Giovanni Boccaccio

Elegia di Madonna Fiammetta


Capitolo I.

(parte seconda)

      Già s'era, senza più favellarmi, partita la cara balia, li cui consigli male per me rifiutai, e io, sola rimasa, le sue parole nel sollecito petto fra me volgea; e ancora che abbagliato fosse il mio conoscimento, di frutto le sentiva piene e quasi ciò che assertivamente avea davant a lei detto di voler pur seguire, pentendomi, nella mente mi vacillava, e già cominciando a pensare di volere lasciare andare le cose meritevolmente dannate, lei voleva richiamare alli miei conforti; ma nuovo e sùbito accidente me ne rivolse, però che nella secreta mia camera, non so onde venuta, una bellissima donna s'offerse agli occhi miei, circundata da tanta luce che appena la vista la sostenea. Ma pure stando essa ancora tacita nel mio cospetto, quanto potei per lo lume gli occhi aguzzare tanto li pinsi avanti, infino a tanto che alla mia conoscenza pervenne la bella forma, e vidi lei ignuda, fuori solamente d'uno sottilissimo drappo purpureo, il quale, avvegna che in alcune parti il candidissimo corpo coprisse, di quello non altramente toglieva la vista a me mirante, che posta figura sotto chiaro vetro, e la sua testa, li capelli della quale tanto di chiarezza l'oro passavano, quanto l'oro de' nostri passa li vie più biondi, avea coperta d'una ghirlanda di verdi mortine, sotto l'ombra della quale io vidi due occhi di bellezza incomparabile, e vaghi a riguardare oltremodo, rendere mirabile luce; e tanto tutto l'altro viso avea bello quanto quaggiù a quello simile non si trova. Ella non dicea alcuna cosa, anzi o forse contenta ch'io la riguardassi, ovvero me vedendo di riguardarla contenta, a poco a poco tra la fulvida luce di sé le belle parti m'apriva più chiare, per che io bellezze in lei da non potere con lingua ridire, né senza vista pensare intra' mortali, conobbi. La quale poi che sé da me considerata per tutto s'avvide, veggendomi maravigliare e della sua beltade e della sua venuta quivi, con lieto viso e con voce più che la nostra assai soave, così verso me cominciò a parlare:
      «O giovine, assai più che alcuna altra mobile, che per li nuovi consigli della vecchia balia t'apparecchi di fare? Non conosci tu che essi sono molto più difficili a seguitare, che l'amore medesimo che disideri di fuggire? Non pensi tu quanto e quale e come importabile affanno essi ti servino? Tu, stoltissima, nuovamente nostra, per le parole d'una vecchia, non nostra farti disideri, sì come colei che ancora quali e quanti sieno i nostri diletti non sai. O poco savia, sostieni, e per le nostre parole riguarda se a te quello che al cielo e al mondo è bastato è assai. Quantunque Febo, surgente co' chiari raggi di Gange, insino all'ora che nell'onde d'Esperia si tuffa con li lassi carri, alle sue fatiche dare requie, vede nel chiaro giorno, e ciò che tra 'l freddo Arturo e 'l rovente polo si inchiude, signoreggia il nostro volante figliuolo senza alcuno niego. E ne' cieli, non che egli sì come gli altri sia iddio, ma ancora vi è tanto più che gli altri potente, quanto alcuno non ve n'è che stato non sia per addietro vinto dalle sue armi. Questi, con dorate piume leggierissimo in un momento volando per li suoi regni, tutti li visita, e il forte arco reggendo sovra il tirato nervo adatta le sue saette da noi fabbricate e temperate nelle nostre acque; e quando alcuno più degno che gli altri elegge al suo servigio, quello prestissimamente manda ove gli piace.
      Egli commuove le ferocissime fiamme de' giovini, e negli stanchi vecchi richiama gli spenti calori, e con non conosciuto fuoco delle vergini infiamma li casti petti, parimente le maritate e le vedove riscaldando. Questi con le sue fiaccole riscaldati gl'iddii, comandò per addietro che essi, lasciati li cieli, con falsi visi abitassero le terre. Or non fu Febo vincitore del gran Fitone, e accordatore delle cetare di Parnaso, più volte da costui soggiogato, ora per Danne, ora per Climenés e quando per Leucotoe e per altre molte? Certo sì; e ultimamente, rinchiusa la sua gran luce sotto la vile forma d'un piccolo pastore, innamorato guardò gli armenti d'Ameto.
