Giuseppe Bonghi
Introduzione
Bacco in Toscana
di
Francesco Redi
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Indice | ||
Introduzione Il ditirambo La struttura Il Ditirambo e la società del Seicento L'uso linguistico Bacco in Toscana - vv. 1-357 - vv. 358-732 - vv. 733-980 |
BACCO
IN TOSCANA
ditirambo
di
FRANCESCO REDI
accademico della Crusca
nota - pubblicato per la prima volta nella versione completa in Firenze nel 1685 con molte annotazioni dell'Autore, accresciute nella terza edizione, del 1691, avvenuta a spese dell'editore Piero Matini - riprendiamo il testo da Bacco in Toscana, Ditirambo di Francesco Redi accademico della Crusca, con le Annotazioni, ed. Piero Matini all'insegna del Lion d'oro, con licenza dei superiori, Firenze 1685, (pubblicato sotto il patronato del Granduca di Toscana) - Il volume giace presso la Biblioteca comunale di Novara -
INTRODUZIONE
"Questo benedetto Ditirambo è diventato l'Opera di Santa Liperata, direbbe un Battilano" (n. 2). Così scriveva il 29 dicembre 1684 il Redi all'amico Lorenzo Magalotti, riferendosi a tutte le aggiunte che nel corso degli anni, dalla prima idea del 1666, era venuto facendo, specialmente negli ultimi mesi prima della pubblicazione, avvenuta nel 1685, colle spese del Granduca di Toscana Cosimo III. L'ironica battuta del Redi, riferita a un battilano, lavorante addetto alla battitura della lana, quindi di bassa condizione sociale, sta ad indicare un lavoro di cui non si vede mai la fine. Due volte all'anno, gli Accademici della Crusca si riunivano a un pranzo collettivo, un solenne simposio, detto stravizzo, alla presenza di autorità di governo, rappresentanti del Granduca e illustri personaggi, in occasione della elezione di nuovi membri dell'Accademia. Il 12 settembre 1666 si tenne alla presenza dei principi Leopoldo e Mattias de' Medici uno stravizzo per la nomina anche del nuovo arciconsolo, nella persona di Vincenzo da Filicaia. Durante lo scambio dei brindisi, rispondendo a un'ottava scherzosa dell'amico Lorenzo Magalotti, che aveva affermato che non è l'amore che deve reggere il mondo, ma il vino:
l vin sia quel che 'l mondo regge in piede
ed or m'avveggio che il pensier non erra
se sotto i piè mi fa girar la terra'.
il Redi improvvisò un ditirambo scherzoso di quarantaquattro
versi, facendo le lodi di alcuni vini toscani. Era il primo
nucleo del Ditirambo, che, come afferma Ranieri Schippisi (n. 3),
"sette anni più tardi (1673) erano già diventati i novantasette versi dello Scherzo anacreontico, poi i centoventidue de I vini della Toscana, i centocinquantasette del Baccanale in lode dei vini della Toscana".
Nel 1673, comunque, in una lettera inviata da Firenze all'amico Lorenzo Magalotti il 26 Agosto, il Redi scrive:
"Il Ditirambo dell'acque (n. 4) non è finito; ma egli è divenuto la rete del barbiere (n. 5). È finito il Ditirambo de' vini ed è cresciuto fino a quattrocento tanti versi. V.S. Illustriss. lo vedrà stampato presto, e quel che più importa cum notibus et commentaribus." (n. 6)
Si tratta evidentemente
del Bacco in Toscana, ma il Ditirambo dei Vini (n.
7), come lo chiama in modo discorsivo e colloquiale
l'autore, non verrà mai stampato, anche se cominciarono a
circolare molte copie dei quattrocento versi, che subito si
imposero per la loro freschezza, diventando celebri presso tutti
gli intellettuali della Toscana e presso la Corte del Granduca.
É solo a questo punto che si inseriscono non solo gli interventi
degli amici, a cominciare da Lorenzo Magalotti, tendenti a far
introdurre dei versi in ricordo degli stessi, a cominciare da
Cosimo III, ma anche un sentimento di devozione dell'Autore che
tendeva a ripagarli in qualche modo dell'amicizia e dell'aiuto
che questi gli avevano dato in svariate occasioni: riprova ne è
la stessa lettera citata, nella quale l'Autore riporta tre brani
del suo Ditirambo (che non subiranno variazioni nell'edizione
definitiva: sulle bevande nordiche, birra, ecc.; sulla nave in
mare verso Brindisi dalla quiete alla tempesta; sul vino che
bisogna bere freddo: in totale 127 versi) nei quali manca
qualsiasi accenno agli amici.
