero da paura e da speranza, né conosce il nero 'lividore
dellinvidia divoratrice e mordente con dente iniquo, che abita le solitarie ville,
né sente gli odii varii, né gli amori incurabili, né li peccati de popoli mescolati
alle cittadi, né, come conscio, di tutti gli strepiti ha dottanza, né gli è a cura il
comporre fittizie parole, le quali lacci sono ad irretire gli uomini di pura fede: ma
quell'altro, mentre sta eccelso, mai non è senza paura, e quello medesimo coltello, che
arma il lato suo, teme.
Oh quanto buona cosa è a niuno resistere, e sopra la terra
giacendo, pigliare li cibi sicuro! Rade volte, o non mai, entrano li peccati grandissimi
nelle piccole case. Alla prima età niuna sollecitudine d'oro fu, né niuna sacrata pietra
fu arbitra a dividere i campi alli primi popoli. Essi con ardita nave non secavano il
mare; solamente ciascuno si conoscea li liti suoi, né li forti steccati, né li profondi
fossi, né l'altissime mura con molte torri cignevano i lati delle città loro, né le
crudeli armi erano acconce né trattate da cavalieri, né era alcuno edificio che
con grave pietra rompesse le serrate porte; e se forse tra loro era alcuna piccola guerra,
la mano ignuda combatteva, e li rozzi rami degli alberi e le pietre si convertivano in
armi. Né ancora era la sottile e lieve asta di cornio armata di ferro nell'acuto
spuntone, né la tagliente spada cigneva lato alcuno, né la comante cresta ornava i
lucenti elmi; e quello che piú e meglio era a costoro, era Cupido non essere ancora nato,
per la qual cosa li casti petti, poi da lui pennuto e per lo mondo volante stimolati,
potevano vivere sicuri.
Deh, or m'avesse Iddio donata a cotal mondo, la gente del
quale, di poco contenta e di niente temente, sola selvatica libidine conosceva! E se niuno
di cotanti beni quanti essi possedevano non me ne fosse seguito, altro che non aver cosí
affannoso amore e cotanti sospiri sentito, come io sento, sí sarei io da dire piú felice
che quale io sono ne presenti secoli pieni di tante delizie, di tanti ornamenti e di
cotante feste. Ohimè! Che l'empio furore del guadagnare, e la strabocchevole ira, e
quelle menti, le quali la molesta libidine di sé accese, ruppero li primi patti cosí
santi, cosí agevoli a sostenere, dati dalla natura alle sue genti. Venne la sete del
signoreggiare, peccato pieno di sangue, e il minore diventò preda del maggiore, e le
forze si diedero per leggi, venne Sardanapallo, il quale Venere, ancora che dissoluta da
Semiramis fosse fatta, primieramente la fe' dilicata, dando a Cerere e a Bacco forme
ancora da loro non conosciute; venne il battaglievole Marte, il quale trovò nuove arti e
mille forme alla morte, e quinci le terre tutte si contaminarono di sangue, e il mare
similmente ne diventò rosso. Allora senza dubbio li gravissimi peccati entrarono per
tutte le case, e niuna grave sceleratezza in brieve fu senza essemplo: il fratello dal
fratello, il padre dal figliuolo, il figliuolo dal padre furono uccisi; e il marito
giacque per lo colpo della moglie; e l'empie madri hanno piú volte li loro medesimi parti
morti. La rigidezza delle matrigne ne figliastri non dico, ché è manifesta
ciascuno giorno. Le ricchezze adunque, avarizia, superbia, invidia e lussuria, e ogni
altro vizio parimente seco recarono; e con le predette cose ancora entrò nel mondo il
duca e facitore di tutti li mali, e artefice de peccati, il dissoluto amore, per li cui
assediamenti degli animi, infinite città cadute e arse ne fumano, e senza fine genti ne
fanno sanguinose battaglie, e fecero; e li sommersi regni ancora priemono molti popoli.
Ohimè! tacciansi tutti gli altri suoi pessimi effetti, e quelli li quali egli usa in me
siano soli essempli de' suoi mali e della sua crudeltà, la quale sí agramente mi
stringe, che a niuna altra cosa che a lei posso volgere la mente mia.
Queste cose cosí fra me ragionate, alcuna volta, pensando
che le cose da me operate siano appo Iddio gravi molto, e le pene a me senza comparazione
noiose, hanno forza d'alleviare alquanto le mie angoscie, in quanto li molto maggiori mali
già per altrui operati, me quasi innocente fanno apparere, e le pene da altrui sostenute,
benché io non creda da nessuno cosí gravi come da me, pur veggendomi non essere prima
né sola, alquanto piú forte divengo a comportarle; alle quali io sovente priego Iddio
che, o con morte o con la tornata di Panfilo, ponga fine.
