Giuseppe Bonghi

INTRODUZIONE

XXIII  -  CANTO NOTTURNO
DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA
DI GIACOMO LEOPARDI

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Creazione:  canzone composta, come annota lo stesso Leopardi, nel periodo "1829. 22 Ottob.-1830. 9 aprile" e fu pubblicata per la prima volta in Firenze nel 1831 (col titolo Canto notturno di un pastore vagante dell'Asia), poi nell'edizione napoletana Starita del 1835. - Alla data del 3 Ottobre 1828 nello Zibaldone Leopardi annota: "Les Kirkis (nazione nomade, al Nord dell'Asia centrale) ont aussi des chants historiques (non scritti) qui rappellent les hauts faits de leurs héros; mais ceux-là ne sont récités que par des chanteurs de profession, et M. de Meyendorff (barone, viaggiatore russo, autore d'un Voyage d'Orenbourg à Boukhara, fait en 1820. Paris 1826; dal quale sono estratte queste notizie) eut le regret de ne pouvoir en entendre un seul. Ib. septemb. p.518. Plusieurs d'entre eux (d'entre les Kirkis), dice M. de Meyendorff, ib., passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins."
         [I Kirghisi hanno anche dei canti non scritti che richiamano alla mente eccellenti imprese dei loro eroi; ma quelli non sono recitati che da cantori di professione e Meyendorff ebbe il dispiacere di non intenderne neanche uno. Molti Kirghisi passano la notte seduti su una pietra a guardare la luna, e ad improvvisare parole assai tristi su arie che non lo sono da meno.]

Metro: sei strofe libere di endecasillabi e settenari variamente alternati; tutte le strofe presentano rime al mezzo (soprattutto la quarta) e si chiudono con la medesima rima in -ale.

I temi

         Nel Canto Notturno Leopardi adombra se stesso (come in Bruto, Saffo, Consalvo), e per mezzo del pastore manifesta il suo pensiero, che si può condensare nell'affermazione: tutto in questo mondo è solo vanità e miseria, dopo essere passati per i "Tre stati della gioventù: 1. speranza, forse il più affannoso di tutti: 2. disperazione furibonda e renitente: 3. disperazione rassegnata. (Bologna. 3. Giugno. 1826.) [Zibaldone 4180].
         È indubbiamente uno dei più bei canti scritti dal Leopardi. In esso troviamo tutta la forza della infelicità che da uno stato sentimentale di ansia furibonda (Zib. 4180) passa ad uno stadio di rassegnazione, di coscienza del male che incombe sugli uomini. Non un attimo di piacere, ma un rendersi progressivamente conto che la vita nulla riserva di bene all'individuo, un ripiegarsi continuo e sempre più profondo su se stesso, su una realtà che ormai ben poco concede al mondo e alla natura, anche se qua e là nei Grandi Idilli del 1829-30 affiora il contrasto tra la realtà sociale esterna e realtà individuale interiore, tra le caratteristiche della realtà sociale stessa e come il poeta le sente e vive nel suoi rapporti con la società. Questi i temi più importanti del Canto:

1) allegoria della vita umana;
2) conoscenza e non conoscenza;
3) la noia;
4) la natura.

         Regge sempre la inventiva e l'immaginazione, che però gravitano non più autonome ma intorno alla ragione, intesa come capacità dello spirito di analizzare le cose per rendersi conto della situazione, per cercare di raggiungere la verità; la meditazione sull'uomo e su se stesso è legata intimamente alla rappresentazione della realtà: diciamo che anche la meditazione diventa rappresentazione. Non più il ricordo del tempo passato, come nel Passero solitario e ne Le Ricordanze, ma il presente: non occorre più volgersi al passato per capire la propria realtà esistenziale che affoga nella noia e nell'infelicità, ma basta guardare il presente, studiarlo e capirlo, per diventare coscienti che col passare degli anni è diventato sempre più misero e arido e fonte di infelicità, man mano che con l'avvento della giovinezza sono venute a svanire quelle illusioni che la Natura ha infuso nel cuore degli uomini alla nascita. Muta anche il concetto di Natura, non più madre benigna: "La natura, per necessità di legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell'universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gli individui d'ogni genere e specie ch'ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti " (Zib. 4486-7).
         La somma dei sentimenti espressi in questo canto si traduce non più nella condizione della solitudine, ma nella noia o tedio che è "L'assenza di ogni special sentimento di male e di bene, ch'è lo stato più ordinario della vita, non è nè indifferente, nè bene, nè piacere, ma dolore e male. Ciò solo, quando d'altronde i mali non fossero più che i beni, nè maggiori di essi, basterebbe a piegare incomparabilmente la bilancia della vita e della sorte umana dal lato della infelicità. Quando l'uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l'infelicità nativa dell'uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia. (4. Maggio. 1829 - Zib. 4498)

Le tematiche fondamentali

Possiamo individuare in questa poesia due grandi temi fondamentali:

1) tematica della vita cosmica

2) tematica della vita umana.