Dopo un certo periodo di
pausa, in quanto era impegnato in altre occupazioni, fra cui
quella di Primo Medico della Corte, e da interessi più
specificamente scientifici, il Redi rimette mano al Ditirambo
all'inizio del 1684. I versi diventeranno definitivamente 980 nel
1685, pubblicati col titolo di Bacco in Toscana, dopo
dodici anni di aggiunte, rifacimenti e revisioni dal 1673 fino
alla versione definitiva, ma soprattutto degli ultimi due anni,
legati dall'esile filo dell'elogio dei vini, realizzato da un
personaggio che non amava quasi per niente il vino o che comunque
difficilmente si abbandonava al bere, e dell'elogio degli amici
più cari insieme ai personaggi più in vista dell'epoca.
Il Redi immagina che Bacco,
il dio del vino, ed Arianna sua moglie, in uno dei loro frequenti
viaggi per i luoghi in cui si coltivano vigneti a lui dedicati,
si fermino con tutto il seguito di Satiri e di Ninfe nelle villa
medicea di Poggio Imperiale (il titolo imperiale deriva dal fatto
che fu posseduta dalla Granduchessa Maria Maddalena della
famiglia imperiale d'Austria, consorte di Cosimo II), una delle
residenze estive dei Granduchi di Toscana e soggiorno preferito
delle principesse Medicee, una grandiosa costruzione sul posto di
un antico castello, dotata di un bellissimo parco. Sul
verdeggiante prato del parco, sedendo vicino ad Arianna, Bacco
passa in rassegna i vini della Toscana, in particolare del
contado fiorentino, insieme ad alcuni non toscani, che egli
conosceva per esperienza personale o semplicemente letteraria, in
tutto 57, eleggendo infine il migliore di tutti i vini, il
Montepulciano, e facendo l'elogio di alcuni degli uomini migliori
dell'epoca, con in testa il Mecenate Granduca Cosimo III.
Proprio sul vino di
Montepulciano, elogiandone le grandiose qualità, scrisse un'ode
(n. 8) al Conte Federico Veterani in quegli
anni, per ringraziarlo di alcuni assaggi di vino che gli aveva
mandato, sapendo che il Redi era alle prese con il Ditirambo:
Se
l'Unghero rubelle, e il Transilvano (n. 9) ridurre al giogo imperial (n. 10) bramate, bevete, o signor Conte, anzi trincate questo ch'or vi mand'io Montepulciano. Se
di questo, Signor, voi trincherete anzi quel re di
Francia ( n. 11)
sì terribile, E se 'l demonio lo
tentasse mai Bevete dunque, e
giorno e notte in guerra Bevete pur, e ve
lo dice il medico, E se tornate in
Alemagna, dite anch'egli bea
Montepulciano, e faccia Se questo fia,
vedremo a' nostri giorni Vedremo, io so
bene io, ch'io son Profeta, |
Nel Ditirambo, per comodità, possiamo distinguere i seguenti punti, che segnano l'evoluzione sia dell'elogio dei vini che di un brindisi che porta più o meno tutti a uno stato di ubriachezza simile a quello delle scimmie, evidenziato non solo dalla tirata a volte confusionaria e balbettante di Bacco, così genialmente espressa dai giochi di parole, di rime e di assonanze e onomatopee, ma anche dall'intrecciarsi di balli e canti sfrenati, esaltati dallo strepito di strumenti primitivi che, nulla avendo di dolce, spingono al parossismo del piacere dei sensi sollecitati dal bere:
vv. 1-94 |
definizione del vino, come sangue amabile che rinnova le arterie, creato dai raggi del sole che tutto vivifica (11-18); Bacco loda i buoni vini, a cominciare da quelli di Avignone e di Artimino e, passando per i vini da scartare come quelli di Lecore, finisce col Moscadelletto di Montalcino, degno di essere custodito dalle Vestali; |
vv. 95-139 |
alcuni vini non buoni, come il Pisciarello per la mancanza di forza, e l'Asprino perché troppo forte e acre; tirata contro coloro che, come Ciccio d'Andrea e Fasano, superbi, credono di intendersi di vino come Bacco, brandendogli contro il tirso, ma farebbero meglio a bere il Greco di Posillipo e di Ischia; |
vv. 140-203 |
