Giuseppe Bonghi
INTRODUZIONE
XXII - LE RICORDANZE
DI GIACOMO LEOPARDI
Creazione
Questo canto fu composto a Recanati dal 26 agosto al 12 settembre 1829, dieci mesi dopo il suo ritorno da Firenze e sedici mesi dopo la composizione di A Silvia, e fu pubblicato per la prima volta in Firenze nel 1831. Per il personaggio di Nerina alcuni critici ipotizzano la figura di Teresa Fattorini altri, come Piervirgili in Nuovi documenti, Firenze 1882 p. XVII, ipotizza (per primo) che si tratti di Maria Belardinelli, recanatese, nata da famiglia contadina il 15 novembre 1800 e stabilitasi in Recanati nel 1821 con la famiglia. "Le finestre della casipola da lei abitata" scrive il Mestica "stavano quasi di fronte a quelle della camera da letto di Giacomo, guardanti a settentrione verso il carro di Boote. Era una biondina candidissima, come la Nerina Galatea di Virgilio, e morì il 3 novembre 1827 circa un anno avanti all'ultima tornata di Giacomo a Recanati". L'esistenza sia della Fattorini che della Belardinelli ci è attestata anche da Carlo Leopardi, che un giorno così dichiarò: "Molto più romanzeschi che veri gli amori di Nerina e di Silvia. Sì, vedevamo dalle nostre finestre quelle due ragazze, e talvolta parlavamo a segni,. Amori, se tali potessero dirsi, lontani e oprigionieri. Le dolorose condizioni di quelle due povere diavole, morte nel fiore degli anni, furono bensì incentivo alla fantasia di Giacomo a crear due dei più bei tratti dele sue poesie. Una era la figlia del cocchiere, l'altra una tessitora". Per inciso ricordiamo che Carlo, sposatosi contro la volontà dei genitori con la cugina Mazzagalli, stette diviso da Giacomo durante l'ultimo soggiorno del poeta a Recanati, non si incontrarono e non si incontreranno mai più.
Metro: endecasillabi sciolti, divisi in stanze (o meglio "lasse narrative") di varia misura.
Parafrasi
versi |
tema |
parafrasi |
1-27 |
La e l'immaginazione: il poeta |
Belle stelle dell'Orsa mai avrei creduto di tornare ancora a contemplarvi quasi per abitudine mentre scintillate sul giardino della casa paterna e parlare con voi dalle finestre della casa ove abitai fanciullo e vi conobbi la fine delle mie gioie. Quante immagini e quante fantasie un tempo mi creè nel pensiero l'aspetto vostro e della altre stelle a voi vicine nel cielo! quando, silenzioso, seduto sull'erba, solevo trascorrere gran parte delle sere guardando il cielo ed ascoltando il canto della rana lontana nella campagna. E la lucciola volava presso le siepi e sulle aiuole, mentre i viali odorosi e i cipressi lontani nella selva sussurravano al vento; e la casa paterna risuonava delle voci alterne e delle tranquille opere dei servi. E quali pensieri immensi, quali dolci sogni mi ispirava il vedere il mare lontano e i monti azzurri che scopro dalla casa e che sognavo un giorno di varcare, pensando di trovarvi al di là mondi misteriosi e immaginando per la mia vita un'arcana felicità. |
28-49 |
Contro il natio borgo selvaggio: l'uomo |
Né il cuore mi diceva che sarei stato condannato a consumare la mia fanciullezza in questo natio borgo selvaggio, fra gente incivile e spregevole; per la quale parole strane e spesso argomento di riso e divertimento sono dottrina e sapere; che mi odia e mi sfugge non gia per invidia, perché non mi ritiene migliore di sè, ma perché tale pensa che io mi ritenga dentro di me, sebbene mai abbia mostrato qualche segno di ciò. Qui passo gli anni, abbandonato, nascosto, senza vita e senz'amore, e tra lo stuolo dei malevoli divento per forza scortese: qui mi spoglio della pietà e delle virtù e divento dispregiatore degli uomini, per la gente meschina tra cui vivo; e intanto vola il caro tempo della gioventù, più caro della fama e della gloria, della pura luce del giorno e dello stesso respiro: ti perdo senza un attimo di gioia, inutilmente, in questo soggiorno disumano, tra gli affanni, unico fiore dell'arida vita. |