      Giove medesimo, il quale regge il cielo, costrignendolo costui, si vestì minor forma di sé. Egli alcuna volta in forma di candido uccello movendo l'ali diede voci più dolci che 'l moriente cigno; e altra volta, divenuto giovenco e poste alla sua fronte corna, mugghiò per li campi, e i suoi dossi umiliò alli giuochi virginei, e per li fraterni regni con le fesse unghie, imitando oficio di remi, con forte petto vietando il profondo, godé della sua rapina. Quello che per Semelè nella propria forma facesse, quello che per Almena mutato in Anfitrione, quello che per Calisto mutato in Diana, o per Danae divenuto oro già fece, non diciamo, ché sarebbe troppo lungo. E il fiero iddio delle armi, la cui rossezza ancora spaventa li giganti, sotto la sua potenza temperò li suoi aspri effetti, e divenne amante. E il costumato al fuoco fabro di Giove, e facitore delle trisulche folgori, da quel di costui più possente fu cotto. E noi similmente, ancora che madre gli siamo, non ce ne siamo potuta guardare, sì come le nostre lagrime fecero aperto nella morte d'Adone. Ma perché ci fatichiamo noi in tante parole? Niuna deità è nel cielo da costui non ferita, se non Diana: questa sola, ne' boschi dilettandosi, l'ha fuggito, la quale, secondo l'oppinione d'alcuno, non fuggito, ma piuttosto nascoso.
      Ma se tu forse gli essempli del cielo incredula schifi e cerchi chi del mondo gli abbia sentiti, tanti sono, che da cui cominciare appena ci occorre; ma tanto ti diciamo veramente, che tutti sono stati valorosi. Rimirisi primamente al fortissimo figliuolo di Almena, il quale, poste giù le saette e la minaccevole le pelle del gran leone, sostenne d'acconciarsi alle dita i verdi smeraldi, e di dar legge alli rozzi capelli, e con quella mano, con la quale poco innanzi portato avea la dura mazza e ucciso il grande Anteo e tirato lo infernale cane, trasse le fila della lana data da Jole dietro al procedente fuso, e gli omeri, sopra li quali l'alto cielo s'era posato mutando spalla Atlante, furono in prima dalle braccia di Jole premuti, e poi coperti, per piacerle, di sottili vestimenti di porpora. Che fece Parìs per costui, che Elena, che Clitemestra, e che Egisto, tutto il mondo il conosce; e similmente di Achille, di Silla, di Adriana, di Leandro, di Didone, e di più molti, non dico, ché non bisogna. Santo è questo fuoco, e molto potente, credimi.
      Udito hai il cielo e la terra soggiogata dal mio figliuolo negl'iddii e negli uomini; ma che dirai tu ancora delle sue forze, estendentisi negli animali irrazionali, così celesti come terreni? Per costui la tortora il suo maschio séguita, e le nostre colombe alli suoi colombi vanno dietro con caldissima affezione, e nessun altro n'è che dalla maniera di questi fugga alcuna volta; e ne' boschi li timidi cervi, fatti tra sé feroci quando costui li tocca, per le disiderate cervie combattono, e, mugghiando, delli costui caldi mostrano segnali; e i pessimi cinghiari, divenendo per ardore spumosi, aguzzano gli eburnei denti; e i leoni africani, da amore tocchi, vibrano i colli. Ma, lasciando le selve, dico che li dardi del nostro figliuolo ancora nelle fredde acque sentono le greggie de' marini iddii, e de' correnti fiumi. Né crediamo che occulto ti sia, quale testimonianza già Nettunno, Glauco e Alfeo e altri assai n'abbiano renduta, non potendo con le loro umide acque, non che spegnere, ma solamente alleviare la costui fiamma; la quale, ancora già sopra terra e nell'acque saputa da ciascuno, se ne venne penetrando la terra e infino al re dell'oscure paludi si fe' sentire.
