Giuseppe Bonghi

Introduzione
Bacco in Toscana
di
Francesco Redi

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Indice
Introduzione
      Il ditirambo
         La struttura
             Il Ditirambo e la società del Seicento
                 L'uso linguistico
                     Bacco in Toscana
                          - vv. 1-357
                          - vv. 358-732
                          - vv. 733-980

BACCO IN TOSCANA
ditirambo
di

FRANCESCO REDI
accademico della Crusca

nota - pubblicato per la prima volta nella versione completa in Firenze nel 1685 con molte annotazioni dell'Autore, accresciute nella terza edizione, del 1691, avvenuta a spese dell'editore Piero Matini - riprendiamo il testo da Bacco in Toscana, Ditirambo di Francesco Redi accademico della Crusca, con le Annotazioni, ed. Piero Matini all'insegna del Lion d'oro, con licenza dei superiori, Firenze 1685, (pubblicato sotto il patronato del Granduca di Toscana) - Il volume giace presso la Biblioteca comunale di Novara -

INTRODUZIONE

- IL DITIRAMBO (n. 1)

      "Questo benedetto Ditirambo è diventato l'Opera di Santa Liperata, direbbe un Battilano" (n. 2). Così scriveva il 29 dicembre 1684 il Redi all'amico Lorenzo Magalotti, riferendosi a tutte le aggiunte che nel corso degli anni, dalla prima idea del 1666, era venuto facendo, specialmente negli ultimi mesi prima della pubblicazione, avvenuta nel 1685, colle spese del Granduca di Toscana Cosimo III. L'ironica battuta del Redi, riferita a un battilano, lavorante addetto alla battitura della lana, quindi di bassa condizione sociale, sta ad indicare un lavoro di cui non si vede mai la fine. Due volte all'anno, gli Accademici della Crusca si riunivano a un pranzo collettivo, un solenne simposio, detto stravizzo, alla presenza di autorità di governo, rappresentanti del Granduca e illustri personaggi, in occasione della elezione di nuovi membri dell'Accademia. Il 12 settembre 1666 si tenne alla presenza dei principi Leopoldo e Mattias de' Medici uno stravizzo per la nomina anche del nuovo arciconsolo, nella persona di Vincenzo da Filicaia. Durante lo scambio dei brindisi, rispondendo a un'ottava scherzosa dell'amico Lorenzo Magalotti, che aveva affermato che non è l'amore che deve reggere il mondo, ma il vino:

l vin sia quel che 'l mondo regge in piede
ed or m'avveggio che il pensier non erra
se sotto i piè mi fa girar la terra'.

il Redi improvvisò un ditirambo scherzoso di quarantaquattro versi, facendo le lodi di alcuni vini toscani. Era il primo nucleo del Ditirambo, che, come afferma Ranieri Schippisi (n. 3),

"sette anni più tardi (1673) erano già diventati i novantasette versi dello Scherzo anacreontico, poi i centoventidue de I vini della Toscana, i centocinquantasette del Baccanale in lode dei vini della Toscana".

      Nel 1673, comunque, in una lettera inviata da Firenze all'amico Lorenzo Magalotti il 26 Agosto, il Redi scrive:

"Il Ditirambo dell'acque (n. 4) non è finito; ma egli è divenuto la rete del barbiere (n. 5). È finito il Ditirambo de' vini ed è cresciuto fino a quattrocento tanti versi. V.S. Illustriss. lo vedrà stampato presto, e quel che più importa cum notibus et commentaribus." (n. 6)

