Francesco Redi

Bacco in Toscana

vv. 358-732

      Che vino è quel colà,
ch'ha quel color dorè? (n.183)
la Malvagia sarà,
ch'al Trebbio (n.184) onor già diè:
ell'è da vero, ell'è;
accostala un po' in qua,
e colmane per me
quella gran Coppa là:
è buona per mia fe,
e molto a grè (n.185) mi va:
io bevo in sanità
toscano Re di te (n.186).  
Pria ch'io parli di te, Re saggio e forte,
lavo la bocca mia con quest'umore (n.187),
umor, che dato al secol nostro in sorte
spira gentil soavità d'odore.
Gran Cosmo (n.188) ascolta. A tue virtudi il Cielo
quaggiù promette eternità di gloria (n.189).
E gli Oracoli miei, senz'alcun velo (n.190)
scritti già son nella immortale istoria.
Sazio poi d'anni, e di grandi opre onusto (n.191),
volgendo il tergo a questa bassa mole (n.192)
per tornar colassù, donde scendesti,
splenderai luminoso intorno a Giove
tralle Medicee stelle Astro novello (n.193),
e Giove stesso del tuo lume adorno (n.194)
girerà più lucente all'etra intorno.
      Al suon del cembalo (n.195),  
al suon del crotalo (n.196)  
cinte di Nebridi (n.197)  
snelle Bassaridi (n.198)  
su su mescetemi
di quella porpora (n.199),  
che in Monterappoli (n.200)  
da' neri grappoli
sì bella spremesi;
e' mentre annaffione
l'aride viscere
ch'ognor m'avvampano,
gli esperti Fauni (n.201)  
al crin m'intreccino
serti di pampano (n.202);  
indi allo strepito
di flauti e nacchere (n.203)
trescando (n.204) intuonino
strambotti e frottole (n.205)
d'alto misterio ;
e l'ebre Menadi (n.206),  
e i lieti Egipani (n.207)  
a quel mistico lor rozzo sermone
tengan bordone (n.208).  
Turba villana intanto
applauda al nostro canto,
e dal poggio vicino accordi e suoni
talabalacchi, tamburacci e corni;
e cornamuse e pifferi e sveglioni;
e tra cento colascioni (n.209)
cento rozze forosette (n.210),
strimpellando il dabbuddà (n.211),
cantino e ballino il bombababà (n.212);
e se cantandolo,
arciballandolo
avvien che stanchinsi,
e per grandavida
sete trafelinsi (n.213),  
tornando a bevere
sul prato asseggansi,
canterellandovi
con rime sdrucciole
mottetti e cobbole,
sonetti e cantici ;
poscia dicendosi
fiori (n.214) scambievoli
sempremai tornino
di nuovo a bevere
l'altera porpora,
che in Monterappoli
da' neri grappoli
sì bella spremesi;
e la maritino
col dolce Mammolo (n.215),  
che colà imbottasi,
dove salvatico
il Magalotti (n.216) in mezzo al Solleone
trova l'Autunno a quella stessa fonte (n.217),
anzi a quel sasso, onde l'antico Esone
diè nome e fama al solitario monte (n.218).
