Giuseppe Bonghi
INTRODUZIONE
XXIV - LA QUIETE DOPO LA
TEMPESTA
DI GIACOMO LEOPARDI
Creazione: canzone composta a Recanati, come annotò Leopardi sul manoscritto, nei giorni «17-120 Sett. 1829»; fu pubblicata per la prima volta in Firenze nel 1831, poi nell'edizione Starita del 1835. Tutto lo Zibaldone è pieno di osservazioni sulla vanità del piacere. Da notare, come riporta Alfredo Straccali in I Canti di Giacomo Leopardi, Sansoni, Firenze 1910, pag. 193, nei giorni in cui il poeta scriveva il canto in tutt'Italia generale era il maltempo, che durò per oltre quindici giorni e che stava procurando qua e là gravi danni, come le piene che interessarono la valle del Ticino, la zona del Lago Maggiore, la Lombardia, il Bolognese, l'allagamento di Como, la distruzione di un ponte di barche presso Piacenza sul Po, come riportarono le Gazzette del tempo
Metro: tre strofe libere (di 24, 17 e 13 versi): l'ultimo verso di ciascuna strofa sempre in rima con uno dei versi precedenti. Il primo verso dell'ultima strofa rima col penultimo della precedente.
Tema centrale: il piacere
Guardare la realtà, come ne Il sabato del
villaggio, umana, la realtà vicina e quotidiana con l'esperienza di chi molto ha
sofferto, molto è stato ed è estraneo al mondo (e che per un momento sembra aver
ritrovato una qual certa gioia divivere), molto ha contemplato l'infelicità umana, ma con
gli occhi e l'immaginazione di un tempo, quella che lo aveva guidato nella composizione
degli idilli del 1819-21, è il tema della Quiete. "Tornando alla Quiete
- scrive G. De Robertis nel Saggio sul Leopardi, pag. 112 - vogliamo insistere sul
suo valor di mito, grande tanto più in quanto tocca il fondamento della poesia
leopardiana, anzi dell'essenziale ragione della sua vita e del suo mondo: valor di mito,
con una sua composizione e scrittura... semplice e familiare, sì che pare incredibile
1'abbia creato un poeta moderno".
La Quiete è il canto dell'intimità profonda come
geloso e individualizzante ripiegamento nella propria realtà interiore, nella quale
trovano il loro modo di esistere i grandi sentimenti della vita non come dolente nostalgia
della passata giovinezza; e in questa intimità trova innanzitutto luogo la ricerca della
felicità, che diventi un momento "piacevole" della realtà. In questa intimità
trovata, anche come rimedio immediato a una condizione esistenziale infelice e distruttiva
che lo portava a sentire il soggiorno recanatese come una morte (vedi il commento a Il
sabato del villaggio), nasce la poesia della contemplazione e della rimembranza,
come una creazione che resti negli anni e che possa essere goduta. Ritornano alla mente i
pensieri del soggiorno pisano, uno dei quali ci sembra particolarmente illuminante ed è
contenuto nello Zibaldone:
«Uno de' maggiori frutti che io mi propongo e spero da'
miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù; è di
assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de' miei sentimenti passati, messa
quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; è di commuover me stesso
in rileggerli, come spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie d'altri: (Pisa. 15.
Apr. 1828.) oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch'io fui, e paragonarmi meco
medesimo; e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e
contemplare da se compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con
altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia
conosciuta per tale da altrui. (Pisa. 15. Feb. ult. Venerdì di Carnevale. 1828.)».
Tema fondamentale della Quiete non è la visione del
passato che muta per qualche momento la visione del presente, che pur dolorosamente
affiora, ma quella contemplazione spirituale e filosofica che lo porta a mettere in versi
quella teoria del piacere che da molti anni ormai, almeno fin dal 1822, aveva
teorizzato e provato e riprovato sulla propria pelle. Nella Quiete si fondono
perfettamente alcuni concetti fondamentali della poetica leopardiana:
a) teoria del piacere come figlio dell'affanno,
b) il ricordo della passata gioventù presente nei quadri sia della natura che dei
personaggi presenti nella prima parte
c) la natura che non mantiene nella maturità le promesse fatte nella gioventù: i sogni
non si realizzano, ma muoioni all'alba della vera vita
En passant annotiamo questo verso di Pietro Bembo: È gran parte di gioia uscir d'affanno, tratto da Rime, LV,46. Possiamo ipotizzare una qualche reminiscenza di letture bembiane non relegate alle Prose della volgar lingua o a Gli Asolani o alle Lettere.
