Giovanni Boccaccio
Elegia di Madonna Fiammetta
Capitolo I.
(parte seconda)
Già s'era, senza più favellarmi,
partita la cara balia, li cui consigli male per me rifiutai, e io, sola rimasa, le sue
parole nel sollecito petto fra me volgea; e ancora che abbagliato fosse il mio
conoscimento, di frutto le sentiva piene e quasi ciò che assertivamente avea davant a lei
detto di voler pur seguire, pentendomi, nella mente mi vacillava, e già cominciando a
pensare di volere lasciare andare le cose meritevolmente dannate, lei voleva richiamare
alli miei conforti; ma nuovo e sùbito accidente me ne rivolse, però che nella secreta
mia camera, non so onde venuta, una bellissima donna s'offerse agli occhi miei, circundata
da tanta luce che appena la vista la sostenea. Ma pure stando essa ancora tacita nel mio
cospetto, quanto potei per lo lume gli occhi aguzzare tanto li pinsi avanti, infino a
tanto che alla mia conoscenza pervenne la bella forma, e vidi lei ignuda, fuori solamente
d'uno sottilissimo drappo purpureo, il quale, avvegna che in alcune parti il candidissimo
corpo coprisse, di quello non altramente toglieva la vista a me mirante, che posta figura
sotto chiaro vetro, e la sua testa, li capelli della quale tanto di chiarezza l'oro
passavano, quanto l'oro de' nostri passa li vie più biondi, avea coperta d'una ghirlanda
di verdi mortine, sotto l'ombra della quale io vidi due occhi di bellezza incomparabile, e
vaghi a riguardare oltremodo, rendere mirabile luce; e tanto tutto l'altro viso avea bello
quanto quaggiù a quello simile non si trova. Ella non dicea alcuna cosa, anzi o forse
contenta ch'io la riguardassi, ovvero me vedendo di riguardarla contenta, a poco a poco
tra la fulvida luce di sé le belle parti m'apriva più chiare, per che io bellezze in lei
da non potere con lingua ridire, né senza vista pensare intra' mortali, conobbi. La quale
poi che sé da me considerata per tutto s'avvide, veggendomi maravigliare e della sua
beltade e della sua venuta quivi, con lieto viso e con voce più che la nostra assai
soave, così verso me cominciò a parlare:
«O giovine, assai più che alcuna altra mobile, che per li
nuovi consigli della vecchia balia t'apparecchi di fare? Non conosci tu che essi sono
molto più difficili a seguitare, che l'amore medesimo che disideri di fuggire? Non pensi
tu quanto e quale e come importabile affanno essi ti servino? Tu, stoltissima, nuovamente
nostra, per le parole d'una vecchia, non nostra farti disideri, sì come colei che ancora
quali e quanti sieno i nostri diletti non sai. O poco savia, sostieni, e per le nostre
parole riguarda se a te quello che al cielo e al mondo è bastato è assai. Quantunque
Febo, surgente co' chiari raggi di Gange, insino all'ora che nell'onde d'Esperia si tuffa
con li lassi carri, alle sue fatiche dare requie, vede nel chiaro giorno, e ciò che tra
'l freddo Arturo e 'l rovente polo si inchiude, signoreggia il nostro volante figliuolo
senza alcuno niego. E ne' cieli, non che egli sì come gli altri sia iddio, ma ancora vi
è tanto più che gli altri potente, quanto alcuno non ve n'è che stato non sia per
addietro vinto dalle sue armi. Questi, con dorate piume leggierissimo in un momento
volando per li suoi regni, tutti li visita, e il forte arco reggendo sovra il tirato nervo
adatta le sue saette da noi fabbricate e temperate nelle nostre acque; e quando alcuno
più degno che gli altri elegge al suo servigio, quello prestissimamente manda ove gli
piace.
Egli commuove le ferocissime fiamme de' giovini, e negli
stanchi vecchi richiama gli spenti calori, e con non conosciuto fuoco delle vergini
infiamma li casti petti, parimente le maritate e le vedove riscaldando. Questi con le sue
fiaccole riscaldati gl'iddii, comandò per addietro che essi, lasciati li cieli, con falsi
visi abitassero le terre. Or non fu Febo vincitore del gran Fitone, e accordatore delle
cetare di Parnaso, più volte da costui soggiogato, ora per Danne, ora per Climenés e
quando per Leucotoe e per altre molte? Certo sì; e ultimamente, rinchiusa la sua gran
luce sotto la vile forma d'un piccolo pastore, innamorato guardò gli armenti d'Ameto.