La tematica della vita cosmica comprende la descrizione della vita del cosmo e della luna, la quale tutto sa, e nella quale quindi noi possiamo trovare la profonda serenità esistente nelle cose, dovuta alla conoscenza delle origini e dei fini cui le cose stesse tendono. La luna, il simbolo più visivo ed immediato dell'universo (e il più caro alla fantasia umana), tutto sa ed intende, non solo del proprio moto celeste, ma anche dell'andare del tempo, del trascorrere delle stagioni, della "essenza" dell'uomo. Ciò che caratterizza appunto la vita cosmica è la conoscibilità di tutte le cose, quella stessa possibilità di conoscenze che l'uomo non possiede.

La tematica della vita umana è identificabile:

1) nel rapporto con la vita della luna;
2) nella descrizione della vita dell'uomo (sia nella classica similitudine con il cammino del "vecchierel bianco infermo", sia nella descrizione suggellata, racchiusa, cioè sottolineata, dai versi: "se la vita è sventura / perché da noi si dura?";
3) nel rapporto con la condizione esistenziale della "greggia" dal quale rapporto esce il concetto di noia, come condizione esistenziale di un uomo consapevole di nulla sapere dei propri destini.

- desolazione della vita dell'uomo -
- assenza di conoscenza -
- l'uomo nulla sa: quali sono le origini dell'uomo, perché viene creato, quali sono i fini a cui tende, quali sono i rapporti con gli altri uomini -
- nulla sapendo l'uomo vive nella solitudine, che è una condizione di vita determinata dalla mancanza di rapporti fra uomo e uomo i cui sentimenti sono la tristezza e il dolore, e la cui caratteristica è la irrisolvibilità. La condizione è esterna all'uomo, il sentimento invece è interno all'uomo, e su di esso gioca un ruolo importante la speranza, che determina una diminuzione del dolore stesso. In questo canto la speranza è praticamente assente, per cui il sentimento del dolore in alcuni punti esplode in tutta la sua violenza -
- il poeta conosce solo la propria fragilità e il male della propria vita, una sventura che comincia già con la nascita -
- la condizione di mancanza di conoscenza porta alla
noia -

- descrizione della vita della luna -

- presenza di conoscenza  -

- la luna tutto sa: la ragione del mattino e della sera, del tacito infinito trascorrere del tempo, a quale amore ride la primavera, a chi giova il caldo dell'estate, cosa procura l'inverno coi suoi ghiacci -

- la luna sa le cose che sono celate al pastore: perché l'ardere di tante stelle, che fa l'aria infinita e l'infinito sereno universo, cosa significa questa solitudine immensa, cos'è l'uomo -

- la luna, giovinetta immortale, conosce il frutto d'ogni terrena e di ogni celeste cosa -