      Adunque il cielo, la terra, il mare, lo 'nferno per esperienza conoscono le sue armi; e acciò che io in brievi parole ogni cosa comprenda della potenza di costui, dico che ogni cosa alla natura suggiace, e da lei niuna potenza è libera, ed essa medesima è sotto Amore. Quando costui il comanda, gli antichi odii periscono, e le vecchie ire e le novelle dànno luogo alli suoi fuochi; e ultimamente, tanto si distende il suo potere, che alcuna volta le matrigne fa graziose a' figliastri, che è non piccola maraviglia. Dunque che cerchi? Che dubiti? Che mattamente fuggi? Se tanti iddii, tanti uomini, tanti animali, da questo son vinti, tu d'essere vinta da lui ti vergognerai? Tu non sai che ti fare. Se tu forse di sottometterti a costui aspetti riprensione, ella non ci dee potere cadere, perciò che mille falli maggiori, e il seguire ciò che gli altri più di te eccellenti hanno fatto, te, come poco avendo fallito e meno potente che li già detti, renderanno scusata.
      Ma se queste parole non ti muovono, e pure resistere vorrai, pensa la tua virtù non simile a quella di Giove, né in senno potere aggiugnere Febo, né in ricchezze Giunone, né noi in bellezze; e tutti siamo vinti. Dunque tu sola credi vincere? Tu se' ingannata, e ultimamente pur perderai. Bastiti quello che per innanzi a tutto il mondo è bastato, né ti faccia a ciò tiepida il dire: «Io ho marito, e le sante leggi e la promessa fede mi vietano queste cose»; però che argomenti vanissimi sono contro alla costui virtù. Elli, sì come più forte, l'altrui leggi non curando annullisce, e dà le sue. Pasife similmente avea marito, e Fedra, e noi ancora quando amammo. Essi medesimi mariti amano le più volte avendo moglie: riguarda Giasone, Teseo, il forte Ettore e Ulisse. Dunque non si fa loro ingiuria, se per quelle leggi che essi trattano altrui, sono trattati essi; a loro niuna prerogativa più che alle donne è conceduta, e però abandona gli sciocchi pensieri, e sicura ama, come hai cominciato. Ecco, se tu al potente Amore non vuoi suggiacere, fuggire ti conviene; e dove fuggirai tu ch'egli non ti séguiti e non ti giunga? Egli ha in ogni luogo iguale potenza: dovunque tu vai, ne' suoi regni dimori, ne' quali alcuno non gli si può nascondere, quando gli piace il ferirlo. Bastiti solamente, o giovine, che di non abominevole fuoco, come Mirra, Semiramìs, Biblìs, Canace e Cleopatra fece, ti molesti. Niuna cosa nuova dal nostro figliuolo verso te sarà operata: egli ha così leggi, come qualunque altro iddio, alle quali seguire tu non se' prima, né d'essere ultima dei avere speranza. Se forse al presente ti credi sola, vanamente credi. Lasciamo stare l'altro mondo, che tutto n'è pieno: ma la tua città solamente rimira, la quale infinite compagne ti può mostrare; e ricorditi che niuna cosa fatta da tanti, meritamente si può dire sconcia. Séguita adunque noi, e la molto riguardata bellezza con la deità nostra vera ringrazia, la quale del numero delle semplici, a conoscere il diletto de' nostri doni, t'abbiamo tirata.
      Deh, donne pietose, se Amore felicemente adempia i vostri disii, che doveva io, e che potea rispondere a tante e tali parole, e di tale dèa, se non: «Sia come ti piace»? Adunque dico che ella già tacea, quando io, le sue parole avendo nello 'ntelletto raccolte, fra me piene d'infinite scuse sentendole, e lei già conoscendo, a ciò fare mi disposi. E subitamente del letto levatami, e poste con umile cuore le ginocchia in terra, così temorosa incominciai:
      «O singulare bellezza ed etterna, o deità celeste, o unica donna della mia mente, la cui potenza sente più fiera chi più si difende, perdona alla semplice resistenza fatta da me contro all'armi del tuo figliuolo, non conosciuto, e di me sia come ti piace, e, come prometti, a luogo e tempo merita la mia fede, acciò che io, di te tra l'altre lodandomi, cresca il numero de' tuoi sudditi senza fine».