elogio di ottimi vini, come il Trebbiano, il Buriano e il Colombano, insieme alla Barbarossa, al Corso e all'Ispano, che affinano il cervello, come al buon Rucellai che può in questo modo sviluppare i suoi studi scientifici; come contrapposizione abbiamo la condanna di bevande barbare come il cioccolato, il the e il caffè; |
vv. 204-290 |
anche in questa sezione, come nella precedente, alterna l'elogio dei buoni vini del contado fiorentino, e in genere toscano, come la Malvagia, (216-228) il Sansavino, il Vaiano o l'Albano (250-265), e il disprezzo e la maledizione contro coloro che bevono birra, sidro e le bevande del nord Europa (229-244), chiudendo con l'ottimo Topazio di Lamporecchio; |
vv. 291-357 |
tra i modi di bere il vino (puretto o innacquato), indica il modo migliore: il vino va bevuto freddo; e, quindi, elenca vari tipi di vasi che servono a tenere in fresco il vino, come le cantinette e le cantimplore o le bombolette; invita i suoi Satiri a procurargli il ghiaccio necessario dalla Grotta di Boboli, il celebre giardino di Palazzo Pitti, il più bel giardino all'italiana esistente; la sezione chiude con il canto armonioso dei poeti, come Menzini e Filicaia, e degli Accademici della Crusca, invocando Bacco con l'acclamazione "Evoè"; |
vv. 358-384 |
piccola sezione, che chiude la prima parte del Ditirambo, con Bacco che, dopo essersi lavato la bocca con la Malvagia del Trebbio, fa una lode a Cosimo III, Granduca di Toscana e Mecenate, che, come ha accolto presso la sua Corte gli intelletti più vivi di Toscana, così possa essere accolto fra i satelliti di Giove, astro novello nel Cielo degli dei; |
vv. 385-444 |
Comincia una seconda parte più movimentata, in cui sono presenti i divertimenti di corte, come balli e canti, sollecitati da vari tipi di strumenti musicali, e allietati da canzoni e poesie ed eccitati ancor più da un immancabile ottimo vino, come il dolce Mammolo di Montisone; |
vv. 445-530 |
la sezione ha un andamento lento, calmo e maestoso, prima del finale travolgente: Redi, cioè Bacco, ha trovato finalmente dei vini eccezionali e si ferma a gustarne il sapore centellinando ogni goccia; sono i vini di Fiesole, di val di Marina, di val di Botte e la Vernaccia, che invitano alla calma e ad ascoltare egloghe al suono dello zufolo all'ombra di una rovere, allontanando tutti coloro che bevono il debole e leggero vino delle Cinque Terre di Toscana (della piana di Lècore alle porte di Firenze) infliggendo loro una vergognosa punizione: ma il tutto è espresso sempre con un garbato sorriso, senza violenza; |
vv. 531-585 |
il ritmo diventa più convulso, rapido e precipitoso, con i versi brevi e i suoni che si inseguono veloci, anche quando (559-580) condanna coloro che preferiscono gli orribili odori alla moda, come il muschio e l'ambra o gli odori fatti venire dal Perù e da Tolù, conservati in cunziere e guancialetti, borsigli e soavi profumiere, all'odore vero e unico del vino; la rinnovata voglia di bere (531-557) apre e chiude la sezione, con l'elogio dell'Antinoro (531), del Canaiuolo (535) e dell'Ambra (581) del Cavalier dell'Ambra; |
vv. 586-645 |
è la sezione che presenta i benefici effetti del vino: fa le menti chiare e svelte (600), come il Pumino; rende contenti i desideri a pieno (615) ed è l'allegria del mondo (620), come il Vermiglio di Gualfonda o il Piropo di Mezzomonte; ispira la poesia (630: mi sollevo sovra i gioghi di Permesso) fino a spingere Bacco a sentirsi in grado di gareggiare con lo stesso Apollo, se beve il rubino di Valdarno o il vino di Gersolè, cantando (643-645) le lodi della chioma naturalmente bionda e della bocca bella di Arianna (tutte le donne dei poeti sono bionde e tutte hanno la bocca bella: la superficialità di queste due immagini è effetto del vino: Bacco non sa trovare di meglio; |
vv. 646-731 |