      Si tratta evidentemente del Bacco in Toscana, ma il Ditirambo dei Vini (n. 7), come lo chiama in modo discorsivo e colloquiale l'autore, non verrà mai stampato, anche se cominciarono a circolare molte copie dei quattrocento versi, che subito si imposero per la loro freschezza, diventando celebri presso tutti gli intellettuali della Toscana e presso la Corte del Granduca. É solo a questo punto che si inseriscono non solo gli interventi degli amici, a cominciare da Lorenzo Magalotti, tendenti a far introdurre dei versi in ricordo degli stessi, a cominciare da Cosimo III, ma anche un sentimento di devozione dell'Autore che tendeva a ripagarli in qualche modo dell'amicizia e dell'aiuto che questi gli avevano dato in svariate occasioni: riprova ne è la stessa lettera citata, nella quale l'Autore riporta tre brani del suo Ditirambo (che non subiranno variazioni nell'edizione definitiva: sulle bevande nordiche, birra, ecc.; sulla nave in mare verso Brindisi dalla quiete alla tempesta; sul vino che bisogna bere freddo: in totale 127 versi) nei quali manca qualsiasi accenno agli amici.
      Dopo un certo periodo di pausa, in quanto era impegnato in altre occupazioni, fra cui quella di Primo Medico della Corte, e da interessi più specificamente scientifici, il Redi rimette mano al Ditirambo all'inizio del 1684. I versi diventeranno definitivamente 980 nel 1685, pubblicati col titolo di Bacco in Toscana, dopo dodici anni di aggiunte, rifacimenti e revisioni dal 1673 fino alla versione definitiva, ma soprattutto degli ultimi due anni, legati dall'esile filo dell'elogio dei vini, realizzato da un personaggio che non amava quasi per niente il vino o che comunque difficilmente si abbandonava al bere, e dell'elogio degli amici più cari insieme ai personaggi più in vista dell'epoca.
      Il Redi immagina che Bacco, il dio del vino, ed Arianna sua moglie, in uno dei loro frequenti viaggi per i luoghi in cui si coltivano vigneti a lui dedicati, si fermino con tutto il seguito di Satiri e di Ninfe nelle villa medicea di Poggio Imperiale (il titolo imperiale deriva dal fatto che fu posseduta dalla Granduchessa Maria Maddalena della famiglia imperiale d'Austria, consorte di Cosimo II), una delle residenze estive dei Granduchi di Toscana e soggiorno preferito delle principesse Medicee, una grandiosa costruzione sul posto di un antico castello, dotata di un bellissimo parco. Sul verdeggiante prato del parco, sedendo vicino ad Arianna, Bacco passa in rassegna i vini della Toscana, in particolare del contado fiorentino, insieme ad alcuni non toscani, che egli conosceva per esperienza personale o semplicemente letteraria, in tutto 57, eleggendo infine il migliore di tutti i vini, il Montepulciano, e facendo l'elogio di alcuni degli uomini migliori dell'epoca, con in testa il Mecenate Granduca Cosimo III.
      Proprio sul vino di Montepulciano, elogiandone le grandiose qualità, scrisse un'ode (n. 8) al Conte Federico Veterani in quegli anni, per ringraziarlo di alcuni assaggi di vino che gli aveva mandato, sapendo che il Redi era alle prese con il Ditirambo:

      Se l'Unghero rubelle, e il Transilvano (n. 9)
ridurre al giogo imperial (n. 10) bramate,
bevete, o signor Conte, anzi trincate
questo ch'or vi mand'io Montepulciano.

      Se di questo, Signor, voi trincherete
a colizione, a desinare, e a cena,
il Prence Montecuccoli, e il Turrena
in gloria militar trapasserete:

      anzi quel re di Francia ( n. 11) sì terribile,
che fa paura a tutto quanto il mondo,
e tutto lo vorria domare a tondo,
avrà di voi una paura orribile.

      E se 'l demonio lo tentasse mai
d'attaccarvi di notte nel quartiere ( n. 12),
se baderete, o Signor Conte, a bere,
il Re di Francia n'averà de' guai.

      Bevete dunque, e giorno e notte in guerra
state col fiasco, e generoso, e forte,
e sarete più bravo della morte,
e il maggior capitan, che viva in terra.

      Bevete pur, e ve lo dice il medico,
bevetel freddo, che non fa mai male,
e stimate un solenne arcistivale ( n. 13)
chi non dà fede a quanto adesso io predico.

      E se tornate in Alemagna, dite
al nostro Imperator da parte mia,
che se vuol gastigar quell'Ungheria,
e far le ribellioni ormai finite;

      anch'egli bea Montepulciano, e faccia
nel bel mezzo di Vienna un'ampia grotta,
dove sempre ognun trinchi a guerra rotta ( n. 14)
Verdea, Montepulcian, Chianti, e Vernaccia.

      Se questo fia, vedremo a' nostri giorni
marcire il Turco prigioniero in Vienna,
e la superba trionfale Ardenna
contenta star de' vasti suoi contorni.

      Vedremo, io so bene io, ch'io son Profeta,
perché un fiasco di vino in sen mi bolle,
e tutto pieno di furor m'estolle ( n. 15)
del profetico Pindo all'alta meta.