      Queste parole aveva io appena dette, quando ella del luogo dove stava mossasi, verso me venne, e con ferventissimo disio nel sembiante, abbracciandomi, mi baciò la fronte. Poi, quale il falso Ascanio, nella bocca a Didone alitando, accese l'occulte fiamme, cotale a me in bocca spirando fece li primi disii più focosi, com'io sentii. E aperto alquanto il drappo purpureo, nelle sue braccia tra le dilicate mammelle, l'effigie dell'amato giovine, ravvolta nel sottile pallio, con sollecitudini alle mie non dissimili, mi fece vedere, e così disse:
      «O giovine donna, riguarda costui: non Lissa, non Geta, non Birria, né loro pari t'abbiamo per amante donato: egli è per ogni cosa degno d'essere da qualunque dèa amato; te più che se medesimo, sì come noi abbiamo voluto, ama, e amerà sempre; e però lieta e sicura nel suo amore t'abandona. Li tuoi prieghi hanno con pietà tocchi li nostri orecchi sì come degni, e però spera che secondo l'opera senza fallo merito prenderai.
      E quinci senza più dire sùbita si tolse agli occhi miei.
      Ohimè misera! che io non dubito che, le cose seguite mirando, non Venere costei che m'apparve, ma Tesifone fosse piuttosto, la quale posti più giù gli spaventevoli crini non altramente che Giunone la chiarezza della sua deità, e vestita la splendida forma, quale quella si vestì la senile, così mi si fece vedere come essa a Semelè, simigliante consiglio di distruzione ultima, qual fece ella, porgendomi; il quale io miseramente credendo, o pietosissima fede, o reverenda vergogna, o castità santissima, delle oneste donne unico e caro tesoro, mi fu cagione di cacciarvi. Ma perdonatemi, se penitenzia data al peccatore può, sostenuta, perdono alcuna volta impetrare.
      Poi che del mio cospetto si fu partita la dea, io ne' suoi piaceri con tutto l'animo rimasi disposta; e come che ogn'altro senno mi togliesse la passione furiosa che io sostenea, non so per quale mio merito, solo un bene di molti perduti mi fu lasciato, cioè il conoscere che rade volte, o non mai, fu ad amore palese conceduto felice fine. E però, tra gli altri miei più sommi pensieri, quanto che egli mi fosse gravissimo a fare, disposi di non preporre alla ragione il volere recare a fine cotal disio. E certo, quanto che io molte volte fossi per diversi accidenti fortissimamente costretta, pure tanto di grazia mi fu conceduto, che senza trapassare il segno, virilmente sostenendo l'affanno passai. E in verità ancora durano le forze a tal consiglio, però che quantunque io scriva cose verissime, sotto sì fatto ordine l'ho disposte che, eccetto colui che così come io le sa, essendo di tutte cagione, niuno altro, per quantunque avesse acuto l'avvedimento, potrebbe chi io mi fossi conoscere. E io lui priego, se mai per avventura questo libretto alle mani gli perviene, che egli, per quello amore il quale già mi portò, che celi quello che a lui né utile né onore può, manifestandol, tornare. E s'egli m'ha tolto, senza averlo io meritato, sé, non mi voglia tòrre quello onore, il quale avvegna che io ingiustamente porti, esso come sé, volendo, non mi potrebbe rendere giammai.
      Cotale proponimento adunque servando, e sotto grave peso di sofferenza domando li miei disii volonterosissimi di mostrarsi, m'ingegnai con occultissimi atti, quando tempo mi fu conceduto, d'accendere il giovine in quelle medesime fiamme ove io ardea, e di farlo cauto come io era. E in verità in ciò non mi fu luogo lunga fatica, però che, se ne' sembianti vera testimonianza della qualità del cuore si comprende, io in poco tempo conobbi al mio disiderio esser seguito l'effetto; e non solamente dell'amoroso ardore, ma ancora di cautela perfetta il vidi pieno; il che sommamente mi fu a grado. Esso con intera considerazione, vago di servare il mio onore, e d'adempiere, quando i luoghi e i tempi il concedessero, li suoi disii, credo non senza gravissima pena, usando molta arte, s'ingegnò d'avere la familiarità di qualunque m'era parente, e ultimamente del mio marito; la quale non solamente ebbe, ma ancora con tanta grazia la possedette, che a niuno niuna cosa era a grado, se non tanto quanto con lui la comunicava. Quanto questo mi piacesse, credo che senza scriverlo il conosciate: e chi sarebbe quella sì stolta, che non credesse che sommamente da questa familiarità nacque il potermi alcuna volta, e io a lui, in publico favellare?