50-76 |
Elegia della ricordanza: il poeta |
Viene il vento recando dalla torre del borgo il suono dell'ora. E mi ricordo questo suono era un conforto per me quando ero fanciullo quando durante le mie notti nella camera buia restavo sveglio a causa degli ininterrotti terror, sospirando che giungesse presto il mattino e la luce del giorno. Qui non c'è nulla che io veda o senta che non rievochi dentro di me un'immagine e non sorga un dolce rimembrare. Dolce per sé; ma con dolore subentra il pensiero del presente e un inutile desiderio del passato che mi porta a dire: ho esaurito la mia esistenza. Quella loggia volta ad occidente; queste mura dipinte e quei dipinti che raffigurano armenti, e il Sole che nasce sulla solitaria campagna mi procurarono mille dilettidurante i momenti di riposo dagli studi, quando, dovunque mi trovassi, parlavo come a persona viva con la speranza e l'immaginazione di sogni e illusioni, il mio potente errore giovanile. In queste sale antiche, al chiarore delle nevi, intorno a queste ampie finestre mentre sibilava il vento, risuonarono i giochi e le mie felici grida al tempo in cui a noi si mostra pieno di dolcezza l'indegno mistero delle cose; e il garzoncello come un amante inesperto, sogna intatta e mai gustata la sua vita che sarà piena d'inganni, se la rappresenta come una donna, e ammira una celeste bellezza con la propria immaginazione. |
77-103 |
Elegia della speranza |
O speranze, speranze, dolci e ridenti inganni della mia fanciullezza! sempre, parlando, ritorno a voi; perché non so dimenticarvi col trascorrere del tempo e col mutare di affetti e pensieri. Fantasmi, lo so, sono la gloria e l'onore, i diletti e il bene un semplice desiderio. E sebbene vuoti siano gli anni miei, sebbene oscuro e solitario sia la mia vita mortale, lo so che il destino mi toglie poco. Ma ahimè, ogni volta che ripenso a voi, o mie antiche speranze, ed a quel mio primo fantasticare sul mio futuro e lo confronto con questa mia vita così povera e così dolorosa e che solo la morte mi resta dopo aver sognato grandi speranze, sento stringermi io cuore e sento che non mi so rassegnare del tutto al mio destino. E quando pure questa invocata morte mi raggiungerà e sarà giunto la fine della mia sventura; quando la terra per me diventerà una valle straniera e dal mio sguardo fuggirà il futuro; certamente mi ricorderò di voi, e quell'immagine mi farà ancora sospirare, mi renderà duro e aspro l'aver l'aver vissuto invano; e la dolcezza del giorno fatale della morte attenuerà l'angoscia. |
104-135 |
Elegia della giovinezza |
E già nella fanciullezza, in quel primo tumulto di gioie d'angosce di desideri, più
volte chiamai la morte e a lungo mi sedetti là sulla fontana pensando di porre fine
dentro quelle acque alla speranza, al dololore e alla mia vita. Poi ridotto in fin di vita
da un'oscura malattia, rimpiansi la bella giovinezza e il fiore dei miei giorni poveri di
gioie che così in fretta appassiva; e spesso a tarda sera, seduto sul letto che,
testimone, conosceva ormai tutte le mie sofferenze, scrivendo dolorosamente poesie alla
luce della fioca lucerna, piansi coi silenzi e con la notte miei unici compagni, la vita
che mi abbandonava. E languendo, mentre mi sfuggiva la vita, cantai un canto funebre. |
136-173 |
Elegia di Nerina |
O Nerina! E non odo forse questi luoghi parlare di te? forse sei caduta dal mio pensiero?? Dove sei andata, che qui di te trovo solo la ricordanza, dolcezza mia?. Questa terra natale ormai non ti vede più: quella finestra, dalla quale mi parlavi di solito, e sulla quale riflesso il raggio delle stelle riluce mestamente ora è deserta. Dove sei, che più non sento risuonare la tua voce, quando ogni parola che dalle tue labbra mi giungeva da lontano mi faceva impallidire? Altro tempo. I tuoi giorni furono, mio dolce amor. il tuo passaggio su questa terra è finito. Ad altri ora è dato in sorte