- LA STRUTTURA

      Nel Ditirambo, per comodità, possiamo distinguere i seguenti punti, che segnano l'evoluzione sia dell'elogio dei vini che di un brindisi che porta più o meno tutti a uno stato di ubriachezza simile a quello delle scimmie, evidenziato non solo dalla tirata a volte confusionaria e balbettante di Bacco, così genialmente espressa dai giochi di parole, di rime e di assonanze e onomatopee, ma anche dall'intrecciarsi di balli e canti sfrenati, esaltati dallo strepito di strumenti primitivi che, nulla avendo di dolce, spingono al parossismo del piacere dei sensi sollecitati dal bere:

vv.
1-94
definizione del vino, come sangue amabile che rinnova le arterie, creato dai raggi del sole che tutto vivifica (11-18); Bacco loda i buoni vini, a cominciare da quelli di Avignone e di Artimino e, passando per i vini da scartare come quelli di Lecore, finisce col Moscadelletto di Montalcino, degno di essere custodito dalle Vestali;
vv.
95-139
alcuni vini non buoni, come il Pisciarello per la mancanza di forza, e l'Asprino perché troppo forte e acre; tirata contro coloro che, come Ciccio d'Andrea e Fasano, superbi, credono di intendersi di vino come Bacco, brandendogli contro il tirso, ma farebbero meglio a bere il Greco di Posillipo e di Ischia;
vv.
140-203
elogio di ottimi vini, come il Trebbiano, il Buriano e il Colombano, insieme alla Barbarossa, al Corso e all'Ispano, che affinano il cervello, come al buon Rucellai che può in questo modo sviluppare i suoi studi scientifici; come contrapposizione abbiamo la condanna di bevande barbare come il cioccolato, il the e il caffè;
vv.
204-290
anche in questa sezione, come nella precedente, alterna l'elogio dei buoni vini del contado fiorentino, e in genere toscano, come la Malvagia, (216-228) il Sansavino, il Vaiano o l'Albano (250-265), e il disprezzo e la maledizione contro coloro che bevono birra, sidro e le bevande del nord Europa (229-244), chiudendo con l'ottimo Topazio di Lamporecchio;
vv.
291-357
tra i modi di bere il vino (puretto o innacquato), indica il modo migliore: il vino va bevuto freddo; e, quindi, elenca vari tipi di vasi che servono a tenere in fresco il vino, come le cantinette e le cantimplore o le bombolette; invita i suoi Satiri a procurargli il ghiaccio necessario dalla Grotta di Boboli, il celebre giardino di Palazzo Pitti, il più bel giardino all'italiana esistente; la sezione chiude con il canto armonioso dei poeti, come Menzini e Filicaia, e degli Accademici della Crusca, invocando Bacco con l'acclamazione "Evoè";
vv.
358-384
piccola sezione, che chiude la prima parte del Ditirambo, con Bacco che, dopo essersi lavato la bocca con la Malvagia del Trebbio, fa una lode a Cosimo III, Granduca di Toscana e Mecenate, che, come ha accolto presso la sua Corte gli intelletti più vivi di Toscana, così possa essere accolto fra i satelliti di Giove, astro novello nel Cielo degli dei;
vv.
385-444
Comincia una seconda parte più movimentata, in cui sono presenti i divertimenti di corte, come balli e canti, sollecitati da vari tipi di strumenti musicali, e allietati da canzoni e poesie ed eccitati ancor più da un immancabile ottimo vino, come il dolce Mammolo di Montisone;
vv.
445-530
la sezione ha un andamento lento, calmo e maestoso, prima del finale travolgente: Redi, cioè Bacco, ha trovato finalmente dei vini eccezionali e si ferma a gustarne il sapore centellinando ogni goccia; sono i vini di Fiesole, di val di Marina, di val di Botte e la Vernaccia, che invitano alla calma e ad ascoltare egloghe al suono dello zufolo all'ombra di una rovere, allontanando tutti coloro che bevono il debole e leggero vino delle Cinque Terre di Toscana (della piana di Lècore alle porte di Firenze) infliggendo loro una vergognosa punizione: ma il tutto è espresso sempre con un garbato sorriso, senza violenza;
vv.
531-585