il vino e l'amore cominciano a produrre i loro effetti su Bacco che si dichiara "Cavalier bagnato" di Arianna per poter sedere con onore alla mensa di Giove, come gli antichi cavalieri della letteratura cortese e in particolare secondo il costume dei cavalieri Longobardi; in questa sezione troviamo sia l'elogio dei vini (Falerno, Tolfa, Verdea, Lacrima del Vesuvio, ecc.) sia i tipi di fabbricazione del vino (mezzograppolo, alla franzese, granella, ecc.) e finisce con l'elogio del Chianti e del Carmignano: intanto s'avanza l'ebbrezza fra i tanti inviti a continuare a bere i buoni vini; |
vv. 732-806 |
è una sezione che rappresenta un intermezzo necessario prima della volata finale: questi versi sono una 'tirata' contro l'acqua, così capricciosa quando mette a soqquadro il mondo con le sue inondazioni che rovinano monumenti stabili da secoli (739-751) e chi la beve (757-760), contro i mediconzoli che la consigliano perché sperano di guarire con essa molti mali (761-770), contro tutte le bevande che non siano vino, come l'acqua cedrata o il limoncello o l'aloscia (778-791), perché sono bevande da femmine leziose: solo il vino (792-806) protegge e fa bene anche al freddoloso Redi (l'autore trova il modo di accennare anche a se stesso); |
vv. 807-880 |
comincia la parte finale del Ditirambo, la più celebre per la genialità ritmica della composizione: l'alternarsi dei versi nella loro varia lunghezza metrica e dei giochi di assonanze e di rime, riflettono bene l'ebbrezza di Bacco, che ondeggiando crede di essere su una nave che naviga verso Brindisi in un comico bisticcio tra Brindisi città e brindisi vinoso: Bacco, come dice il Redi in una lettera al Menagio del 6/1/1684, "comincia ad essere briaco, o per dir meglio è tutto briaco"; |
vv. 881-960 |
è la sezione che rappresenta la scena finale: quella della tempesta marina parallela alla tempesta dell'ubriachezza nel corpo di Bacco e dei suoi seguaci, per superare la quale bisogna pur fare qualche sacrificio, buttando a mare i preziosi barili pieni di vino e buttando fuori dal proprio corpo (simboleggiato dalla nave) il vino ingurgitato; una volta alleggeriti, la tempesta sembra essere superata e lo scampato pericolo deve essere festeggiato da una abbondante bevuta: invita i Satiri a mescere altro vino non in bicchieretti, caraffini, buffoncini, zampilletti e borbottini, ma in sterminati calicioni grandi come un tonfano; |
vv. 961-980 |
è la chiusura col brindisi finale col vino di Montepulciano, dichiarato con "altissimo decreto" il re di tutti i vini, bevuto fino a cadere stremato per l'ubriachezza sulla tenera erbetta: mentre gli occhi di Bacco si disciolgono per la dolcezza e la sua anima va in estasi e in visibilio dopo che il vino gli ha baciato e morso l'ugola sdrucciolando verso il cuore, le sue festose Baccanti alternano i canti e i Satiri si sdraiano per terra, "cotti come monne", ubriachi come scimmie. |
Sul piano del contenuto mettiamo in evidenza:
elogio dei vini 57 |
Claretto di Avignone, Rosso di Artimino, Moscadello di Petraia, Moscadello di Castello, Crisolito, Moscadelletto di Montalcino, Pisciancio del Cotone, Pisciarello di Bracciano, Asprino d'Aversa, vino di Posillipo, vino di Ischia, Greco di Posillipo, Greco d'Ischia, Buriano di Pescia, Trebbiano, Colombano, Barbarossa, Corso, Ispano, Malvagia di Montegonzi o Malvagia etrusca, Ambra cretense, vino di Sansavino, Vermiglio di Tregozzano, Vermiglio di Giggiano, Albano, Vaiano, Topazio di Lamporecchio, Malvagia del Trebbio, porpora di Monterappoli, Mammolo di Mantisone, Maiano di Fiesole del Salviati, vino di Val di Marina, vino di Val di Botte, Vin di Lesmo, vino di Colombano, Vernaccia di Pietrafitta di San Gimignano, vin di Brozzi, vin di Quaracchi, vin di Peretola, vino de Le Rose d'Antinoro, Canaiuolo, vino del cav. dell'Ambra, vino di Pumino, vin d'Albizzi, Vermiglio di Gualfonda, Piropo di Mezzomonte, Rubino di Valdarno, Mammoletta, vin di Gersolè, Falerno, Tolfa, Lacrima del Vesuvio, Verdea d'Arcetri, vino porporino di Lappeggio, Chianti, Carmignano, Montepulciano; |