passare sulla terra ed abitare questo odorati colli. Ma rapida sei passata e breve come un sogno è stata la tua vita. Avanzavi danzando nel cammino della vita. La gioia ti splendeva in fronte e quelle vaghe immaginazioni intorno all'avvenire e la luce della gioventù ti splendevano negli occhi, quando il destino li ha spenti facendoti giacere nella morte. Ahi Nerina. Nel mio cuore regna l'antico amore. Se qualche volte vado a una festa o a radunanze, fra me stesso dico: a radunanze e a feste Nerina non va più e più non si prepara. Se torna maggio e gli amanti vanno recando alle fanciulle suoni e ramoscelli in fiore, dico: per te Nerina mia la primavera non tornerà mai più, né tornerà l'amore. Ogni giorno sereno, ogni fiorita valle che io miro, ogni piacere che io sento, dico: Nerina ora non gode più; i campi e l'aria non guarda più. Ahi tu sei passata, eterno sospiro mio: passasti e l'acerbo ricordo sarà compagno d'ogni mio caro immaginare, di tutti i mei teneri sentimenti, di tutti i miei tristi e cari moti del cuore. |
Quando guardava le stelle nel passato, all'età di diciotto-venti anni, queste gli ispiravano un'infinità di immaginazioni e di sogni; ora gli restano soltanto i ricordi di un passato finito; ma quel passato ritorna dolce nella memoria per quanto di irripetibile portava dentro di sè e di doloroso per quanto di incompiuto aveva lasciato nel suo cammino. Le speranze che sembravano aprire orizzonti di fama di gloria e di felicità, al contatto con la realtà sono miseramente naufragate, e le aspettative colle quali la Natura in età giovanile aveva riempito la mente e gli animi delgi uomini, sono svanite.
Il tema fondamentale
Il tema fondamentale, che è anche il titolo del canto,
è il ricordo che trasfigura la realtà, o per meglio dire va a cogliere nella realtà del
passato quegli elementi che sono cari e dolci nella mente e che nessuna sofferenza o
angoscia potrà mai impoverire, come i primi moti d'amore che fanno "scolorire il
viso" e rendono gli occhi "ridenti e fuggitivi"
La ricordanza
del passato è messa in correlazione con la visione del presente: una
ricordanza che crea il mito del passato che si spoglia all'improvviso di tutti i suoi
elementi negativi e angosciosi: diventa perfino dolce ricordare i suoi ventanni pur non
dimenticando che talvolta, seduto vicino alla fontana ha pensato di finire in quell'acqua
i suoi giorni annegandovi i suoi stessi pensieri. Ma qualcosa di potente e indistruttibile
arresta la sua mente dal percorrere la via che conduce al baratro.
Le ricordanze sono il canto d'addio a
Recanati: guardando da quelle finestre dalle quali si affacciava quando era fanciullo e
sentiva il canto di Teresa o di Maria Belardinelli e il rumore del telaio o guardava la
torre del borgo, sente tutta l'enorme amara differenza con la sua vita presente, il vuoto
desolante nel quale rischia di cadere per sempre in un'inerzia che troppe tragiche
somiglianze con la morte. Approdato per la terza (era già tornato dal maggio 1823 al
settembre del 25, dal novembre del 26 al 23 aprile 1827) e ultima volta a Recanati il 21
novembre 1828 (per ripartire il 29 aprile 1830); da settimane sfogliava a malapena un
libro e non leggeva quasi: se ne stata immobile nella sua camera senza vedere nessuno,
mangiando una sola volta al giorno, con la finestra spesso chiusa dalla quale trapelavano
voci e rumori da fuori, voci e rumori che non riusciva più a riconoscere come suoi
rifiutandoli e sostituendoli con i ricordi di altre voci e di altri suoni: è in questa
situazione che nasce questo straordinario Canto.
I temi
- Le ricordanze sono un canto compiuto, "il punto d'avvio
di tutta la poesia leopardiana, che si fonda sull'antitesi fra realtà e ricordo, fra
immagine del passato e immagine del presente, in un contrasto dal quale sgorga la lirica o
l'elegia" (Italo de Feo, Leopardi,
l'uomo e l'opera, Mondadori, Milano 1972, p. 429).