il ritmo diventa più convulso, rapido e precipitoso, con i versi brevi e i suoni che si inseguono veloci, anche quando (559-580) condanna coloro che preferiscono gli orribili odori alla moda, come il muschio e l'ambra o gli odori fatti venire dal Perù e da Tolù, conservati in cunziere e guancialetti, borsigli e soavi profumiere, all'odore vero e unico del vino; la rinnovata voglia di bere (531-557) apre e chiude la sezione, con l'elogio dell'Antinoro (531), del Canaiuolo (535) e dell'Ambra (581) del Cavalier dell'Ambra;
vv.
586-645
è la sezione che presenta i benefici effetti del vino: fa le menti chiare e svelte (600), come il Pumino; rende contenti i desideri a pieno (615) ed è l'allegria del mondo (620), come il Vermiglio di Gualfonda o il Piropo di Mezzomonte; ispira la poesia (630: mi sollevo sovra i gioghi di Permesso) fino a spingere Bacco a sentirsi in grado di gareggiare con lo stesso Apollo, se beve il rubino di Valdarno o il vino di Gersolè, cantando (643-645) le lodi della chioma naturalmente bionda e della bocca bella di Arianna (tutte le donne dei poeti sono bionde e tutte hanno la bocca bella: la superficialità di queste due immagini è effetto del vino: Bacco non sa trovare di meglio;
vv.
646-731
il vino e l'amore cominciano a produrre i loro effetti su Bacco che si dichiara "Cavalier bagnato" di Arianna per poter sedere con onore alla mensa di Giove, come gli antichi cavalieri della letteratura cortese e in particolare secondo il costume dei cavalieri Longobardi; in questa sezione troviamo sia l'elogio dei vini (Falerno, Tolfa, Verdea, Lacrima del Vesuvio, ecc.) sia i tipi di fabbricazione del vino (mezzograppolo, alla franzese, granella, ecc.) e finisce con l'elogio del Chianti e del Carmignano: intanto s'avanza l'ebbrezza fra i tanti inviti a continuare a bere i buoni vini;
vv.
732-806
è una sezione che rappresenta un intermezzo necessario prima della volata finale: questi versi sono una 'tirata' contro l'acqua, così capricciosa quando mette a soqquadro il mondo con le sue inondazioni che rovinano monumenti stabili da secoli (739-751) e chi la beve (757-760), contro i mediconzoli che la consigliano perché sperano di guarire con essa molti mali (761-770), contro tutte le bevande che non siano vino, come l'acqua cedrata o il limoncello o l'aloscia (778-791), perché sono bevande da femmine leziose: solo il vino (792-806) protegge e fa bene anche al freddoloso Redi (l'autore trova il modo di accennare anche a se stesso);
vv.
807-880
comincia la parte finale del Ditirambo, la più celebre per la genialità ritmica della composizione: l'alternarsi dei versi nella loro varia lunghezza metrica e dei giochi di assonanze e di rime, riflettono bene l'ebbrezza di Bacco, che ondeggiando crede di essere su una nave che naviga verso Brindisi in un comico bisticcio tra Brindisi città e brindisi vinoso: Bacco, come dice il Redi in una lettera al Menagio del 6/1/1684, "comincia ad essere briaco, o per dir meglio è tutto briaco";
vv.
881-960
è la sezione che rappresenta la scena finale: quella della tempesta marina parallela alla tempesta dell'ubriachezza nel corpo di Bacco e dei suoi seguaci, per superare la quale bisogna pur fare qualche sacrificio, buttando a mare i preziosi barili pieni di vino e buttando fuori dal proprio corpo (simboleggiato dalla nave) il vino ingurgitato; una volta alleggeriti, la tempesta sembra essere superata e lo scampato pericolo deve essere festeggiato da una abbondante bevuta: invita i Satiri a mescere altro vino non in bicchieretti, caraffini, buffoncini, zampilletti e borbottini, ma in sterminati calicioni grandi come un tonfano;
vv.
961-980
è la chiusura col brindisi finale col vino di Montepulciano, dichiarato con "altissimo decreto" il re di tutti i vini, bevuto fino a cadere stremato per l'ubriachezza sulla tenera erbetta: mentre gli occhi di Bacco si disciolgono per la dolcezza e la sua anima va in estasi e in visibilio dopo che il vino gli ha baciato e morso l'ugola sdrucciolando verso il cuore, le sue festose Baccanti alternano i canti e i Satiri si sdraiano per terra, "cotti come monne", ubriachi come scimmie.