struttura
Dividiamo il canto in tre parti; notiamo la presenza in ciascuna delle tre parti l'enucleazione di cinque elementi fondamentali:
vv. 1-24 tema della quiete che ritorna alla fine dell'affanno provocato dalla tempesta che desta anche la paura della morte: tornano tranquilli l'uomo e la natura |
vv. 25-31 tema centrale: il piacere dopo la tempesta (si rallegra ogni cuore) |
vv. 32-54 tema del piacere come figlio dell'affanno, concesso dagli dei agli uomini come momento di respiro tra un affanno e l'altro |
La tempesta è passata: gli uccelli tornano a far festa, la gallina esce di nuovo all'aperto e riprende il suo canto. -- Torna il sereno che squarcia le nuvole verso le montagne a ponente, si rischiara la campagna e chiaro riappare il fiume nella valle: ritorna il solito lavoro: a) l'artigiano cantando col lavoro in mano si porta sull'uscio, -- torna il sole e sorride sulle valli e sui poggi: d) la famiglia apre terrazze e logge, |
Si rallegra ogni cuore: 1) - quando come ora la vita è così dolce e gradita? |
Il piacere è figlio dell'affanno, una
gioia vana che è frutto del timore passato, un timore che ha
scosso chi aborriva la vita facendogli temere la morte; |
Tema dell'allegreza che prende tutti dopo la tempesta che ha provocato pensieri di morte: si squarcia il nero funereo delle nubi e torna il sereno | Il poeta cede il posto al filosofo, all'uomo, che ragiona
sulla propria realtà; gli interrogativi rivelano un concetto fondamentale: la ripetuta
contemplazione della realtà, presente o passata, porta alla riflessione, dalla quale
scaturisce la teoria dell'infelicità umana e del piacere figlio dell'affanno; abbiamo
quindi tre stadi: a) contemplazione, |
Anche un piccolo piacere, è un gran guadagno, proprio
perché nasce quasi per prodigio, o per miracolo, dall'affanno. Ed è un prodigio perché
urta contro il fine della natura universale che consiste solo nella vita dell'universo,
nella produzione, nella conservazione e distruzione dei suoi componenti (dallo Zibaldone).
"Tuttavia la natura ci destinò - scrive nelle Operette morali nel Dialogo di Plotino e di Porfirio - per medicina di tutti i mali la morte: la quale da coloro che non molto usassero il discorso dell'intelletto, saria poco temuta; dagli altri desiderata. E sarebbe un conforto dolcissimo nel pensiero dei nostro fine". |
La lingua
Nella costruzione sintattica semplice e musicalissima, e perciò classica, accanto all'uso di parole che fanno parte del linguaggio poetico arcaico (romorìo, opra, còr, piova, studi, poggi, ville, abborrìa, sudàr, palpitàr, duolo, mostro, lice), una arcaicità che crea una patina di antico e di remoto nel tempo e lontano nello spazio, ritroviamo un uso a volte quasi quotidiano e popolare del linguaggio poetico (gallina, femminetta, erbaiuol, sonagli, carro, passegger, ripiglia, guadagna, risana), uso che porta il lettore sia a capire la leopardiana visione realistica delle cose sia a partecipare affettivamente a quella straordinaria compresenza di elementi, che poteva essere realizzata solo in un idillio, che sono l'allegrezza, la riflessione/infelicità e il piacere effimero della cessazione del pericolo. Per questo più che di visione pessimistica occorre parlare di condizione esistenziale e di sentimento dell'infelicità.
Un elemento ci pare degno di particolare attenzione: l'avverbio ecco:
ecco il sereno... ecco il sole,... ecco sorride;
l'avverbio, usato sul piano figurativo, da un lato ci presenta il poeta
che prova quasi un senso di meravigliato stupore che deriva dalla scoperta del mondo, uno
stupore che si rinnova di fronte alla scoperta di ogni elemento caratterizzato dalla una
ripetizione non insistita ma puntuale e significativa; dall'altro come il poeta che mostra
al lettore (se stesso o un altro, non ha importanza) la scoperta meravigliata di quegli
elementi che indicano che la tempesta è ormai passata.
Infine mettiamo in evidenza la coppia nominale
/carro-passeggero/: il passeggero riprende il suo cammino. "Il carro che stride è la
ripresa del viaggio, della fatica, dopo la breve angoscia della tempesta".
Un intervento critico
da: Gianni-Balestrieri-Pasquali, Antologia della letteratura italiana, vol. III, parte I, pag. 621,ed. D'Anna, Firenze 1979.
Ovviamente in ogni Canto del Leopardi è presente anche il momento riflessivo, il momento in cui la lirica si piega alla significazione dimostrativa di un concetto. Così anche nella Quiete segue all'idillio la parte concettuale, la riflessione - pessimistica. Quel piacere, quel tripudio è solo figlio dell'affanno; esso nasce dalla fine di un timore, dalla cessazione della tempesta. Quel poco di piacere di cui fruiscono gli uomini deriva dalla fine di un dolore; la morte perciò, che porrà fine ad ogni male, è per essi il bene più grande. Postille nate dalla riflessione, non da quel guardare nuovo, da quell'impeto interiore, da quell'esultare di note che segna l'inizio del Canto. La seconda parte non rappresenta veramente un momento successivo, un ritornare e riflettere della ragione sul moto primo dell'anima? Gli interrogativi della parte centrale non rivelano sin troppo bene le difficoltà del trapasso? Domande a cui è sin troppo facile rispondere negando il significato lirico dell'ultima parte, per accentuare invece il senso sillabato di danza, di tripudio, dell'inizio. Proviamo tuttavia ad invertire la lettura del Canto, a partire dall'ordito concettuale dell'ultima strofa, a considerare quelle riflessioni se non d'indole poetica almeno tali che erano presenti sin dall'inizio nell'animo del poeta, e determinarono perciò la natura particolare dell'idillio. Quella contemplazione di immagini festose (la gallina, le femminette, l'artigiano, l'erbaiuolo) appare allora intrapresa con animo malinconico, cioè con l'animo di chi sa, di chi ha compreso; ed intrisa perciò di un significato più intenso, approfondita in ognuno dei versi. E quel carro che stridendo riprende il suo cammino, alla fine della strofa, diviene un poco il carro di tutti gli umani, viatori anch'essi lungo una via monotona, faticosa, seppure interrotta da brevi angosce, da terrori. Il tono della lirica risulta totalmente invertito, e richiamato maggiormente all'interno, alla sensibilità dolorosa dell'autore.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 27 febbraio 2001