tipi di lavorazione del vino: 7 | mezzograppolo, alla francese, rincappellato, granella, soleggiato, rullato, alla sciotta; |
accenno particolare al Granduca di Toscana Cosimo III de' Medici ed elogio di alcuni degli amici più cari: 21 | Scarlatti, Stefano Pignatelli, Ciccio d'Andrea, Gabbriello Fasano, Marchese dell'Oliveto, Orazio Rucellai, Benedetto Menzini, Vincenzo da Filicaia, Alessandro Segni, Monsieur l'Abbé Régnier, Lorenzo Magalotti, Salviati, Anton M. Salvini, Carlo Maria Maggi, Francesco de Lemene di Lodi, Cavalier dell'Ambra, Albizzi, Riccardi, Corsini, Lorenzo Bellini, Vincenzo Viviani; |
strumenti musicali popolari: 18 | cetera, cembalo, crotalo, flauti, nacchere, talabalacchi, tamburacci, corni, cornamuse, pifferi, sveglioni, colascioni, dabbudà, zufolo, ghironda, cennamella, mandola, viola; |
canti popolari, balli e generi di poesie: 12 | tresca, frottole, riboboli, strambotti, bombababà, mottetti, cobbole, sonetti, cantici, fiori scambievoli, egloghe, cuccurucù; |
vari tipi di bicchieri e di vasi: 33 | vetri maiusculi, bellicone, tino, fiasco, botticin, la pevera, nappo, anfore, inguistare, ciotole, bicchier, pecchero, ciotolone, tazze, cantinette, cantimplore, bombolette, coppa, boccale, bigoncia, vaso, fiasche, calice, calicione, bicchieretti fatti a foggia, bicchieri arrovesciati, gozzi strangolati, caraffini, tazze, buffoncini (da buffone), zampilletti, borbottini, vetro che chiamasi tonfano; |
odori preziosi e contenitori: 7 | ventagli, guancialetti, ambra, soavi profumiere, cunziere, polvigli, borsigli; |
bevande diverse: 11 | cioccolatte, tè, caffè, cervogia o birra, Sidro d'Inghilterra, bevande di Lapponi e Norvegi, acqua cedrata di limoncello, bevanda di gelsomini, Aloscia, Candiero, sorbetti; |
palazzi e ville: 13 | Imperial Palagio di Maria Maddalena d'Austria, villa Artimino di Ferdinando I Granduca di Toscana, villa Petraia dei Medici, villa Castello dei Medici, villa di Lamporecchio dei Rospigliosi, villa dei Medici di Trebbio in Mugello, la Salviatina (dei Salviati di Maiano), villa di Lesmo del Maggi, villa di Mezzomonte dei principi Corsini, villa di Gualfonda dei Riccardi, villa del Cotone degli Scarlatti, villa Le Rose degli Antinori, villa Lappeggio (Lampeggio) di Francesco Maria di Toscana; |
elementi mitologici: 45 | Bacco Domator dell'Indico Oriente, Arianna, Venere, Vergini severe di Vesta, Tigri Nisee, Sebeto, tirso, Febo, Minerva, Elena, nepente d'Elena, Ipocrate, Andromaco, Tartaro, Erebo, empie Belidi figlie di Danao, Tesifone, Furie, Proserpina, Cidonio scoglio, Aurora druda di Titone, Satiri, Grazie, Febea ghirlanda, Pindo, Cigni ebrifestosi, Giove, Bassaridi cinte di nebridi, Fauni, Menadi, Egipani, Esone, Atlante (fiesolano), Parnaso, Narciso, Sileno, Pan, famiglia capribarbicornipede, Permesso (Parnaso), Marte Gradivo egidarmato, Eros (fanciullo faretrato), Sioni, oricrinite stelle di Santermo, Satirelli, Lieo, Bassareo, Baccanti. |
- IL DITIRAMBO E LA SOCIETÀ DEL SEICENTO
La divisione in quindici
sezioni ci serve soprattutto per poter capire con maggiore
immediatezza il contenuto del Ditirambo e l'ambiente del Seicento
Barocco nel quale è nato, un ambiente raffinato che non è solo
quello della Corte di Cosimo III dei Medici, ma anche quello dei
Letterati dell'Accademia della Crusca e dell'Accademia del
Cimento, alcuni dei quali sono nominati sia per il loro valore
che per i buoni vini che si producono nelle loro terre. Col
passare del tempo e il diffondersi di copie a mano dell'abbozzo
del Ditirambo si verifica una nuova necessità: quella del
desiderio di amici più o meno influenti, ai quali non si poteva
dir di no, che sollecitavano un posto nel Ditirambo.