Sul piano del contenuto mettiamo in evidenza:

elogio dei vini
57
Claretto di Avignone, Rosso di Artimino, Moscadello di Petraia, Moscadello di Castello, Crisolito, Moscadelletto di Montalcino, Pisciancio del Cotone, Pisciarello di Bracciano, Asprino d'Aversa, vino di Posillipo, vino di Ischia, Greco di Posillipo, Greco d'Ischia, Buriano di Pescia, Trebbiano, Colombano, Barbarossa, Corso, Ispano, Malvagia di Montegonzi o Malvagia etrusca, Ambra cretense, vino di Sansavino, Vermiglio di Tregozzano, Vermiglio di Giggiano, Albano, Vaiano, Topazio di Lamporecchio, Malvagia del Trebbio, porpora di Monterappoli, Mammolo di Mantisone, Maiano di Fiesole del Salviati, vino di Val di Marina, vino di Val di Botte, Vin di Lesmo, vino di Colombano, Vernaccia di Pietrafitta di San Gimignano, vin di Brozzi, vin di Quaracchi, vin di Peretola, vino de Le Rose d'Antinoro, Canaiuolo, vino del cav. dell'Ambra, vino di Pumino, vin d'Albizzi, Vermiglio di Gualfonda, Piropo di Mezzomonte, Rubino di Valdarno, Mammoletta, vin di Gersolè, Falerno, Tolfa, Lacrima del Vesuvio, Verdea d'Arcetri, vino porporino di Lappeggio, Chianti, Carmignano, Montepulciano;
tipi di lavorazione del vino: 7 mezzograppolo, alla francese, rincappellato, granella, soleggiato, rullato, alla sciotta;
accenno particolare al Granduca di Toscana Cosimo III de' Medici ed elogio di alcuni degli amici più cari: 21 Scarlatti, Stefano Pignatelli, Ciccio d'Andrea, Gabbriello Fasano, Marchese dell'Oliveto, Orazio Rucellai, Benedetto Menzini, Vincenzo da Filicaia, Alessandro Segni, Monsieur l'Abbé Régnier, Lorenzo Magalotti, Salviati, Anton M. Salvini, Carlo Maria Maggi, Francesco de Lemene di Lodi, Cavalier dell'Ambra, Albizzi, Riccardi, Corsini, Lorenzo Bellini, Vincenzo Viviani;
strumenti musicali popolari: 18 cetera, cembalo, crotalo, flauti, nacchere, talabalacchi, tamburacci, corni, cornamuse, pifferi, sveglioni, colascioni, dabbudà, zufolo, ghironda, cennamella, mandola, viola;
canti popolari, balli e generi di poesie: 12 tresca, frottole, riboboli, strambotti, bombababà, mottetti, cobbole, sonetti, cantici, fiori scambievoli, egloghe, cuccurucù;
vari tipi di bicchieri e di vasi: 33 vetri maiusculi, bellicone, tino, fiasco, botticin, la pevera, nappo, anfore, inguistare, ciotole, bicchier, pecchero, ciotolone, tazze, cantinette, cantimplore, bombolette, coppa, boccale, bigoncia, vaso, fiasche, calice, calicione, bicchieretti fatti a foggia, bicchieri arrovesciati, gozzi strangolati, caraffini, tazze, buffoncini (da buffone), zampilletti, borbottini, vetro che chiamasi tonfano;
odori preziosi e contenitori: 7 ventagli, guancialetti, ambra, soavi profumiere, cunziere, polvigli, borsigli;
bevande diverse: 11 cioccolatte, tè, caffè, cervogia o birra, Sidro d'Inghilterra, bevande di Lapponi e Norvegi, acqua cedrata di limoncello, bevanda di gelsomini, Aloscia, Candiero, sorbetti;
palazzi e ville: 13 Imperial Palagio di Maria Maddalena d'Austria, villa Artimino di Ferdinando I Granduca di Toscana, villa Petraia dei Medici, villa Castello dei Medici, villa di Lamporecchio dei Rospigliosi, villa dei Medici di Trebbio in Mugello, la Salviatina (dei Salviati di Maiano), villa di Lesmo del Maggi, villa di Mezzomonte dei principi Corsini, villa di Gualfonda dei Riccardi, villa del Cotone degli Scarlatti, villa Le Rose degli Antinori, villa Lappeggio (Lampeggio) di Francesco Maria di Toscana;
elementi mitologici: 45 Bacco Domator dell'Indico Oriente, Arianna, Venere, Vergini severe di Vesta, Tigri Nisee, Sebeto, tirso, Febo, Minerva, Elena, nepente d'Elena, Ipocrate, Andromaco, Tartaro, Erebo, empie Belidi figlie di Danao, Tesifone, Furie, Proserpina, Cidonio scoglio, Aurora druda di Titone, Satiri, Grazie, Febea ghirlanda, Pindo, Cigni ebrifestosi, Giove, Bassaridi cinte di nebridi, Fauni, Menadi, Egipani, Esone, Atlante (fiesolano), Parnaso, Narciso, Sileno, Pan, famiglia capribarbicornipede, Permesso (Parnaso), Marte Gradivo egidarmato, Eros (fanciullo faretrato), Sioni, oricrinite stelle di Santermo, Satirelli, Lieo, Bassareo, Baccanti.