Se non di tutta l'opera, certamente
possiamo considerare Le ricordanze il punto d'avvio
per lo studio dei Grandi Idilli, in quanto contengono i temi più importanti della
poesia del poeta di Recanati:
a) - elegia della fanciullezza-giovinezza, quando la vita si presenta al ragazzo indelibata e intera, cioè ancora non gustata e non sperimentata; questa elegia richiama inevitabilmente il seguente tema importante:
b) - elegia della speranza che svanisce all'apparir del vero; Le speranze sono i dolci inganni dell'età giovanile, durante la quale sono dolci le illusioni dell'amore, della gloria, della fama, del futuro; ma purtroppo ben presto, dopo giorni troppo rapidi e fugaci, la vita si rivelerà come una sventura, una miseria inutile e senza frutto.
c) - Direttamente connesso col tema precedente è quello della contemplazione dell'amore nella persona di Nerina, che è il completamento della figura di Silvia. Come Silvia rappresenta l'incanto dell'amore appena sbocciato e che non si riesce a tenere nascosto nel cuore, ma travasa fuori attraverso gli occhi ridenti e fuggitivi, così Nerina è l'espressione dell'amore cosciente, dei pensieri e dei sentimenti scambiati, anche se solo attraverso una finestra.
d) - Abbiamo lasciato apposta per ultima la seconda strofa, che sembra fuori dal clima generale del canto: l'invettiva contro Recanati, una rabbia mal contenuta che nasce dall'insoddisfazione della propria condizione di isolamento e di esclusione determinati prima dal ceto sociale e poi da una cultura che invece di creare affratellamento crea una frattura insanabile. I coetanei di Giacomo erano alle prese con problemi quotidiani di tipo esistenziale che si devono innanzitutto risolvere col duro lavoro, nel quale la cultura comunque la cultura occupa un posto marginale, secondario. Se poi la cultura gli ha procurato, dopo sette anni di studio matto e disperatissimo, insieme all'esclusione dagli altri anche una pronunciata gobba visibile a tutti e che è diventata oggetto di scherno generale dei ragazzi della sua età, che diventano perfino cattivi quando lo vedono passare per via accompagnato dal vecchio pedagogo, allora diventa più umanamente comprensibile l'invettiva leopardiana.
Nerina e l'amore
All'improvviso compare Nerina; sia essa Teresa Fattorini, secondo alcuni, o Maria Belardinelli, secondo altri, morta a Recanati nel 1827, la considerazione generale non può che essere la stessa. Nerina come Silvia è una creazione del poeta, che in pratica quasi nulla ha a che vedere con la realtà quotidiana. Magari il personaggio reale è lo spunto, il ricordo, solo l'attimo dal quale parte l'immaginazione, ma il personaggio femminile del canto è creazione ed opera del poeta, che in esso riversa la sua visione dell'amore, della fine della giovinezza, delle speranze deluse, del tradimento della Natura.
Silvia | Nerina |
Silvia è l'idea del primo
amore inteso come sguardo ridente e fuggitivo che vive per qualche attimo nel "primo
entrar di giovinezza", è l'idea del sentimento che non si svela ma che si vive nel
profondo dell'anima, in quella parte di noi che è inaccessibile a chiunque altro e che
resta in quella profondità inaccessibile diventando il mito della giovinezza non vissuta
e ormai per sempre svanita, passata senza essere stata goduta. Silvia è l'immagine oggettivata della giovinezza del poeta e del fato e del fato che ha stroncato la sua vita immatura |
Nerina vive immaginata
attraverso il ricordo: è l'amore stesso come la più potente illusione dei primi giorni
inenarrabili della fanciullezza, quando ogni cosa sorride. Nerina è la fanciulla che sorride al "garzoncello scherzoso", è l'amore, è la più potente illusione di quei giorni vezzosi e inenarrabili, alla quale il poeta torna a volgersi con una dolorosità profonda ma non angosciante spinto dalla rimembranza che ridesta quelle lontane sensazioni mai più provate, perché altra cosa saranno quelle donne che avranno nella sua vita una certa importanza. |
L'invettiva contro Recanati (2a strofa)
L'avversione di
Leopardi per Recanati è sempre stata molto forte, e di questa avversione pian piano ne
divennero consapevoli anche i genitori, soprattutto il padre, che soffrì per la
lontananza del figlio e desiderava averlo accanto a sè a Recanati; ma si rendeva conto
che lì il figlio non avrebbe mai potuto essere felice. L'avversione è testimoniata fin
dalle prime lettere al Giordani.