      Questo nappo (n.219), che sembra una pozzanghera,
colmo è d'un vin sì forte (n.220) e sì possente,
che per ischerzo baldanzosamente
sbarbica i denti, e le mascelle sganghera:
quasi ben gonfio e rapido torrente
urta il palato, e il gorgozzule inonda,
e precipita in giù tanto fremente,
ch'appena il cape (n.221) l'una e l'altra sponda:
madre (n.222) gli fu quella scoscesa balza,
dove l'annoso Fiesolano Atlante
nel più fitto meriggio e più brillante
verso l'occhio del Sole il fianco innalza (n.223):
Fiesole (n.224) viva, e seco viva il nome
del buon Salviati (n.225), ed il suo bel Maiano;
egli sovente con devota mano
offre diademi alle mie sacre chiome,
ed io Lui sano preservo
da ogni mal crudo e protervo:
ed intanto
per mia gioia tengo accanto
quel grande onor di sua real Cantina
vin di Val Marina (n.226):  
ma del vin di Val di Botte
voglio berne giorno e notte,
perché so che in pregio l'hanno
anco i Maestri di color che sanno:
ei da un colmo bicchiere e traboccante
in sì dolce contegno il cuor mi tocca,
che per ridirlo non saria bastante
il mio Salvin (n.227), ch'ha tante lingue in bocca:
se per sorte avverrà, che un dì lo assaggi
dentro a' Lombardi i suoi grassi cenacoli,
colla ciotola in man farà miracoli
lo splendor di Milano il savio Maggi (n.228):
il savio Maggi d'Ippocrene (n.229) al fonte
menzognero liquore unqua non bebbe (n.230),
né sul Parnaso (n.231) lusinghiero egli ebbe
serti profani all'onorata fronte (n.232):
altre strade egli corse (n.233); e un bel sentiero
rado, o non mai battuto aprì ver l'etra
solo ai numi, e agli eroi nell'aurea cetra
offrir gli piacque il suo gran canto altero:
e saria veramente un Capitano
se tralasciando del suo Lesmo (n.234); il vino,
a trincar si mettesse il vin Toscano;
che tratto a forza dal possente odore,
post'in non cale i Lodigiani armenti,
seco n'andrebbe in compagnia d'onore
con le gote di mosto, e tinte e piene (n.235)
il Pastor de Lemene (n.236);
io dico Lui, che giovanetto scrisse
nella scorza de' faggi e degli allori
del Paladino Macaron (n.237) le risse,
e di Narciso (n.238) i forsennati amori:
e le cose del Ciel più sante e belle
ora scrive a caratteri di stelle:
ma quando assidesi
sotto una rovere (n.239),  
al suon del zufolo (n.240)  
cantando spippola
egloghe (n.241), e celebra
il purpureo liquor del suo bel colle (n.242),
cui bacia il Lambro il piede ,
ed a cui Colombano (n.243) il nome diede,
ove le viti in lascivetti intrichi
sposate sono invece d'olmi a' fichi (n.244).
      Se vi è alcuno, a cui non piaccia
la Vernaccia
vendemmiata in Pietrafitta (n.245),
interdetto
maladetto
fugga via dal mio cospetto,
e per pena sempre ingozzi (n.246)
vin di Brozzi,
di Quaracchi e di Peretola ,
e per onta e per ischerno
in eterno
coronato sia di bietola (n.247);
e sul destrier del vecchierel Sileno (n.248),
cavalcando a ritroso ed a bisdosso,
da un insolente satiretto osceno
con infame flagel venga percosso,
e poscia avvinto in vergognoso loco
ai fanciulli plebei serva per gioco;
e lo giunga di vendemmia
questa orribile bestemmia (n.249).
      Là d'Antinoro (n.250) in su quei colli alteri,
ch'han dalle rose il nome ,
oh come lieto, oh come
dagli acini più neri
d'un Canaiuol (n.251)maturo  
spremo un mosto sì puro,
che ne' vetri zampilla,
salta, spumeggia e brilla!
e quando in bel paraggio (n.252)
d'ogni altro vin lo assaggio,
sveglia nel petto mio
un certo non so che,
che non so dir s'egli è
o gioia, o pur desìo:
egli è un desio novello,
novel desio di bere,
che tanto più s'accresce
quanto più vin si mesce:
mescete, o miei compagni,
e nella grande inondazion vinosa
si tuffi, e ci accompagni
tutt'allegra e festosa
questa, che Pan (n.253) somiglia
capribarbicornipede famiglia,
mescete, su mescete:
tutti affoghiam la sete
in qualche vin polputo (n.254),
quale è quel, ch'a diluvi oggi è venduto
dal Cavalier dall'Ambra,
per ricomprarne poco muschio ed ambra (n.255).
Ei s'è fitto in umore (n.256)
di trovar un odore
sì delicato e fino,
che sia più grato (n.257) dell'odor del vino:
mille inventa odori eletti,
fa ventagli e guancialetti,
fa soavi profumiere,
e ricchissime cunziere (n.258),
fa polvigli (n.259),  
fa borsigli,
che per certo son perfetti;
ma non trova il poverino
odor, che agguagli il grande odor del vino.