- IL DITIRAMBO E LA SOCIETÀ DEL SEICENTO

      La divisione in quindici sezioni ci serve soprattutto per poter capire con maggiore immediatezza il contenuto del Ditirambo e l'ambiente del Seicento Barocco nel quale è nato, un ambiente raffinato che non è solo quello della Corte di Cosimo III dei Medici, ma anche quello dei Letterati dell'Accademia della Crusca e dell'Accademia del Cimento, alcuni dei quali sono nominati sia per il loro valore che per i buoni vini che si producono nelle loro terre. Col passare del tempo e il diffondersi di copie a mano dell'abbozzo del Ditirambo si verifica una nuova necessità: quella del desiderio di amici più o meno influenti, ai quali non si poteva dir di no, che sollecitavano un posto nel Ditirambo.
      Le due necessità - trovare un idoneo posto per i suoi amici e decantare le lodi dei vini migliori che conosceva, anche se non tutti in maniera diretta, perché non era un gran bevitore - così estranee all'idea originaria di una scherzosa lode dei vini di Toscana, erano state accolte soprattutto a causa del suo temperamento, che era improntato da un lato a una certa precisione catalogatoria tipica del naturalista, che gli permetteva il suo lavoro di medico e di ricercatore più o meno scientifico, pur senza grandi intuizioni e senza la sistematicità dello scienziato, e dall'altro a una naturale e sincera cortesia che era sia educata affabilità che opportunismo cortigiano.
      E molte volte lo sforzo di accontentare gli amici si sente: trovare un riferimento calzante per le lodi di tutti gli amici, senza urtare suscettibilità o suscitare permalosità, non dovette essere impresa facile: ne fanno fede le numerose lettere scritte agli amici più intimi, in cui esprime le difficoltà non solo nel trovare il taglio giusto per parlare dei suoi amici, ma anche nel collegare i vari pezzi, in modo che non ne fosse spezzata l'unitarietà. Per evitare che si creasse un'aria di sdolcinata e stucchevole adulazione, mutò l'iniziale idea di lodare i vini e gli uomini in prima persona, coll'artificio di rendere Bacco protagonista e trovatore di quelle lodi e di quelle discrete allusioni, talvolta concordate, spesso lette in anteprima dai destinatari e qualche volta corrette. Il Redi, che come abbiamo più volte detto di vino si intendeva poco, che non lo beveva ma talvolta lo centellinava come se si trattasse di liquore, ed era convinto, anche come medico, che dopo che da Noè fu introdotto l'uso del vino ... molto fu accorciato il nostro vivere, finisce per trovare per alcuni vini aggettivi e qualità comuni e generiche, comunque mai esaltanti e precise, tali che potessero permettere di distinguere sostanzialmente un vino dall'altro, liberando la propria fantasia soprattutto sui modi del bere e sulle ebrifestose conseguenze.

       Scrive Ranieri Schippisi (n. 16):

C'è nel Bacco in Toscana un equilibratissimo gioco tra cultura e tecnica letteraria da un lato, e l'impeto di un estro divertito e poetico dall'altro; ma i due elementi non si intralciano e non si contrastano: piuttosto mutuamente si condizionano e si sottolineano. La scaltrezza del letterato si alleggerisce e si rallegra sempre nell'immagine netta e nell'accavallarsi rapido e lieve dei metri, l'estrosità del poeta si sostanzia e si fissa in una continuata e sorvegliata invenzione; ed il risultato è quell'artificiosa naturalezza di cui ha detto un critico Moderno (il Pancrazi)...

      Il Ditirambo ci offre uno spaccato della società secentesca e barocca coi suoi giochi di corte estivi, col tipo di strumenti usati all'aperto, con il comportamento cortese dei cortigiani, in cui tutto sembra naturale e invece è studiato nei più piccoli particolari dall'inchino al modo di parlare, dal linguaggio ai gesti, al vestire, al camminare, al sedersi sull'erba, fino all'ubbidienza al Principe, cieca e assoluta, nella quale i moti dell'animo sono praticamente esclusi: Bacco è un po' come il Principe Granduca, e la Corte è rappresentata dai Satiri e dalle Ninfe.
       La vita di Corte scivolava lenta e noiosa, fatta da mille impegni per lo più inutili, che distraevano il Redi dalle sue occupazioni predilette, dei quali ebbe qualche volta a lamentarsi, anche se mai in maniera almeno un po' vigorosa: il vigore doveva essere limitato a contrasti assolutamente apparenti e sostanzialmente vuoti, come in una lamentela ( n. 17) contro il figlio del Marchese Pierfrancesco Vitelli, Capitano della Guardia del Granduca, un po' troppo avaro, mentre trascorre l'inverno nella sua villa all'Ambrogiana insieme alla Corte; scrive il Redi:

a quel vostro figliuol, che tanto amate;

       A quel vostro figliuol (Signor Marchese)
che la regia anticamera governa,
a quel vostro figiuol, che quando verna,
non vuol veder mai le fascine accese.

       Grida, strida, schiamazza, e pare un diavolo
a cui l'Angel Michel tolt'abbia un'anima,
e contro me sì bestialmente e s'anima,
che vuol mandarmi ad ingrassare il cavolo.