La lingua

Il poeta usa un codice poetico lineare e significativamente semplice: in rapporto inverso con la semplicità riscontriamo la drammaticità della condizione dell'uomo che nulla sa del proprio destino. Solo alcune parole, come /cuna/, /calle/, /albòre/, ecc., sono tipiche del codice poetico. L'uso del linguaggio semplice ci porta più facilmente a cogliere la speranza del poeta di poter alleviare in qualche modo l'angoscia originata dalla propria limitata conoscenza e dalla noia, una condizione esistenziale che si verifica (Zibaldone, 4043, 8/3/1824: "quando l'uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l'infelicità nativa dell'uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia"- Pensieri, n. LXVIII "La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che lo creda che dall'esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e sentirne che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali").
         La seconda strofa risulta la più nervosa dell'intera poesia, a causa di un uso paratattico del sistema linguistico, con un unico soggetto che regge una lunga sequenza sia di espansioni sia di verbi; i verbi a loro volta mancano di espansioni nominali e di complementi cosiddetti indiretti, per cui il loro significato risulta profondo e poco sfumato, e le sfumature sono rivolte interamente solo al "vecchierello", che è il vero centro che focalizza la nostra attenzione. La lettura parte con un andamento lento; ma dopo essersi soffermato un attimo su "gravissimo fascio", diventa sempre più rapido e nervoso dalla sequenza nominale che comincia col verso 21 alla sequenza verbale dei vv. 27-31 e si accelera man mano fino a posarsi su "lacero, sanguinoso" per bloccarsi all'improvviso davanti all'espressione "abisso orrido, immenso", un abisso che fonicamente si distende su "orrido" di cui si riempie per scatenare un senso di angoscia indescrivibile, che sfuma nel lungo verbo "precipitando" e nel verbo "oblia", quasi un balbettamento che nell'oblio difende l'anima umana dal sopravvenire dell'orrore.
         Per contrasto la lirica ha un andamento lineare, molto musicale in quella perfetta alternanza di versi endecasillabi e settenari, alternanza dettata al poeta dal "gusto poetico".
         Per tre volte il poeta nomina il gregge al femminile: la femminilizzazione di qualunque parola dona al significato una concettualità più sfumata e gentile; in questo caso la femminilità di /greggia/ ci fa capire il desiderio del poeta di sfuggire almeno nell'illusione alla propria condizione esistenziale dominata dal /tedio/ e dalla /noia/, quasi fino ad accettare la situazione della greggia che "posa all'ombra" e che non ha pensieni di qualunque natura che possano turbare la sua tranquillità.
         Il ritmo del verso è il ritmo stesso della contemplazione dell'universo e della meditazione sull'andare doloroso della vita umana; la contemplazione della discordanza fra armonia celeste (la luna che tutto sa) e disarmonia umana (l'uomo che nulla conosce dei propri destini); la meditazione nella discordanza fra la vita della greggia (senza noia né infelicità mentre siede quieta sopra l'erba all'ombra di un albero) e la vita dell'uomo (assalito dalla noia): alla fine non resta che la visione di un vecchierello vicchio e bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, che inizia il suo cammino nel dolore, nascendo col rischio della morte e continua la sua vita finché arriva là dove è rivolta ogni fatica umana: all'abisso orrido e immenso della morte, dove, precipitando, tutto si dimentica.

Pessimismo o infelicità

         La condizione dell'uomo secondo Leopardi è divisibile in tre fondamentali momenti. Il primo momento è caratterizzato dall'assenza dell'infelicità e corrisponde al primordi dell'uomo (primordi = le più antiche età dell'uomo, risalenti alla sua comparsa sulla terra, non storicamente accertate, ma accertabili in una qualche misura, perché manca una probante documentazione); il secondo momento è definito: del pessimismo storico, determinato non dall'epoca storica in cui il Leopardi è vissuto, ma da un preciso ragionamento di tipo storiografico: l'uomo primitivo per difendersi dagli altri uomini o dalle bestie feroci si allea con altri uomini creando in tal modo i primi nuclei sociali, ovviamente da determinate norme valide per tutti: è proprio questa obbligatorietà situazionale che crea nell'uomo la mancanza di libertà d'azione, mancanza che diventa fonte d'infelicità. Il logico superamento di questa mancanza di libertà d'azione, cioè dell'infelicità, il poeta lo trova nella natura; abbiamo quindi la grande poesia dell'infinito ("Sempre caro mi fu quest'ermo colle / e questa siepe che da tanta parte / dell'ultimo orizzonte il guardo esclude-") con l'abbandono del poeta in una illusoria felicità e nella dolcezza di un naufragio che nasce dalla 'finzione' della fantasia non dalla realtà esistenziale. Lo stesso concetto di natura (nel periodo che va dal 1818 al 1825) acquista una significatività particolare accostata al concetto di natura come madre benigna degli uomini. Il terzo momento è caratterizzato dal pessimismo cosmico; il poeta non riesce a superare la propria infelicità perché dominato dall'infelicità del mondo nel quale è posto, il mondo a sua volta non riesce a superare la propria infelicità dominato dall'infelicità dei sistemi di mondi nei quali è posto e dall'infelicità del cosmo (non solo l'uomo è infelice, scriverà nello Zibaldone, ma tutti gli esseri animati e inanimati, il mondo, il sistema di universi: il cosmo nella sua totalità.)
         Questo pessimismo non è superabile in alcun modo, a causa dell'impotenza intima di ciascun essere vivente animato o inanimato, o di ciascun essere in rapporto con gli altri esseri. Al pessimismo cosmico corrisponde la tematica della vita cosmica, cosmo come natura nella quale tutti dovremo precipitare come in un abisso orrido e immenso (cioè nel nulla) perché essa è dominata da leggi perfette ma incomprensibili all'uomo.

1 - Assenza d'infelicità - uomo primitivo

2 - Pessimismo storico determinato da un ragionamento storiografico (1818-1825).

Tematica della vita umana.