Giove medesimo, il quale regge il cielo, costrignendolo
costui, si vestì minor forma di sé. Egli alcuna volta in forma di candido uccello
movendo l'ali diede voci più dolci che 'l moriente cigno; e altra volta, divenuto
giovenco e poste alla sua fronte corna, mugghiò per li campi, e i suoi dossi umiliò alli
giuochi virginei, e per li fraterni regni con le fesse unghie, imitando oficio di remi,
con forte petto vietando il profondo, godé della sua rapina. Quello che per Semelè nella
propria forma facesse, quello che per Almena mutato in Anfitrione, quello che per Calisto
mutato in Diana, o per Danae divenuto oro già fece, non diciamo, ché sarebbe troppo
lungo. E il fiero iddio delle armi, la cui rossezza ancora spaventa li giganti, sotto la
sua potenza temperò li suoi aspri effetti, e divenne amante. E il costumato al fuoco
fabro di Giove, e facitore delle trisulche folgori, da quel di costui più possente fu
cotto. E noi similmente, ancora che madre gli siamo, non ce ne siamo potuta guardare, sì
come le nostre lagrime fecero aperto nella morte d'Adone. Ma perché ci fatichiamo noi in
tante parole? Niuna deità è nel cielo da costui non ferita, se non Diana: questa sola,
ne' boschi dilettandosi, l'ha fuggito, la quale, secondo l'oppinione d'alcuno, non
fuggito, ma piuttosto nascoso.
Ma se tu forse gli essempli del cielo incredula schifi e
cerchi chi del mondo gli abbia sentiti, tanti sono, che da cui cominciare appena ci
occorre; ma tanto ti diciamo veramente, che tutti sono stati valorosi. Rimirisi primamente
al fortissimo figliuolo di Almena, il quale, poste giù le saette e la minaccevole le
pelle del gran leone, sostenne d'acconciarsi alle dita i verdi smeraldi, e di dar legge
alli rozzi capelli, e con quella mano, con la quale poco innanzi portato avea la dura
mazza e ucciso il grande Anteo e tirato lo infernale cane, trasse le fila della lana data
da Jole dietro al procedente fuso, e gli omeri, sopra li quali l'alto cielo s'era posato
mutando spalla Atlante, furono in prima dalle braccia di Jole premuti, e poi coperti, per
piacerle, di sottili vestimenti di porpora. Che fece Parìs per costui, che Elena, che
Clitemestra, e che Egisto, tutto il mondo il conosce; e similmente di Achille, di Silla,
di Adriana, di Leandro, di Didone, e di più molti, non dico, ché non bisogna. Santo è
questo fuoco, e molto potente, credimi.
Udito hai il cielo e la terra soggiogata dal mio figliuolo
negl'iddii e negli uomini; ma che dirai tu ancora delle sue forze, estendentisi negli
animali irrazionali, così celesti come terreni? Per costui la tortora il suo maschio
séguita, e le nostre colombe alli suoi colombi vanno dietro con caldissima affezione, e
nessun altro n'è che dalla maniera di questi fugga alcuna volta; e ne' boschi li timidi
cervi, fatti tra sé feroci quando costui li tocca, per le disiderate cervie combattono,
e, mugghiando, delli costui caldi mostrano segnali; e i pessimi cinghiari, divenendo per
ardore spumosi, aguzzano gli eburnei denti; e i leoni africani, da amore tocchi, vibrano i
colli. Ma, lasciando le selve, dico che li dardi del nostro figliuolo ancora nelle fredde
acque sentono le greggie de' marini iddii, e de' correnti fiumi. Né crediamo che occulto
ti sia, quale testimonianza già Nettunno, Glauco e Alfeo e altri assai n'abbiano renduta,
non potendo con le loro umide acque, non che spegnere, ma solamente alleviare la costui
fiamma; la quale, ancora già sopra terra e nell'acque saputa da ciascuno, se ne venne
penetrando la terra e infino al re dell'oscure paludi si fe' sentire.