       Ma faccia lui: che poco ingrasserollo,
perché il freddo m'ha secco il cuoio ( n. 18) addosso,
...

       Voi, ch'avete paterna autorità
sopra il vostro figliuol grasso e paffuto,
che dal Granduca è così ben veduto,
fateci a tutti un po' di carità;

       fategli una solenne riprensione,
e nel farla fingetevi adirato;
ditegli che sarebbe un gran peccato
il far morir di freddo le persone.

       Lo spirito controriformistico a lungo andare, nella seconda metà del Seicento, aveva determinato un isolamento degli ingegni, che, esaurito il periodo dell'influenza dell'insegnamento di Galilei e dei suoi diretti discepoli, venivano a perdere un solido retroterra fondato sugli scambi culturali; e questo si può a maggior ragione notare in personaggi come il Redi, le cui opere scientifiche erano ben conosciute e stampate fuori dai confini della Toscana (a Parigi, ad Amsterdam, ad esempio), ma mancavano della possibilità di un serio sviluppo scientifico perché mancavano scuole e strumenti adeguati che il mecenatismo dei Principi non ha mai offerto e non è riuscito a creare.
       Il controllo ideologico dell'Inquisizione e dell'opera in particolare dei Gesuiti, aveva esteso una cappa che impediva l'approfondimento delle ricerche scientifiche almeno fino al primo quarto del secolo XVIII, e l'espressione dell'arte si era sempre più richiusa in un bozzolo di vuoto concettismo dal quale l'Accademia dell'Arcadia faticosamente comincerà a tirarla fuori verso la fine del Seicento, quando il controllo delle autorità ecclesiastiche su tutte le attività umane comincerà finalmente ad essere limitato.
       Un Granduca come Cosimo III, che manterrà il potere per mezzo secolo fino al 1721, in questa generale atmosfera, con il suo atteggiamento profondamente bigotto e superstizioso, paternalistico e spesso punitivo contro chiunque si discostasse troppo dal comune modo di agire e di pensare, basato più sull'apparenza che sulla sostanza, riservato alle piccole cose quotidiane, senza mai il lampo d'ingegno di una visione generale, non poteva che essere un formidabile freno ai desideri delle persone più colte e più intraprendenti. Per questo, personaggi come il Redi si sono facilmente adagiati a un vivere quotidiano in cui le norme di comportamento piovevano dall'alto e dovevano essere seguite supinamente, mentre le difficoltà venivano risolte e superate dai funzionari della Corte stessa, se mai ve ne fossero state, senza che ai cortigiani venisse lasciata una qualunque libertà d'azione.
       Per questo gli aspetti esteriori dell'esistenza, il gusto del meraviglioso, la tendenza a una visione ludica della vita, l'aspirazione a superare la monotonia quotidiana con la giocosità dell'arte e la concettosità ingegnosa del pensiero che lasciava tutti stupiti e quasi incantati, erano gli aspetti più importanti della visione della vita di questo periodo.
       Su questo piano il Ditirambo del Redi è un gioco di ritmi e di suoni, sottilmente e sapientemente costruito, che produce negli uomini di corte e di cultura quel sottile piacere che fa godere e apprezzare la vita e i suoi doni.


- L'USO LINGUNGUISTICO

       Sul piano linguistico possiamo notare soprattutto l'uso abbastanza frequente del vezzeggiativo, del superlativo e soprattutto del diminutivo, presenti quando vuol dare una patina di dolcezza alle sue parole, anticipando in questo il gusto dell'Arcadia, nata ufficialmente a Roma il 5 ottobre 1690.
       In una delle note al Ditirambo il Redi stesso scriveva:

       Un gentilissimo e pulitissimo scrittore esalta la moderna lingua franzese perché non ammette i diminutivi; biasima l'antica perché gli costumava; non loda l'italiana perché ne ha dovizia. Io per me sarei di contrario avviso, e crederei che i diminutivi fossero da noverarsi tra la ricchezza delle lingue, e particolarmente se con finezza di giudizio a luogo e tempo sieno posti in uso.