A cosí fatta vita e a piggiore mha la fortuna
lasciata consolazione cosí piccola, come udite; né intendiate consolazione che me di
dolore privi, sí come l'altre suole: essa solamente alcuna volta gli occhi toglie dal
lagrimare senza piú prestarmi de suoi beni. Seguitando adunque le mie fatiche, dico
che, con ciò sia cosa che io per addietro tra l'altre giovini della mia città di
bellezze ornatissima, quasi niuna festa solea, che alli divini templi si facesse,
lasciare, né alcuna bella senza me ne reputavano li cittadini; le quali feste vegnendo, a
quelle mi solevano sollecitare le serve mie, e ancora esse, l'antico ordine osservando,
apparecchiati li nobili vestimenti, alcuna volta mi dicono:
- O donna, adórnati; venuta è la solennità di cotale
tempio, la quale te sola aspetta per compimento.
Ohimè! che egli mi torna a mente che io alcuna volta a
loro furiosa rivolta, non altramente che l'addentato cinghiaro alla turba de cani, a loro
rispondeva turbata, e con voce d'ogni dolcezza vòta, già dissi:
- Via, vilissima parte della nostra casa, fate lontani da
me questi ornamenti: brieve roba basta a coprire gli sconsolati membri, né piú alcuno
tempio né festa per voi a me si ricordi, se la mia grazia v'è cara.
Oh, quante volte già, come io udii, furono quelli da molti
nobili visitati, li quali piú per vedermi, che per divozione alcuna venuti, non
veggendomi, turbati si tornavano indietro, nulla dicendo senza me valere quella festa! Ma
come che io cosí le rifiuti, pure alcuna volta, in compagnia delle mie nobili compagne,
me le conviene costretta vedere, con le quali io semplicemente e di feriali vestimenti
vestita vi vado, e quivi non i solenni luoghi, come già feci, cerco, ma, rifiutando li
già voluti onori, umile, ne piú bassi luoghi tra le donne m'assetto; e quivi diverse
cose, ora dall'una ora dall'altra ascoltando con doglia nascosa quanto io piú posso,
passo quello tempo che io vi dimoro. Ohimè! quante volte già mho io udito dire
assai d'appresso:
- Oh, quale maraviglia è questa! Questa donna, singulare
ornamento della nostra città, cosí rimessa e umile è divenuta? Qual divino spirito
lha spirata? Ove le nobili robe? Ove gli altieri portamenti? Ove le mirabili
bellezze si sono fuggite?
Alle quali parole, se licito mi fosse stato, avrei
volontieri risposto: «Tutte queste cose, con molte altre piú care, se ne portò Panfilo
dipartendosi».
Quivi ancora dalle donne intorniata, e da diverse domande
trafitta, a tutte con infinto viso mi conviene satisfare. L'una con cotali voci mi
stimola:
- O Fiammetta, senza fine di te me e l'altre donne fai
maravigliare, ignorando quale sia stata sí súbita la cagione che le preziose robe hai
lasciate e li cari ornamenti, e laltre cose dicevoli alla tua giovine etade; tu,
ancora fanciulla, in sí fatto abito andare non dovresti. Non pensi tu che, lasciandolo
ora, per innanzi ripigliar nol potrai? Usa gli anni secondo la loro qualità. Questo abito
di tanta onestade da te preso non ti falla per innanzi. Vedi qui qualunque di noi, piú di
te attempate, ornate con maestra mano, e d'artificiali drappi e onorevoli vestite, e cosí
tu similemente dovresti essere ornata.
A costei e a piú altre aspettanti le mie parole rendo io
con umile voce cotale risposta:
- Donne, o per piacere a Dio o agli uomini si viene a
questi templi. Se per piacere a Dio ci si viene, l'anima ornata di virtú basta, né forza
fa, se il corpo di cilicio fosse vestito; se per piacere agli uomini ci si viene, con ciò
sia cosa che la maggior parte, da falso parere adombrati per le cose esteriori giudichino
quelle dentro, confesso che gli ornamenti usati e da voi e da me per addietro, si
richieggiono. Ma io di ciò non ho cura, anzi, dolente delle passate vanità, volonterosa
d'ammendare nel cospetto d'Iddio, mi rendo quanto posso dispetta agli occhi vostri.