Le due necessità - trovare
un idoneo posto per i suoi amici e decantare le lodi dei vini
migliori che conosceva, anche se non tutti in maniera diretta,
perché non era un gran bevitore - così estranee all'idea
originaria di una scherzosa lode dei vini di Toscana, erano state
accolte soprattutto a causa del suo temperamento, che era
improntato da un lato a una certa precisione catalogatoria tipica
del naturalista, che gli permetteva il suo lavoro di medico e di
ricercatore più o meno scientifico, pur senza grandi intuizioni
e senza la sistematicità dello scienziato, e dall'altro a una
naturale e sincera cortesia che era sia educata affabilità che
opportunismo cortigiano.
E molte volte lo sforzo di
accontentare gli amici si sente: trovare un riferimento calzante
per le lodi di tutti gli amici, senza urtare suscettibilità o
suscitare permalosità, non dovette essere impresa facile: ne
fanno fede le numerose lettere scritte agli amici più intimi, in
cui esprime le difficoltà non solo nel trovare il taglio giusto
per parlare dei suoi amici, ma anche nel collegare i vari pezzi,
in modo che non ne fosse spezzata l'unitarietà. Per evitare che
si creasse un'aria di sdolcinata e stucchevole adulazione, mutò
l'iniziale idea di lodare i vini e gli uomini in prima persona,
coll'artificio di rendere Bacco protagonista e trovatore di
quelle lodi e di quelle discrete allusioni, talvolta concordate,
spesso lette in anteprima dai destinatari e qualche volta
corrette. Il Redi, che come abbiamo più volte detto di vino si
intendeva poco, che non lo beveva ma talvolta lo centellinava
come se si trattasse di liquore, ed era convinto, anche come
medico, che dopo che da Noè fu introdotto l'uso del vino ...
molto fu accorciato il nostro vivere, finisce per trovare per
alcuni vini aggettivi e qualità comuni e generiche, comunque mai
esaltanti e precise, tali che potessero permettere di distinguere
sostanzialmente un vino dall'altro, liberando la propria fantasia
soprattutto sui modi del bere e sulle ebrifestose conseguenze.
Scrive Ranieri Schippisi (n. 16):
C'è nel Bacco in Toscana un equilibratissimo gioco tra cultura e tecnica letteraria da un lato, e l'impeto di un estro divertito e poetico dall'altro; ma i due elementi non si intralciano e non si contrastano: piuttosto mutuamente si condizionano e si sottolineano. La scaltrezza del letterato si alleggerisce e si rallegra sempre nell'immagine netta e nell'accavallarsi rapido e lieve dei metri, l'estrosità del poeta si sostanzia e si fissa in una continuata e sorvegliata invenzione; ed il risultato è quell'artificiosa naturalezza di cui ha detto un critico Moderno (il Pancrazi)...
Il Ditirambo ci offre uno
spaccato della società secentesca e barocca coi suoi giochi di
corte estivi, col tipo di strumenti usati all'aperto, con il
comportamento cortese dei cortigiani, in cui tutto sembra
naturale e invece è studiato nei più piccoli particolari
dall'inchino al modo di parlare, dal linguaggio ai gesti, al
vestire, al camminare, al sedersi sull'erba, fino all'ubbidienza
al Principe, cieca e assoluta, nella quale i moti dell'animo sono
praticamente esclusi: Bacco è un po' come il Principe Granduca,
e la Corte è rappresentata dai Satiri e dalle Ninfe.
La vita di Corte scivolava
lenta e noiosa, fatta da mille impegni per lo più inutili, che
distraevano il Redi dalle sue occupazioni predilette, dei quali
ebbe qualche volta a lamentarsi, anche se mai in maniera almeno
un po' vigorosa: il vigore doveva essere limitato a contrasti
assolutamente apparenti e sostanzialmente vuoti, come in una
lamentela ( n. 17) contro
il figlio del Marchese Pierfrancesco Vitelli, Capitano della
Guardia del Granduca, un po' troppo avaro, mentre trascorre
l'inverno nella sua villa all'Ambrogiana insieme alla Corte;
scrive il Redi:
a quel vostro figliuol, che tanto amate; |
A quel vostro
figliuol (Signor Marchese) che la regia anticamera governa, a quel vostro figiuol, che quando verna, non vuol veder mai le fascine accese.