Adunque il cielo, la terra, il mare, lo 'nferno per
esperienza conoscono le sue armi; e acciò che io in brievi parole ogni cosa comprenda
della potenza di costui, dico che ogni cosa alla natura suggiace, e da lei niuna potenza
è libera, ed essa medesima è sotto Amore. Quando costui il comanda, gli antichi odii
periscono, e le vecchie ire e le novelle dànno luogo alli suoi fuochi; e ultimamente,
tanto si distende il suo potere, che alcuna volta le matrigne fa graziose a' figliastri,
che è non piccola maraviglia. Dunque che cerchi? Che dubiti? Che mattamente fuggi? Se
tanti iddii, tanti uomini, tanti animali, da questo son vinti, tu d'essere vinta da lui ti
vergognerai? Tu non sai che ti fare. Se tu forse di sottometterti a costui aspetti
riprensione, ella non ci dee potere cadere, perciò che mille falli maggiori, e il seguire
ciò che gli altri più di te eccellenti hanno fatto, te, come poco avendo fallito e meno
potente che li già detti, renderanno scusata.
Ma se queste parole non ti muovono, e pure resistere
vorrai, pensa la tua virtù non simile a quella di Giove, né in senno potere aggiugnere
Febo, né in ricchezze Giunone, né noi in bellezze; e tutti siamo vinti. Dunque tu sola
credi vincere? Tu se' ingannata, e ultimamente pur perderai. Bastiti quello che per
innanzi a tutto il mondo è bastato, né ti faccia a ciò tiepida il dire: «Io ho marito,
e le sante leggi e la promessa fede mi vietano queste cose»; però che argomenti
vanissimi sono contro alla costui virtù. Elli, sì come più forte, l'altrui leggi non
curando annullisce, e dà le sue. Pasife similmente avea marito, e Fedra, e noi ancora
quando amammo. Essi medesimi mariti amano le più volte avendo moglie: riguarda Giasone,
Teseo, il forte Ettore e Ulisse. Dunque non si fa loro ingiuria, se per quelle leggi che
essi trattano altrui, sono trattati essi; a loro niuna prerogativa più che alle donne è
conceduta, e però abandona gli sciocchi pensieri, e sicura ama, come hai cominciato.
Ecco, se tu al potente Amore non vuoi suggiacere, fuggire ti conviene; e dove fuggirai tu
ch'egli non ti séguiti e non ti giunga? Egli ha in ogni luogo iguale potenza: dovunque tu
vai, ne' suoi regni dimori, ne' quali alcuno non gli si può nascondere, quando gli piace
il ferirlo. Bastiti solamente, o giovine, che di non abominevole fuoco, come Mirra,
Semiramìs, Biblìs, Canace e Cleopatra fece, ti molesti. Niuna cosa nuova dal nostro
figliuolo verso te sarà operata: egli ha così leggi, come qualunque altro iddio, alle
quali seguire tu non se' prima, né d'essere ultima dei avere speranza. Se forse al
presente ti credi sola, vanamente credi. Lasciamo stare l'altro mondo, che tutto n'è
pieno: ma la tua città solamente rimira, la quale infinite compagne ti può mostrare; e
ricorditi che niuna cosa fatta da tanti, meritamente si può dire sconcia. Séguita
adunque noi, e la molto riguardata bellezza con la deità nostra vera ringrazia, la quale
del numero delle semplici, a conoscere il diletto de' nostri doni, t'abbiamo tirata.
Deh, donne pietose, se Amore felicemente adempia i vostri
disii, che doveva io, e che potea rispondere a tante e tali parole, e di tale dèa, se
non: «Sia come ti piace»? Adunque dico che ella già tacea, quando io, le sue parole
avendo nello 'ntelletto raccolte, fra me piene d'infinite scuse sentendole, e lei già
conoscendo, a ciò fare mi disposi. E subitamente del letto levatami, e poste con umile
cuore le ginocchia in terra, così temorosa incominciai:
«O singulare bellezza ed etterna, o deità celeste, o
unica donna della mia mente, la cui potenza sente più fiera chi più si difende, perdona
alla semplice resistenza fatta da me contro all'armi del tuo figliuolo, non conosciuto, e
di me sia come ti piace, e, come prometti, a luogo e tempo merita la mia fede, acciò che
io, di te tra l'altre lodandomi, cresca il numero de' tuoi sudditi senza fine».