      Ma già parendogli tempo da procedere a più sottili cose, ora con uno, ora con un altro, quando vedeva che io e udire potessi e intenderlo, parlava cose, per le quali io, volonterosissima d'imparare, conobbi che non solamente favellando si poteva l'affezione dimostrare ad altrui e la risposta pigliarne, ma eziandio con atti diversi e delle mani e del viso si poteva fare; e ciò piacendomi molto, con tanto avvedimento il compresi che né egli a me, né io a lui, significare voleva alcuna cosa, che assai convenevolmente l'uno l'altro non intendesse. Né a questo contento stando, s'ingegnò, per figura parlando, e d'insegnarmi a tale modo parlare, e di farmi più certa de' suoi disii, me Fiammetta, e sé Panfilo nominando. Ohimè! quante volte già in mia presenza e de' miei più cari, caldo di festa e di cibo e d'amore, fingendo Fiammetta e Panfilo essere stati greci, narrò egli come io di lui, ed esso di me primamente stati eravamo presi, quanti accidenti poi n'erano seguitati, e a' luoghi e alle persone pertinenti alla novella dando convenevoli nomi! Certo io ne risi più volte, e non meno della sua sagacità che della semplicità degli ascoltanti; e tal volta fu che io temetti che troppo caldo non trasportasse la lingua disavvedutamente dove essa andare non voleva; ma egli, più savio che io non pensava, astutissimamente si guardava dal falso latino.
      O pietosissime donne, che non insegna Amore a' suoi suggetti, e a che non li fa egli abili ad imparare? Io, semplicissima giovine e appena potente a disciogliere la lingua nelle materiali e semplici cose tra le mie compagne, con tanta affezione li modi del parlare di costui raccolsi, che in brieve spazio io avrei di fingere e di parlare passato ogni poeta; e poche cose furono alle quali, udita la sua posizione, io con una finta novella non dessi risposta dicevole. Cose assai, secondo il mio parere, malagevoli ad imprendere, e molto più ad operare ad una giovine, ho raccontate, ma tutte piccolissime, e di niuno peso parrebbero, scrivendo io, se la materia presente il richiedesse, con quanta sottile esperienza fosse per noi provata la fede d'una mia familiarissima serva, alla quale diliberammo di commettere il nascoso fuoco ancora a niun'altra persona palese, considerando che lungamente senza gravissimo affanno, non essendovi alcuno mezzo, non si poteva servare. Oltre a questo sarebbe lungo il raccontare quanti e quali consigli e per lui e per me a varie cose fossero presi; forse, non che per altrui operati, ma appena ch'io creda che pensati giammai; le quali tutte, ancora che io al presente in mio detrimento le conosca operate, non però mi duole d'averle sapute.
      Se io, o donne, non erro imaginando, egli non fu piccola la fermezza degli animi nostri, se con intera mente si guarda quanto difficile cosa sia due amorose menti, e di due giovini, sostenere un lungo tempo che esse, o d'una parte o d'un'altra, da soperchi disii sospinte, della ragionevole via non trabocchino; anzi fu bene tanta e tale, che li più forti uomini, ciò facendo, laude degna e alta ne acquisterieno.
      Ma la mia penna, meno onesta che vaga, s'apparecchia di scrivere quegli ultimi termini d'amore, a' quali a niuno è conceduto il potere, né con disio né con opera, andare più oltre. Ma in prima che io a ciò pervenga, quanto più supplicemente posso la vostra pietà invoco, e quella amorosa forza, la quale ne' vostri teneri petti stando, a cotale fine tira li vostri disii, e priegole che, se 'l mio parlare vi par grave (dell'opera non dico, ché so che, se a ciò state non sete già, d'esservi disiate), che esse prontissime in voi surgano alla mia scusa. E tu, o onesta vergogna, tardi da me conosciuta, perdonami; e alquanto ti priego che qui presti luogo alle timide donne, acciò che, da te non minacciate, sicure di me leggano ciò che di sé, amando, disiano.