In quella del 30 aprile 1817 scrive:
Qui, amabilissimo Signore mio, tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità. Si meravigliano i forestieri di questo silenzio, di questo sonno universale. Letteratura è vocabolo inudito. I nomi del Parini dell'Alfieri del Monti, e del Tasso, e dell'Ariosto e di tutti gli altri han bisogno di commento. Non c'è uno che si curi d'essere qualche cosa, non c'è uno a cui il nome d'ignorante paia strano. Se lo danno da loro sinceramente e sanno di dire il vero. Crede Ella che un grande ingegno qui sarebbe apprezzato? Come la gemma nel letamaio. Ella ha detto benissimo (e saprà ben dove) che gli studi come più sono rari meno si stimano, perché meno se ne conosce il valore. Così appuntino accade in Recanati e in queste provincie dove l'ingegno non si conta fra i doni della natura. Io non sono certo una gran cosa: ma tuttavia ho qualche amico in Milano, fo venire i Giornali, ordino libri, fo stampare qualche mia cosa: tutto questo non ha fatto mai altro recanatese a Recineto condito. Parrebbe che molti dovessero essermi intorno, domandarmi i giornali, voler leggere le mie coserelle, chiedermi notizia dei letterati della età nostra. Per appunto. I giornali come sono stati letti nella mia famiglia, vanno a dormire nelle scansie. Delle mie cose nessuno si cura e questo va bene; degli altri libri molto meno: anzi le dirò senza superbia che la libreria nostra non ha eguale nella provincia, e due sole inferiori. Sulla porta ci sta scritto ch'ella è fatta anche per li cittadini e sarebbe aperta a tutti. Ora quanti pensa Ella che la frequentino? Nessuno mai. Oh veda Ella se questo è terreno da seminarci. Ma e gli studi, le pare che qui si possano far bene? Non dirò che con tutta la libreria io manco spessissimo di libri, non pure che mi piacerebbe di leggere, ma che mi sarebbero necessari; e però Ella non si meravigli se talvolta si accorgerà che io sia senza qualche Classico. Se si vuol leggere un libro che non si ha, se si vuol vederlo anche per un solo momento bisogna procacciarselo col suo danaro, farlo venire di lontano, senza potere scegliere né conoscere prima di comperare, con mille difficoltà per via. Qui niun altro fa venir libri, non si può torre in prestito, non si può andare da un libraio, pigliare un libro, vedere quello che fa al caso e posarlo: sì che la spesa non è divisa, ma è tutta sopra noi soli. Si spende continuamente in libri, ma la spesa è infinita, l'impresa di procacciarsi tutto è disperata. Ma quel non avere un letterato con cui trattenersi, quel serbarsi tutti i pensieri per sé, quel non potere sventolare e dibattere le proprie opinioni, far pompa innocente de' propri studi, chiedere aiuto e consiglio, pigliar coraggio in tante ore e giorni di sfinimento e svogliatezza, le par che sia un bel sollazzo? Io da principio avea pieno il capo delle massime moderne, disprezzava, anzi calpestava, lo studio della lingua nostra, tutti i miei scrittacci originali erano traduzioni dal Francese, disprezzava Omero Dante tutti i Classici, non volea leggerli, mi diguazzava nella lettura che ora detesto: chi mi ha fatto mutar tuono? la grazia di Dio ma niun uomo certamente. Chi m'ha fatto strada a imparare le lingue che m'erano necessarie? la grazia di Dio. Chi m'assicura ch'io non ci pigli un granchio a ogni tratto? Nessuno. Ma pognamo che tutto questo sia nulla. Che cosa è in Recanati di bello? che l'uomo si curi di vedere o d'imparare? niente. Ora Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere, la terra è piena di meraviglie, ed io di dieciott'anni potrò dire, in questa caverna vivrò e morrò dove sono nato? Le pare che questi desideri si possano frenare? che siano ingiusti soverchi sterminati? che sia pazzia il non contentarsi di non veder nulla, il non contentarsi di Recanati? L'aria