E quinci le lagrime dallintrinseca verità cacciate
per forza fuori mi bagnano il mesto viso, e con tacita voce cosí con meco medesima dico:
«O Iddio, veditore de nostri cuori, le non vere
parole dette da me non m'imputare in peccato. Come tu vedi, non volontà d'ingannare, ma
necessità di ricoprire le mie angoscie a quelle mi strigne, anzi piuttosto merito me ne
rendi, considerando che'l malvagio essemplo levando, alle tue creature il do buono: egli
m'è grandissima pena il mentire, e con faticoso animo la sostengo, ma piú non posso».
Oh quante volte, o donne, ho io per questa iniquità
pietose laude ricevute, dicendo le circustanti donne me divotissima giovine di vanissima
ritornata! Certo, io intesi piú volte di molte essere oppinione, me di tanta amicizia
essere congiunta con Dominedio, che niuna grazia a lui da me dimandata, negata sarebbe; e
piú volte ancora dalle sante persone per santa fui visitata, non conoscendo esse quel che
nell'animo nascondea il tristo viso, e quanto li miei disiderii .fossero lontani alle mie
parole. O ingannevole mondo, quanto possono in te glinfinti visi piú che li giusti
animi, se l'opere sono occulte! Io, piú peccatrice che altra, dolente per li miei
disonesti amori, però che quelli velo sotto oneste parole, sono reputata santa; ma
conoscelo Iddio, che, se senza pericolo essere potesse, io con vera voce di me sgannerei
ogni ingannata persona, né celerei la cagione che trista mi tiene; ma non si puote.
Come io ho a quella, che prima addimandata m'avea,
risposto, l'altra dal mio lato, veggendo le mie lagrime rasciugare, dice:
- O Fiammetta, dov'è fuggita la vaga bellezza del viso
tuo? Dove l'acceso colore? Quale è la cagione della tua palidezza? Gli occhi tuoi, simili
a due mattutine stelle, ora intorniati di purpureo giro, perché appena nella tua fronte
si scernono? E gli aurei crini con maestrevole mano ornati per addietro, ora perché
chiusi appena si veggono senza alcuno ordine? Dilloci, tu ne fai senza fine maravigliare.
Da questa con poche parole sciogliendomi, dico:
- Manifesta cosa è l'umana bellezza essere fiore caduco e
da un giorno ad un altro venire meno, la quale se di sé dà fidanza ad alcuna,
miseramente a lungo andare se ne trova prostrata. Quegli che la mi diede, con sordo passo
sottomettendomi le cagioni da cacciarla! se lha ritolta, possibile a renderlami,
quando gli pur piacesse.
E questo detto, non potendo le lagrime ritenere, chiusa
sotto il mio mantello, copiosamente le spando, e meco con cotali parole mi dolgo:
«O bellezza, dubbioso bene de mortali, dono di piccolo
tempo, la quale piú tosto vieni e pàrtiti, che non fanno ne' dolci tempi della primavera
i piacevoli prati risplendenti di molti fiori, e gli eccelsi alberi carichi di varie
frondi, li quali, ornati dalla virtú d'Ariete, dal caldo vapor della state sono guasti e
tolti via; e se forse alcuni pure ne risparmia il caldo tempo, niuno dall'autunno è
risparmiato; cosí e tu, bellezza, le piú volte nel mezzo de migliori anni da molti
accidenti offesa perisci, alla quale, se forse pure ti perdona la giovinezza, la matura
età a forza te resistente ne porta O bellezza, tu se' cosa fugace, non altramente che
l'onde mai non tornanti alle sue fonti, e in te fragile bene niuno savio si dee confidare.
Ohimè! quanto già t'amai, e quanto a me misera fosti cara, e con sollecitudine
riguardata! Ora, e meritamente, ti maladico. Tu prima cagione de miei danni, e prenditrice
prima dell'animo del caro amante, lui non hai avuto forza di ritenere, né lui partito di
rivocare. Se tu non fossi stata, io non sarei piaciuta agli occhi vaghi di Panfilo; e, non
essendo piaciuta, egli non si sarebbe ingegnato di piacere alli miei; e non essendo egli
piaciuto, sí come piacque, ora non avrei queste pene. Dunque tu sola cagione e origine
se' d'ogni mio male. Oh, beate quelle che senza te li rimproveri della rustichezza
sostengono! Esse caste le sante leggi osservano, e senza stimoli possono vivere con
l'anime libere dal crudele tiranno Amore; ma tu a noi cagione di continuo infestamento
ricevere da chi ci vede, a forza ci conduci a rompere quello che piú caramente si dee
guardare. O felice Spurinna e degno d'etterna fama, il .quale, li tuoi effetti conoscendo,
nel fiore della sua gioventude da sé con mano acerba ti discacciò eleggendo piuttosto
volere da' savii per virtuosa opera essere amato, che dalle lascive giovini per la sua
concupiscevole bellezza. Ohimè! cosí avessi fatto io! Tutti questi dolori, questi
pensieri e queste lagrime sarebbero lontane, e la vita per addietro corrotta ancora ne'
termini primi laudevoli si sarebbe».