       Il diminutivo, quindi, serviva a ingentilire l'argomento, quando si trattava delle qualità delle donne, e a far capire l'insufficienza di determinati elementi; quando, ad es., vuol indicare l'insufficienza di certi contenitori, usa diminutivi come cantinette, bombolette, un uso che è lontano dal classicismo rinascimentale e che anticipa il gusto arcadico, tutto pieno di sentimenti velati e spesso superficiali, ma che hanno il merito di essere legati alla realtà quotidiana. In questo senso la lingua del Ditirambo rappresenta il rifiuto del modello espressivo barocco imperniato sulla poetica della meraviglia, della ricerca della metafora a tutti i costi, dell'iperbole che colpisce la fantasia e l'immaginazione del lettore; è una lingua che possiamo gustare in pochissime altre poesie del Redi, come la seguente, senza titolo ( n. 19):

Quando io ero ancor bambina
lessi un giorno una leggenda,
e imparai sebben piccina,
ch'Amore è la Befana, e la Tregenda ( n. 20).
Semplicetta
pargoletta
lo credetti allora affè (n. 21),
ed al sol nome d'amore
il mio core
spiritava ( n. 22) di paura.
Ma in etade or più matura
rido ben di mia sciocchezza,
e di mia semplicità,
perch'ho letto
in un libretto (n. 23),
che l'amore è un batticuore,
che chi nol vuol non l'ha.

      Oppure questo esempio di poesia anacreontica tipica dello stile arcadico, che tocca il grande tema del passar degli anni, della giovinezza che passa, pubblicata col titolo Altro scherzo per musica (n. 24):

      Donzelletta,
superbetta,
che ti pregi d'un crin d'oro (n. 25),
ch'hai di rose
rugiadose
nelle guancie un bel tesoro;
quei tuoi fiori,
i rigori
proveran tosto del verno (n. 26),
e sul crine
folte brine
ti cadranno a farti scherno.
Damigella,
pazzerella,
godi godi in gioventù;
se languisce,
se sparisce
quest'età, non torna più,
ed al rotar degli anni (
n. 27)
scema sempre il gioir, crescon gli affanni.
La tua beltà
or ch'è amabile,
gioia ineffabile
goder potrà;

       ma se del viso tuo la fresca rosa (n. 28)
per pioggia grandinosa
tempestata dagli anni al fin cadrà,
la tua beltà,
fattasi pallida (n. 29),
tremante, e squallida
lacrimerà,
che dell'etade il verde
per decreto fatal d'iniqua Stella
non ritorna già mai quando si perde.

      Proprio questi "scherzi per musica", che anticipano il melodramma di Pietro Metastasio, sono una sorta di palestra, nella quale il Redi allena il gusto del ritmo all'interno di una lingua quasi popolare, realistica perché calata nell'uso quotidiano, talvolta con qualche parola scurrile, quando deve fare una battuta di spirito o deve dare un consiglio un po' salace o deve fare un commento particolare che si perderebbe usando un linguaggio come quello consacrato dalla tradizione dei classici Trecenteschi. Negli "scherzi" troviamo una puntuale ricerca di musicalità fondata sulla coesistenza di versi di differente lunghezza, dal quadrisillabo all'endecasillabo, tendenti a mettere in mostra con maggiore facilità e immediatezza la variabilità multiforme della vita stessa.
      Un altro aspetto del modello espressivo del Redi nel Ditirambo è la presenza classicistica, in modo continuo, della mitologia: ben 48 sono gli elementi mitologici e 10 gli dei nominati: Bacco, Venere, Febo, Minerva, Aurora, Giove, Marte, Eros, Proserpina, le Grazie; anche la mitologia serve, comunque, per esprimere concetti legati all'attualità, ma denota una certa povertà espressiva di fondo, una certa stanchezza della lingua che ha bisogno di non restare più alla superficie delle cose, ma di calarsi nell'intimo della realtà della vita. Ma l'organizzazione di quella società impediva proprio che si approfondissero i temi della vita, nascondendo tutto sotto l'apparenza di un comportamento cortigiano fatto di regole esteriori, alle quali bisognava ubbidire se non si voleva essere emarginati.
       La vita di corte, in fondo, contro la quale bonariamente esprimeva qualche lamentela lo stesso Redi, perché veniva distratto dalle occupazioni che prediligeva maggiormente, era la morte stessa dell'intelligenza umana e della capacità di analizzare la realtà con qualche fondamento di scientificità: tutto era preordinato e doveva seguire regole precise, un cerimoniale che, se non veniva seguito alla lettera, poteva generare effetti tragicomici: è l'irresistibile comicità in cui cadono personaggi gravi e apparentemente saggi, che hanno nelle mani le sorti di migliaia di persone, quando su cose banali, reputate di grande importanza, scocca la scintilla della tragedia (ripensiamo ad esempio all'episodio di Ludovico narrato ne I promessi sposi o a quello de La vergine cuccia narrato dal Parini ne Il Giorno).

Indice
Introduzione
      Il ditirambo
         La struttura
             Il Ditirambo e la società del Seicento
                 L'uso linguistico
                     Bacco in Toscana
                          - vv. 1-357
                          - vv. 358-732
                          - vv. 733-980

 


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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail:
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Ultimo aggiornamento: 05 febbraio, 1998