      L'uno giorno all'altro dopo traevano con isperanza sollecita li suoi e miei disii; e ciò ciascuno agramente portava, avvegna che l'uno il dimostrasse all'altro occultamente parlando, e l'altro all'uno di ciò si mostrasse schifo oltremodo, sì come voi medesime, le quali forse forza cercate a ciò che più vi sarebbe a grado, sapete che sogliono le donne amate fare. Esso adunque, in ciò poco alle mie parole credevole, luogo e tempo convenevole riguardato, più in ciò che gli avvenne avventurato che savio, e con più ardire che ingegno, ebbe da me quello che io, sì come egli, benché del contrario infignessimi, disiava. Certo, se questa fosse la cagione per la quale io l'amassi, io confesserei che ogni volta che ciò nella memoria mi tornasse, mi fosse dolore a niuno altro simile; ma in ciò mi sia Iddio testimonio che cotale accidente fu ed è cagione menomissima dell'amore che io gli porto; non pertanto niego che ciò, e ora e allora, non mi fosse carissimo. E chi sarebbe quella sì poco savia, che una cosa che amasse non volesse, anzi che lontana, vicina? e quanto maggiore fosse l'amore più sentirsela appresso? Dico adunque che, dopo cotale avvenimento, da me avanti non che saputo, ma pur pensato, non una volta, ma molte con sommo piacere, e la fortuna e il nostro senno ci consolò lungo tempo a tale partito, avvegna che a me ora in brieve più che alcuno vento fuggitosi mi si mostri. Ma mentre che questi così lieti tempi passavano, sì come Amore veramente può dire, il quale solo testimonio ne posso dare alcuna volta non fu senza tema a me licito il suo venire, che egli per occulto modo non fosse meco. Oh, quanto gli era la mia camera cara, e come lieta essa lui vedeva volontieri! Io lui conobbi ad essa più reverente che ad alcuno tempio. Ohimè! quanti piacevoli baci, quanti amorosi abbracciari, quante notti ragionando graziose più che il chiaro giorno senza sonno passate, quanti altri diletti cari ad ogni amante in quella avemmo ne' lieti tempi! O santissima vergogna, durissimo freno alle vaghe menti, perché non ti parti tu pregandotene io? Perché ritieni tu la mia penna a dimostrare gli avuti beni, acciò che, mostrati interamente, le seguite infelicità avessero forza maggiore di porre per me pietà negli amorosi petti? Ohimè! che tu mi offendi, credendomi forse giovare; io disiderava di dire più cose, ma tu non mi lasci.
      Quelle adunque alle quali tanto di privilegio ha la natura prestato, che per le dette possano quelle che si tacciono comprendere, all'altre non così savie il manifestino. Né alcuna me, quasi non conoscente di tanto, stolta dica, ché assai bene conosco che più sarebbe il tacere stato onesto, che ciò manifestare che è scritto; ma chi può resistere ad Amore, quando egli con tutte le sue forze operando, s'oppone? Io a questo punto più volte lasciai la penna e più volte, da lui infestata, la ripresi; e ultimamente a colui al quale io ne' principii non seppi, libera ancora, resistere, convenne che io, serva, obbedissi. Egli mi mostrò altrettanto li diletti nascosi valere, quanto li tesori sotto la terra occultati. Ma perché mi diletto io tanto intorno a queste parole? Io dico che io allora più volte ringraziai la santa dèa promettitrice e datrice di que' diletti. Oh, quante volte io li suoi altari visitai con incensi, coronata delle sue fronde, e quante volte biasimai li consigli della vecchia balia! E oltre a questo, lieta sopra tutte l'altre compagne, scherniva li loro amori, quello ne' miei parlari biasimando, che più nell'animo mi era caro, fra me sovente dicendo: «Niuna è amata come io, né ama giovine degno come io amo, né con tanta festa coglie gli amorosi frutti come colgo io». Io, brievemente, aveva il mondo per nulla, e con la testa mi parea il cielo toccare, e nulla mancare a me al sommo colmo della beatitudine tenere, reputava, se non solamente in aperto dimostrare la cagione della mia gioia, estimando meco medesima che così a ciascuna persona, come a me, dovesse piacere quello che a me piaceva. Ma tu, o vergogna, dall'una parte, e tu, paura, dall'altra, mi riteneste, minacciandomi l'una d'etterna infamia, e l'altra di perdere ciò che nemica fortuna mi tolse poi. Adunque, sì come piacque ad Amore, in cotal guisa più tempo, senza avere invidia ad alcuna donna, lieta amando vissi, e assai contenta, non pensando che il diletto il quale io aliora con ampissimo cuore prendea, fosse radice e pianta nel futuro di miseria, sì come io al presente senza frutto miseramente conosco.



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© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 06 febbraio 1998