3 - pessimismo cosmico

uomo natura - universo -

Tematica della vita cosmica

Struttura

Dividiamo il canto in quattro momenti:

Tema centrale:
È funesto a chi nasce il dì natale
Tematica della vita umana e della vita cosmica

1a parte

vv.
1-38:

- rapporto uomo-luna

- luna immortale in contrapposizione con uomo-mortale

- definizione della vita umana

Questi 38 possono essere divisi in due distinte parti: la prima che ha come centro la luna e la seconda che ha come centro l'uomo: abbiamo quindi nella prima parte la tematica della vita cosmica e nella seconda la tematica della vita umana. Le domande che il poeta si pone sono di tipo retorico, cioè non hanno in sé la esigenza della risposta. L'esigenza è nell'uomo, e il bisogno nasce da una dissacrazione religiosa e dal contatto diretto con la realtà. t una tematica dominata dal contrasto fra natura e ragione, un contrasto che è la prima fonte dell'infelicità umana. La tematica della vita umana sfocia in quella della vita cosmica perché l'uomo nella natura non trova più alcuna dolcezza, alcun sollievo, perché anche la natura è dominata da quella condizione di amarezza e di infelicità che domina l'uomo: è il pessimismo cosmico nel quale tutto è avvolto senza soluzione.

2a parte

vv.
39-60

- perché l'uomo continua a procreare

- descrizione della vita dal nascimento

Anche questa seconda parte per comodità di studio è divisibile in due, entrambe basate sulla tematica della vita umana. La prima (vv. 39-51) contiene la descrizione dell'esistenza soprattutto nei primi momenti che seguono la nascita: la prima manifestazione di vita è il pianto e il primo atto d'amore nei suoi confronti è rappresentato dalla consolazione che i genitori rivolgono al neonato.

La seconda (vv. 52-60) contiene una serie di domande retoriche dal tono profondamente drammatico, in cui il poeta si chiede come mai l'uomo continua a procreare sapendo che per tutti la vita è sventura. La chiusura contiene il paragone fra la vita mortale dell'uomo e la vita immortale della luna. Nel complesso cogliamo quasi l'impotenza dell'uomo che si evidenzia proprio nell'atto suo forse più delicato: quello di consolare il bambino dell'esser nato: un atto che ci appare subito inutile e vano (il verbo /consolare/ è ripetuto per ben tre volte nei vv. 44, 49 e 54 quasi a sottolineare il profondo senso di impotenza dell'uomo, ma anche di mancanza di razionalità).

3a parte

vv.
61-104

tematica della vita cosmica - rapporto tra la luna (attraverso il pronome /TU/) e l'uomo (attraverso il pronome /IO/) - la luna tutto sa della vita - l'uomo sa solo che "a me la vita è male".

La terza parte è tutta incentrata sulla tematica della vita cosmica, e mette in evidenza il pessimismo 'cosmico' appena velato dal fatto che comunque il cosmo, e in particolare la luna, conoscono la serie di risposte alle domande retoriche precedentemente formate. E non solo il cosmo conosce l'origine della vita dell'uomo, perché l'uomo nasce e muore, cos'è "lo scolorar del sembiante", perché l'avvicendarsi delle stagioni, ma anche perché l'aria, l'infinito sereno, le stelle, nella profonda suggestione di un mondo surreale nel quale illusoriamente tutto può essere risolvibile. E il dolore del poeta aumenta, sapendo che lui del 'tutto' nulla sa, mentre è cosciente della fragilità della sua esistenza e che la vita per lui altro non è che il dolore, anche se qualcuno potrà vivere in qualche modo dei momenti più o meno felici. Ancora una volta ritorna la figura della luna, intatta, giovinetta immortale che partecipa del moto stesso dell'universo, parte integrante di quella surrealtà alla quale sempre l'uomo nella sua fragilità tende.

4a parte

vv.
105-143

- rapporto poeta-gregge

- condizione di incoscienza nel gregge e di noia nel poeta

- conclusione: nascita come giorno funesto perché inizio di infelicità e dolore.

La quarta parte è tutta incentrata sulla tematica della vita umana, in un rapporto non più possibile sul piano della conoscenza (delle leggi perfette che regolano il cosmo), ma sul piano dell'esistenza con la 'greggia', la quale posa senza pensiero, sull'erba o sotto l'albero in una condizione di quasi beatitudine, mentre il poeta soffre per la sua condizione di tedio e di noia. I versi 133-138 offrono uno spiraglio per il superamento della dolorosa situazione in cui il poeta si trova e che ha descritto precedentemente; ma questo spiraglio viene distrutto dai versi seguenti e specialmente dagli ultimi: "forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale". Se precedentemente il poeta punta la sua attenzione sul fatto che qualcun altro un poco di gioia o "contento" può assoporare nella vita, con l'ultimo tremendo verso toglie ogni possibilità all'uomo di credere che comunque la vita possa offrire un poco di felicità. Cadono le illusioni, e al poeta e all'uomo non resta che l'attesa della morte.


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© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio 1999