Queste parole aveva io appena dette, quando ella del luogo
dove stava mossasi, verso me venne, e con ferventissimo disio nel sembiante,
abbracciandomi, mi baciò la fronte. Poi, quale il falso Ascanio, nella bocca a Didone
alitando, accese l'occulte fiamme, cotale a me in bocca spirando fece li primi disii più
focosi, com'io sentii. E aperto alquanto il drappo purpureo, nelle sue braccia tra le
dilicate mammelle, l'effigie dell'amato giovine, ravvolta nel sottile pallio, con
sollecitudini alle mie non dissimili, mi fece vedere, e così disse:
«O giovine donna, riguarda costui: non Lissa, non Geta,
non Birria, né loro pari t'abbiamo per amante donato: egli è per ogni cosa degno
d'essere da qualunque dèa amato; te più che se medesimo, sì come noi abbiamo voluto,
ama, e amerà sempre; e però lieta e sicura nel suo amore t'abandona. Li tuoi prieghi
hanno con pietà tocchi li nostri orecchi sì come degni, e però spera che secondo
l'opera senza fallo merito prenderai.
E quinci senza più dire sùbita si tolse agli occhi miei.
Ohimè misera! che io non dubito che, le cose seguite
mirando, non Venere costei che m'apparve, ma Tesifone fosse piuttosto, la quale posti più
giù gli spaventevoli crini non altramente che Giunone la chiarezza della sua deità, e
vestita la splendida forma, quale quella si vestì la senile, così mi si fece vedere come
essa a Semelè, simigliante consiglio di distruzione ultima, qual fece ella, porgendomi;
il quale io miseramente credendo, o pietosissima fede, o reverenda vergogna, o castità
santissima, delle oneste donne unico e caro tesoro, mi fu cagione di cacciarvi. Ma
perdonatemi, se penitenzia data al peccatore può, sostenuta, perdono alcuna volta
impetrare.
Poi che del mio cospetto si fu partita la dea, io ne' suoi
piaceri con tutto l'animo rimasi disposta; e come che ogn'altro senno mi togliesse la
passione furiosa che io sostenea, non so per quale mio merito, solo un bene di molti
perduti mi fu lasciato, cioè il conoscere che rade volte, o non mai, fu ad amore palese
conceduto felice fine. E però, tra gli altri miei più sommi pensieri, quanto che egli mi
fosse gravissimo a fare, disposi di non preporre alla ragione il volere recare a fine
cotal disio. E certo, quanto che io molte volte fossi per diversi accidenti
fortissimamente costretta, pure tanto di grazia mi fu conceduto, che senza trapassare il
segno, virilmente sostenendo l'affanno passai. E in verità ancora durano le forze a tal
consiglio, però che quantunque io scriva cose verissime, sotto sì fatto ordine l'ho
disposte che, eccetto colui che così come io le sa, essendo di tutte cagione, niuno
altro, per quantunque avesse acuto l'avvedimento, potrebbe chi io mi fossi conoscere. E io
lui priego, se mai per avventura questo libretto alle mani gli perviene, che egli, per
quello amore il quale già mi portò, che celi quello che a lui né utile né onore può,
manifestandol, tornare. E s'egli m'ha tolto, senza averlo io meritato, sé, non mi voglia
tòrre quello onore, il quale avvegna che io ingiustamente porti, esso come sé, volendo,
non mi potrebbe rendere giammai.
Cotale proponimento adunque servando, e sotto grave peso di
sofferenza domando li miei disii volonterosissimi di mostrarsi, m'ingegnai con
occultissimi atti, quando tempo mi fu conceduto, d'accendere il giovine in quelle medesime
fiamme ove io ardea, e di farlo cauto come io era. E in verità in ciò non mi fu luogo
lunga fatica, però che, se ne' sembianti vera testimonianza della qualità del cuore si
comprende, io in poco tempo conobbi al mio disiderio esser seguito l'effetto; e non
solamente dell'amoroso ardore, ma ancora di cautela perfetta il vidi pieno; il che
sommamente mi fu a grado. Esso con intera considerazione, vago di servare il mio onore, e
d'adempiere, quando i luoghi e i tempi il concedessero, li suoi disii, credo non senza
gravissima pena, usando molta arte, s'ingegnò d'avere la familiarità di qualunque m'era
parente, e ultimamente del mio marito; la quale non solamente ebbe, ma ancora con tanta
grazia la possedette, che a niuno niuna cosa era a grado, se non tanto quanto con lui la
comunicava. Quanto questo mi piacesse, credo che senza scriverlo il conosciate: e chi
sarebbe quella sì stolta, che non credesse che sommamente da questa familiarità nacque
il potermi alcuna volta, e io a lui, in publico favellare?