Quinci mi richiamano le donne, e biasimano le mie soperchie
lagrime, dicendo:
- O Fiammetta, che maniera è questa? Disperiti tu della
misericordia di Dio? Non credi tu lui pietoso a perdonarti le tue piccole offese senza
tante lagrime? Questo che tu fai è piuttosto cercare morte che perdono. Lieva su, asciuga
il viso tuo, e attendi al sacrificio pòrto al sommo Giove dalli nostri sacerdoti.
A queste voci io, le lagrime restrignendo, alzo la testa,
la quale già in giro non volgo come io soleva, fermamente sappiendo che quivi non è il
mio Panfilo ,per mirarlo, né per vedere se da altrui, o da cui sono mirata, o quello che
di me pare agli occhi de circustanti; anzi attenta a colui, che per la salute di
tutti diede se medesimo; porgo pietosi prieghi per lo mio Panfilo, e per la sua tornata,
con cotali parole tentandolo:
- O grandissimo rettore del sommo cielo e generale arbitro
di tutto il mondo, poni oramai alle mie gravi fatiche modo, e fine alli miei affanni. Vedi
niuno giorno a me essere sicuro; continuamente il fine dell'uno male è a me principio
dell'altro. Io, che già mi dissi felice, non conoscendo le mie miserie, prima ne
vani affanni d'ornare la mia giovinezza, piú che l debito ornata dalla natura, te
non sapevole offendendo, per penitenza allindissolubile amore che ora mi stimola mi
sottoponesti; quinci la mente non usa a cosí gravi affanni riempiesti per quello di nuove
cure, e ultimamente colui, cui io piú che me amo, da me dividesti, onde infiniti pericoli
sono cresciuti l'uno dopo l'altro alla mia vita. Deh, se li .miseri sono da te uditi
alcuna volta, porgi li tuoi pietosi orecchi alli miei prieghi, e senza guardare a' molti
falli da me verso te commessi, i pochi beni, se mai ne feci alcuno, benigno considera, e
in merito di quelli le mie orazioni e preghiere essaudisci, le quali, cose a te assai
leggiere, e a me grandissime, conterranno: io non ti cerco altro, se non che a me sia
renduto il mio Panfilo. Ohimè! quanto e come conosco bene questa preghiera nel cospetto
di te giustissimo giudice essere ingiusta!
Ma dalla tua giustizia medesima si dee muovere il meno male
piuttosto volere che 'l maggiore. A te, a cui niente s'occulta, è manifesto a me per
niuna maniera potere uscire della mente il grazioso amante né li preteriti accidenti, del
quale e de quali la memoria a sí fatto partito mi rieca con gravi dolori, che già
per fuggirli mille modi di morte ho dimandati; li quali tutti un poco di speranza, che di
te m'è rimasa, mha levati di mano. Dunque, se minore male è il mio amante tenere,
come io già tenni, che insieme il corpo uccidere con l'anima trista, sí come io credo,
torni e rendamisi. Sieti piú caro li peccatori vivere, e possibili a te conoscere! che
morti, senza speranza di redenzione, e vogli innanzi parte che tutto perdere delle
creature da te create.
E se questo è grave ad essermi conceduto, concedamisi
quella che d'ogni male è ultimo fine, prima che io costretta da maggiore doglia, da me
con diterminato consiglio la prenda. Vengano le mie voci nel tuo cospetto; le quali se te
toccare non possono, o qualunque altri iddii tenenti le celestiali regioni s'alcuno di voi
vi si trova, il quale mai quaggiú vivendo, quell'amorosa fiamma provasse la quale io
pruovo, ricevetele, e per me le porgete a colui, il quale da me non le prende, si che
impetrandomi grazia, prima quaggiú lietamente, e poi nella fine de miei giorni
costassú con voi io possa vivere, e innanzi tratto alli peccatori dimostrare convenevole
l'uno peccatore all'altro perdonare, e dare aiuto.
Queste parole dette, odorosi incensi e degne offerte, per
farli abili a' prieghi miei e alla salute di Panfilo, pongo sopra li loro altari; e,
finite le sacre cerimonie, con l'altre donne partendomi, torno alla trista casa.
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe Bonghi -
bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 06 febbraio 1998