di questa città l'è stato mal detto che sia salubre. È mutabilissima, umida, salmastra, crudele ai nervi e per la sua sottigliezza niente buona a certe complessioni. A tutto questo aggiunga l'ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s'alimenta e senza studio s'accresce. So ben io qual è, e l'ho provata, ma ora non la provo più, quella dolce malinconia che partorisce le belle cose, più dolce dell'allegria, la quale, se m'è permesso di dir così, è come il crepuscolo, dove questa è notte fittissima e orribile, è veleno, come Ella dice, che distrugge le forze del corpo e dello spirito. Ora come andarne libero non facendo altro che pensare e vivendo di pensieri senza una distrazione al mondo? e come far che cessi l'effetto se dura la causa? Che parla Ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia. So che la noia può farmi manco male che la fatica, e però spesso mi piglio la noia, ma questa mi cresce, com'è naturale, la malinconia, e quando io ho avuto la disgrazia di conversare con questa gente, che succede di raro, torno pieno di tristissimi pensieri agli studi miei, o mi vo covando in mente e ruminando quella nerissima materia. Non m'è possibile rimediare a questo né fare che la mia salute debolissima non si rovini, senza uscire di un luogo che ha dato origine al mal e lo fomenta e l'accresce ogni dì più, e a chi pensa non concede nessun ricreamento. Veggo ben io che per poter continuare gli studi bisogna interromperli tratto tratto e darsi un poco a quelle cose che chiamano mondane, ma per far questo io voglio un mondo che mi alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa) ed abbia tanta forza da farmi dimenticare per qualche momento quello che soprattutto mi sta a cuore, non un mondo che mi faccia dare indietro a prima giunta, e mi sconvolga lo stomaco e mi muova la rabbia e m'attristi e mi forzi di ricorrere per consolarmi a quello da cui volea fuggire. Ma già Ella sa benissimo che io ho ragione, e me lo mostra la sua seconda lettera, nella quale di proprio moto mi esortava a fare un giro per l'Italia, benché poi (e so ben io perché) con lodevolissima intenzione della quale le sono sinceramente grato, abbia voluto parlarmi in altra guisa. Laonde ho cianciato tanto per mostrarle che io ho per certissimo quello che Ella ha per certissimo.
Abbiamo riportato questo lungo brano perché contiene gli elementi utili per capire il rapporto tra Recanati e Leopardi. Giacomo si sente appartenere a un altro mondo; ma uscendo da Recanati mai riuscirà a trovare questo mondo che potesse adattarsi alle sue caratteristiche umane. Da Recanati vuole uscire a tutti i costi; avrebbe perfino accettato una cattedra di storia naturale a Parma. E quando gi arriva nel 1830 dal Colletta l'invito a venire a Firenze, dove avrebbe potuto vivere con i proventi di una sottoscrizione di amici, accetta subito, disponendosi immediatamente a preparare la partenza. Così si esprime nella lettera di accettazione al Colletta del 2 aprile 1830:
Mio caro Generale. Né le condizioni mie sosterrebbero chio ricusassi il benefizio, donde e come che mi venisse, e voi e gli amici vostri sapete beneficare in tal forma, che ogni più schivo consentirebbe di ricever benefizio da vostri pari. Accetto pertanto quello che mi offerite, e laccetto così confidentemente, che non potendo (come sapete) scrivere, e poco potendo dettare, differisco il ringraziarvi a quando lo potrò fare a viva voce, che sarà presto, perchio partirò fra pochi giorni. Per ora vi dirò solo che la vostra lettera, dopo sedici mesi di notte orribile, dopo un vivere dal quale Iddio scampi i miei maggiori nemici, è stata a me come un raggio di luce, più benedetto che non è il primo barlume del crepuscolo nelle regioni polari.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 09 febbraio 1999