Ma già parendogli tempo da procedere a più sottili cose,
ora con uno, ora con un altro, quando vedeva che io e udire potessi e intenderlo, parlava
cose, per le quali io, volonterosissima d'imparare, conobbi che non solamente favellando
si poteva l'affezione dimostrare ad altrui e la risposta pigliarne, ma eziandio con atti
diversi e delle mani e del viso si poteva fare; e ciò piacendomi molto, con tanto
avvedimento il compresi che né egli a me, né io a lui, significare voleva alcuna cosa,
che assai convenevolmente l'uno l'altro non intendesse. Né a questo contento stando,
s'ingegnò, per figura parlando, e d'insegnarmi a tale modo parlare, e di farmi più certa
de' suoi disii, me Fiammetta, e sé Panfilo nominando. Ohimè! quante volte già in mia
presenza e de' miei più cari, caldo di festa e di cibo e d'amore, fingendo Fiammetta e
Panfilo essere stati greci, narrò egli come io di lui, ed esso di me primamente stati
eravamo presi, quanti accidenti poi n'erano seguitati, e a' luoghi e alle persone
pertinenti alla novella dando convenevoli nomi! Certo io ne risi più volte, e non meno
della sua sagacità che della semplicità degli ascoltanti; e tal volta fu che io temetti
che troppo caldo non trasportasse la lingua disavvedutamente dove essa andare non voleva;
ma egli, più savio che io non pensava, astutissimamente si guardava dal falso latino.
O pietosissime donne, che non insegna Amore a' suoi
suggetti, e a che non li fa egli abili ad imparare? Io, semplicissima giovine e appena
potente a disciogliere la lingua nelle materiali e semplici cose tra le mie compagne, con
tanta affezione li modi del parlare di costui raccolsi, che in brieve spazio io avrei di
fingere e di parlare passato ogni poeta; e poche cose furono alle quali, udita la sua
posizione, io con una finta novella non dessi risposta dicevole. Cose assai, secondo il
mio parere, malagevoli ad imprendere, e molto più ad operare ad una giovine, ho
raccontate, ma tutte piccolissime, e di niuno peso parrebbero, scrivendo io, se la materia
presente il richiedesse, con quanta sottile esperienza fosse per noi provata la fede d'una
mia familiarissima serva, alla quale diliberammo di commettere il nascoso fuoco ancora a
niun'altra persona palese, considerando che lungamente senza gravissimo affanno, non
essendovi alcuno mezzo, non si poteva servare. Oltre a questo sarebbe lungo il raccontare
quanti e quali consigli e per lui e per me a varie cose fossero presi; forse, non che per
altrui operati, ma appena ch'io creda che pensati giammai; le quali tutte, ancora che io
al presente in mio detrimento le conosca operate, non però mi duole d'averle sapute.
Se io, o donne, non erro imaginando, egli non fu piccola la
fermezza degli animi nostri, se con intera mente si guarda quanto difficile cosa sia due
amorose menti, e di due giovini, sostenere un lungo tempo che esse, o d'una parte o
d'un'altra, da soperchi disii sospinte, della ragionevole via non trabocchino; anzi fu
bene tanta e tale, che li più forti uomini, ciò facendo, laude degna e alta ne
acquisterieno.
Ma la mia penna, meno onesta che vaga, s'apparecchia di
scrivere quegli ultimi termini d'amore, a' quali a niuno è conceduto il potere, né con
disio né con opera, andare più oltre. Ma in prima che io a ciò pervenga, quanto più
supplicemente posso la vostra pietà invoco, e quella amorosa forza, la quale ne' vostri
teneri petti stando, a cotale fine tira li vostri disii, e priegole che, se 'l mio parlare
vi par grave (dell'opera non dico, ché so che, se a ciò state non sete già, d'esservi
disiate), che esse prontissime in voi surgano alla mia scusa. E tu, o onesta vergogna,
tardi da me conosciuta, perdonami; e alquanto ti priego che qui presti luogo alle timide
donne, acciò che, da te non minacciate, sicure di me leggano ciò che di sé, amando,
disiano.
