Giacomo Leopardi
Canti
XXII.
LE RICORDANZE.
Vaghe
stelle dellOrsa, io non credea Tornare ancor per uso a contemplarvi Sul paterno giardino scintillanti, E ragionar con voi dalle finestre Di questo albergo ove abitai fanciullo, E delle gioie mie vidi la fine. Quante immagini un tempo, e quante fole Creommi nel pensier laspetto vostro E delle luci a voi compagne! allora Che, tacito, seduto in verde zolla, Delle sere io solea passar gran parte Mirando il cielo, ed ascoltando il canto Della rana rimota alla campagna! E la lucciola errava appo le siepi E in su laiuole, susurrando al vento I viali odorati, ed i cipressi Là nella selva; e sotto al patrio tetto Sonavan voci alterne, e le tranquille Opre de servi. E che pensieri immensi, Che dolci sogni mi spirò la vista Di quel lontano mar, quei monti azzurri, Che di qua scopro, e che varcare un giorno Io mi pensava, arcani mondi, arcana Felicità fingendo al viver mio! Ignaro del mio fato, e quante volte Questa mia vita dolorosa e nuda Volentier con la morte avrei cangiato.
Nè mi diceva il cor che letà verde Viene il vento recando il
suon dellora O speranze, speranze; ameni
inganni E già nel primo giovanil
tumulto Chi rimembrar vi può senza
sospiri, O Nerina! e di te forse non
odo |
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XXIII.
CANTO NOTTURNO
DI UN PASTORE ERRANTE DELLASIA.
Che
fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga Di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita La vita del pastore. Sorge in sul primo albore; Move la greggia oltre pel campo, e vede Greggi, fontane ed erbe; Poi stanco si riposa in su la sera: Altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale Al pastor la sua vita, La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo, Nasce luomo a fatica, Pur tu, solinga, eterna
peregrina, O greggia mia che posi, oh
te beata, Forse savessio lale |
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XXIV.
LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA.
Passata
è la tempesta: Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via, Che ripete il suo verso. Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna; Sgombrasi la campagna, E chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato Risorge il romorio Torna il lavoro usato. Lartigiano a mirar lumido cielo, Con lopra in man, cantando, Fassi in su luscio; a prova Vien fuor la femminetta a còr dellacqua Della novella piova; E lerbaiuol rinnova Di sentiero in sentiero Il grido giornaliero. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride Per li poggi e le ville. Apre i balconi, Apre terrazzi e logge la famiglia: E, dalla via corrente, odi lontano Tintinnio di sonagli; il carro stride Del passegger che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core. O natura cortese, |
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XXV.
IL SABATO DEL VILLAGGIO.
La
donzelletta vien dalla campagna, In sul calar del sole, Col suo fascio dellerba; e reca in mano Un mazzolin di rose e di viole, Onde, siccome suole, Ornare ella si appresta Dimani, al dì di festa, il petto e il crine. Siede con le vicine Su la scala a filar la vecchierella, Incontro là dove si perde il giorno; E novellando vien del suo buon tempo, Quando ai dì della festa ella si ornava, Ed ancor sana e snella Solea danzar la sera intra di quei Chebbe compagni delletà più bella. Già tutta laria imbruna, Torna azzurro il sereno, e tornan lombre Giù da colli e da tetti, Al biancheggiar della recente luna. Or la squilla dà segno Della festa che viene; Ed a quel suon diresti Che il cor si riconforta. I fanciulli gridando Su la piazzuola in frotta, E qua e là saltando, Fanno un lieto romore: E intanto riede alla sua parca mensa, Fischiando, il zappatore, E seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face, Questo di sette è il più
gradito giorno, Garzoncello scherzoso, |
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XXVI.
IL PENSIERO DOMINANTE.
Dolcissimo,
possente Dominator di mia profonda mente; Terribile, ma caro Dono del ciel; consorte Ai lúgubri miei giorni, Pensier che innanzi a me sì spesso torni.
Di tua natura arcana Come solinga è fatta Che divenute son, fuor di te
solo, Come da nudi sassi Quasi incredibil parmi Giammai dallor che in
pria Sempre i codardi, e lalme A quello onde tu movi, Pregio non ha, non ha ragion
la vita Per còr le gioie tue, dolce
pensiero, Che mondo mai, che nova E tu per certo, o mio
pensier, tu solo Da che ti vidi pria, |
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XXVII.
AMORE E MORTE.
Fratelli, a un tempo stesso,
Amore e Morte Ingenerò la sorte. Cose quaggiù sì belle Altre il mondo non ha, non han le stelle. Nasce dalluno il bene, Nasce il piacer maggiore Che per lo mar dellessere si trova; Laltra ogni gran dolore, Ogni gran male annulla. Bellissima fanciulla, Dolce a veder, non quale La si dipinge la codarda gente, Gode il fanciullo Amore Accompagnar sovente; E sorvolano insiem la via mortale, Primi conforti dogni saggio core. Nè cor fu mai più saggio Che percosso damor, nè mai più forte Sprezzò linfausta vita, Nè per altro signore Come per questo a perigliar fu pronto: Chove tu porgi aita, Amor, nasce il coraggio, O si ridesta; e sapiente in opre, Non in pensiero invan, siccome suole, Divien lumana prole. Quando novellamente
Poi, quando tutto avvolge
Ai fervidi, ai felici, |
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XXVIII.
A SE STESSO.
Or
poserai per sempre, Stanco mio cor. Perì linganno estremo, Cheterno io mi credei. Perì. Ben sento, In noi di cari inganni, Non che la speme, il desiderio è spento. Posa per sempre. Assai Palpitasti. Non val cosa nessuna I moti tuoi, nè di sospiri è degna La terra. Amaro e noia La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. Tacqueta omai. Dispera Lultima volta. Al gener nostro il fato Non donò che il morire. Omai disprezza Te, la natura, il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E linfinita vanità del tutto. |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 18 luglio 1999