Grida, strida, schiamazza, e pare un diavolo Ma faccia lui:
che poco ingrasserollo, Voi, ch'avete
paterna autorità fategli una
solenne riprensione, |
Lo spirito
controriformistico a lungo andare, nella seconda metà del
Seicento, aveva determinato un isolamento degli ingegni, che,
esaurito il periodo dell'influenza dell'insegnamento di Galilei e
dei suoi diretti discepoli, venivano a perdere un solido
retroterra fondato sugli scambi culturali; e questo si può a
maggior ragione notare in personaggi come il Redi, le cui opere
scientifiche erano ben conosciute e stampate fuori dai confini
della Toscana (a Parigi, ad Amsterdam, ad esempio), ma mancavano
della possibilità di un serio sviluppo scientifico perché
mancavano scuole e strumenti adeguati che il mecenatismo dei
Principi non ha mai offerto e non è riuscito a creare.
Il controllo ideologico
dell'Inquisizione e dell'opera in particolare dei Gesuiti, aveva
esteso una cappa che impediva l'approfondimento delle ricerche
scientifiche almeno fino al primo quarto del secolo XVIII, e
l'espressione dell'arte si era sempre più richiusa in un bozzolo
di vuoto concettismo dal quale l'Accademia dell'Arcadia
faticosamente comincerà a tirarla fuori verso la fine del
Seicento, quando il controllo delle autorità ecclesiastiche su
tutte le attività umane comincerà finalmente ad essere
limitato.
Un Granduca come Cosimo III,
che manterrà il potere per mezzo secolo fino al 1721, in questa
generale atmosfera, con il suo atteggiamento profondamente
bigotto e superstizioso, paternalistico e spesso punitivo contro
chiunque si discostasse troppo dal comune modo di agire e di
pensare, basato più sull'apparenza che sulla sostanza, riservato
alle piccole cose quotidiane, senza mai il lampo d'ingegno di una
visione generale, non poteva che essere un formidabile freno ai
desideri delle persone più colte e più intraprendenti. Per
questo, personaggi come il Redi si sono facilmente adagiati a un
vivere quotidiano in cui le norme di comportamento piovevano
dall'alto e dovevano essere seguite supinamente, mentre le
difficoltà venivano risolte e superate dai funzionari della
Corte stessa, se mai ve ne fossero state, senza che ai cortigiani
venisse lasciata una qualunque libertà d'azione.
Per questo gli aspetti
esteriori dell'esistenza, il gusto del meraviglioso, la tendenza
a una visione ludica della vita, l'aspirazione a superare la
monotonia quotidiana con la giocosità dell'arte e la
concettosità ingegnosa del pensiero che lasciava tutti stupiti e
quasi incantati, erano gli aspetti più importanti della visione
della vita di questo periodo.
Su questo piano il Ditirambo
del Redi è un gioco di ritmi e di suoni, sottilmente e
sapientemente costruito, che produce negli uomini di corte e di
cultura quel sottile piacere che fa godere e apprezzare la vita e
i suoi doni.
Sul piano linguistico
possiamo notare soprattutto l'uso abbastanza frequente del
vezzeggiativo, del superlativo e soprattutto del diminutivo,
presenti quando vuol dare una patina di dolcezza alle sue parole,
anticipando in questo il gusto dell'Arcadia, nata ufficialmente a
Roma il 5 ottobre 1690.
In una delle note al
Ditirambo il Redi stesso scriveva:
Un gentilissimo e pulitissimo scrittore esalta la moderna lingua franzese perché non ammette i diminutivi; biasima l'antica perché gli costumava; non loda l'italiana perché ne ha dovizia. Io per me sarei di contrario avviso, e crederei che i diminutivi fossero da noverarsi tra la ricchezza delle lingue, e particolarmente se con finezza di giudizio a luogo e tempo sieno posti in uso.