L'uno giorno all'altro dopo traevano con isperanza
sollecita li suoi e miei disii; e ciò ciascuno agramente portava, avvegna che l'uno il
dimostrasse all'altro occultamente parlando, e l'altro all'uno di ciò si mostrasse schifo
oltremodo, sì come voi medesime, le quali forse forza cercate a ciò che più vi sarebbe
a grado, sapete che sogliono le donne amate fare. Esso adunque, in ciò poco alle mie
parole credevole, luogo e tempo convenevole riguardato, più in ciò che gli avvenne
avventurato che savio, e con più ardire che ingegno, ebbe da me quello che io, sì come
egli, benché del contrario infignessimi, disiava. Certo, se questa fosse la cagione per
la quale io l'amassi, io confesserei che ogni volta che ciò nella memoria mi tornasse, mi
fosse dolore a niuno altro simile; ma in ciò mi sia Iddio testimonio che cotale accidente
fu ed è cagione menomissima dell'amore che io gli porto; non pertanto niego che ciò, e
ora e allora, non mi fosse carissimo. E chi sarebbe quella sì poco savia, che una cosa
che amasse non volesse, anzi che lontana, vicina? e quanto maggiore fosse l'amore più
sentirsela appresso? Dico adunque che, dopo cotale avvenimento, da me avanti non che
saputo, ma pur pensato, non una volta, ma molte con sommo piacere, e la fortuna e il
nostro senno ci consolò lungo tempo a tale partito, avvegna che a me ora in brieve più
che alcuno vento fuggitosi mi si mostri. Ma mentre che questi così lieti tempi passavano,
sì come Amore veramente può dire, il quale solo testimonio ne posso dare alcuna volta
non fu senza tema a me licito il suo venire, che egli per occulto modo non fosse meco. Oh,
quanto gli era la mia camera cara, e come lieta essa lui vedeva volontieri! Io lui conobbi
ad essa più reverente che ad alcuno tempio. Ohimè! quanti piacevoli baci, quanti amorosi
abbracciari, quante notti ragionando graziose più che il chiaro giorno senza sonno
passate, quanti altri diletti cari ad ogni amante in quella avemmo ne' lieti tempi! O
santissima vergogna, durissimo freno alle vaghe menti, perché non ti parti tu
pregandotene io? Perché ritieni tu la mia penna a dimostrare gli avuti beni, acciò che,
mostrati interamente, le seguite infelicità avessero forza maggiore di porre per me
pietà negli amorosi petti? Ohimè! che tu mi offendi, credendomi forse giovare; io
disiderava di dire più cose, ma tu non mi lasci.
Quelle adunque alle quali tanto di privilegio ha la natura
prestato, che per le dette possano quelle che si tacciono comprendere, all'altre non così
savie il manifestino. Né alcuna me, quasi non conoscente di tanto, stolta dica, ché
assai bene conosco che più sarebbe il tacere stato onesto, che ciò manifestare che è
scritto; ma chi può resistere ad Amore, quando egli con tutte le sue forze operando,
s'oppone? Io a questo punto più volte lasciai la penna e più volte, da lui infestata, la
ripresi; e ultimamente a colui al quale io ne' principii non seppi, libera ancora,
resistere, convenne che io, serva, obbedissi. Egli mi mostrò altrettanto li diletti
nascosi valere, quanto li tesori sotto la terra occultati. Ma perché mi diletto io tanto
intorno a queste parole? Io dico che io allora più volte ringraziai la santa dèa
promettitrice e datrice di que' diletti. Oh, quante volte io li suoi altari visitai con
incensi, coronata delle sue fronde, e quante volte biasimai li consigli della vecchia
balia! E oltre a questo, lieta sopra tutte l'altre compagne, scherniva li loro amori,
quello ne' miei parlari biasimando, che più nell'animo mi era caro, fra me sovente
dicendo: «Niuna è amata come io, né ama giovine degno come io amo, né con tanta festa
coglie gli amorosi frutti come colgo io». Io, brievemente, aveva il mondo per nulla, e
con la testa mi parea il cielo toccare, e nulla mancare a me al sommo colmo della
beatitudine tenere, reputava, se non solamente in aperto dimostrare la cagione della mia
gioia, estimando meco medesima che così a ciascuna persona, come a me, dovesse piacere
quello che a me piaceva. Ma tu, o vergogna, dall'una parte, e tu, paura, dall'altra, mi
riteneste, minacciandomi l'una d'etterna infamia, e l'altra di perdere ciò che nemica
fortuna mi tolse poi. Adunque, sì come piacque ad Amore, in cotal guisa più tempo, senza
avere invidia ad alcuna donna, lieta amando vissi, e assai contenta, non pensando che il
diletto il quale io aliora con ampissimo cuore prendea, fosse radice e pianta nel futuro
di miseria, sì come io al presente senza frutto miseramente conosco.
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe Bonghi -
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Ultimo aggiornamento: 06 febbraio 1998