Il diminutivo, quindi, serviva a ingentilire l'argomento, quando si trattava delle qualità delle donne, e a far capire l'insufficienza di determinati elementi; quando, ad es., vuol indicare l'insufficienza di certi contenitori, usa diminutivi come cantinette, bombolette, un uso che è lontano dal classicismo rinascimentale e che anticipa il gusto arcadico, tutto pieno di sentimenti velati e spesso superficiali, ma che hanno il merito di essere legati alla realtà quotidiana. In questo senso la lingua del Ditirambo rappresenta il rifiuto del modello espressivo barocco imperniato sulla poetica della meraviglia, della ricerca della metafora a tutti i costi, dell'iperbole che colpisce la fantasia e l'immaginazione del lettore; è una lingua che possiamo gustare in pochissime altre poesie del Redi, come la seguente, senza titolo ( n. 19):
Quando io ero ancor bambina lessi un giorno una leggenda, e imparai sebben piccina, ch'Amore è la Befana, e la Tregenda ( n. 20). Semplicetta pargoletta lo credetti allora affè (n. 21), ed al sol nome d'amore il mio core spiritava ( n. 22) di paura. Ma in etade or più matura rido ben di mia sciocchezza, e di mia semplicità, perch'ho letto in un libretto (n. 23), che l'amore è un batticuore, che chi nol vuol non l'ha. |
Oppure questo esempio di poesia anacreontica tipica dello stile arcadico, che tocca il grande tema del passar degli anni, della giovinezza che passa, pubblicata col titolo Altro scherzo per musica (n. 24):
Donzelletta, superbetta, che ti pregi d'un crin d'oro (n. 25), ch'hai di rose rugiadose nelle guancie un bel tesoro; quei tuoi fiori, i rigori proveran tosto del verno (n. 26), e sul crine folte brine ti cadranno a farti scherno. Damigella, pazzerella, godi godi in gioventù; se languisce, se sparisce quest'età, non torna più, ed al rotar degli anni ( n. 27) scema sempre il gioir, crescon gli affanni. La tua beltà or ch'è amabile, gioia ineffabile goder potrà;
ma se del viso tuo la fresca rosa (n. 28) |
Proprio questi
"scherzi per musica", che anticipano il melodramma di
Pietro Metastasio, sono una sorta di palestra, nella quale il
Redi allena il gusto del ritmo all'interno di una lingua quasi
popolare, realistica perché calata nell'uso quotidiano, talvolta
con qualche parola scurrile, quando deve fare una battuta di
spirito o deve dare un consiglio un po' salace o deve fare un
commento particolare che si perderebbe usando un linguaggio come
quello consacrato dalla tradizione dei classici Trecenteschi.
Negli "scherzi" troviamo una puntuale ricerca di
musicalità fondata sulla coesistenza di versi di differente
lunghezza, dal quadrisillabo all'endecasillabo, tendenti a
mettere in mostra con maggiore facilità e immediatezza la
variabilità multiforme della vita stessa.
Un altro aspetto del modello
espressivo del Redi nel Ditirambo è la presenza classicistica,
in modo continuo, della mitologia: ben 48 sono gli elementi
mitologici e 10 gli dei nominati: Bacco, Venere, Febo, Minerva,
Aurora, Giove, Marte, Eros, Proserpina, le Grazie; anche la
mitologia serve, comunque, per esprimere concetti legati
all'attualità, ma denota una certa povertà espressiva di fondo,
una certa stanchezza della lingua che ha bisogno di non restare
più alla superficie delle cose, ma di calarsi nell'intimo della
realtà della vita. Ma l'organizzazione di quella società
impediva proprio che si approfondissero i temi della vita,
nascondendo tutto sotto l'apparenza di un comportamento
cortigiano fatto di regole esteriori, alle quali bisognava
ubbidire se non si voleva essere emarginati.
La vita di corte, in fondo,
contro la quale bonariamente esprimeva qualche lamentela lo
stesso Redi, perché veniva distratto dalle occupazioni che
prediligeva maggiormente, era la morte stessa dell'intelligenza
umana e della capacità di analizzare la realtà con qualche
fondamento di scientificità: tutto era preordinato e doveva
seguire regole precise, un cerimoniale che, se non veniva seguito
alla lettera, poteva generare effetti tragicomici: è
l'irresistibile comicità in cui cadono personaggi gravi e
apparentemente saggi, che hanno nelle mani le sorti di migliaia
di persone, quando su cose banali, reputate di grande importanza,
scocca la scintilla della tragedia (ripensiamo ad esempio
all'episodio di Ludovico narrato ne I promessi sposi o a
quello de La vergine cuccia narrato dal Parini ne Il
Giorno).
Indice | ||
Introduzione Il ditirambo La struttura Il Ditirambo e la società del Seicento L'uso linguistico Bacco in Toscana - vv. 1-357 - vv. 358-732 - vv. 733-980 |
© 1996 - by prof.
Giuseppe Bonghi - E-mail:
Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 05 febbraio, 1998