Fin da' gioghi del Perù,
e dai boschi del Tolù (n.260)
fa venire,
sto per dire,
mille droghe, e forse più,
ma non trova il poverino
odor, che agguagli il grande odor del vino.
fiuta, Arianna, questo è il vin dell'Ambra (n.261)!
oh che robusto, oh che vitale odore!
sol da questo nel core
si rifanno gli spiriti, e nel celàbro (n.262),
ma quel che è più, ne gode ancora il labro.
      Quel gran vino
di Pumino (n.263)  
sente un po' dell'Affricogno,
tuttavia di mezzo Agosto
io ne voglio sempre accosto;
e di ciò non mi vergogno,
perché a berne sul popone
parmi proprio sua stagione:
ma non lice ad ogni vino
di Pumino
star a tavola ritonda (n.264);
solo ammetto alla mia mensa
quello, che il nobil Albizzi dispensa,
e che fatto d'uve scelte
fa le menti chiare e svelte.
      Fa le menti chiare e svelte
anco quello
ch'ora assaggio, e ne favello (n.265)
per sentenza senza appello:
ma ben pria di favellarne
vo' gustarne un'altra volta.
tu, Sileno, intanto ascolta,
chi 'l crederia giammai? Nel bel giardino
ne' bassi di Gualfonda (n.266) inabissato,
dove tiene il Riccardi alto domino,
in gran palagio, e di grand'oro ornato,
ride un Vermiglio, che può stare a fronte
al Piropo gentil di Mezzomonte (n.267),
ove talora io soglio
render contenti i miei disiri a pieno,
allor che assiso in verdeggiante soglio
di quel molle Piropo empiomi il seno,
di quel molle Piropo almo e giocondo,
gemma ben degna de' Corsini eroi,
gemma dell'Arno, ed allegria del mondo.
      La rugiada di Rubino (n.268),
che in Valdarno i colli onora,
tanto odora,
che per lei suo pregio perde
la brunetta
mammoletta
quando spunta dal suo verde (n.269):
s'io ne bevo,
mi sollevo
sovra i gioghi di Permesso (n.270),
e nel canto sì' m'accendo,
che pretendo, e mi do vanto
gareggiar con Febo (n.271) istesso;
dammi dunque dal boccal d'oro
quel Rubino, ch'è 'l mio tesoro;
tutto pien d'alto furore (n.272)
canterò versi d'amore,
che saran via più soavi,
e più grati (n.273) di quel che è
il buon vin di Gersolè:
quindi al suon d'una ghironda(n.274),
o d'un'aurea cennamella,
Arianna idolo mio,
loderò tua chioma bionda,
loderò tua bocca bella,
già s'avanza in me l'ardore,
già mi bolle dentro 'l seno
un veleno
ch'è velen d'almo liquore (n.275):
già Gradivo (n.276) egidarmato
col fanciullo faretrato (n.277)
infernifoca il mio cuore:
già nel bagno d'un bicchiere (n.278),
Arianna idolo amato,
mi vo' far tuo cavaliere,
cavalier sempre bagnato (n.279):
per cagion di sì bell'ordine
senza scandalo, o disordine
su nel cielo in gloria immensa
potrò seder col mio gran padre a mensa (n.280);
e tu gentil consorte
fatta meco immortal verrai là dove
i numi eccelsi fan corona a Giove.
      Altri beveva il Falerno, altri la Tolfa (n.281),
altri il sangue, che lacrima il Vesuvio;
un gentil bevitor mai non s'ingolfa
in quel fumoso e fervido diluvio:
oggi vogli'io, che regni entro a i miei vetri(n.282)
la Verdea soavissima d'Arcetri:
ma se chieggio
di Lappeggio (n.283)  
la bevanda porporina,
si dia fondo alla cantina.
Su trinchiam di sì buon paese
Mezzograppolo, e alla Franzese(n.284);
su trinchiam rincappellato
con granella e soleggiato;
trincanniamo a guerra rotta (n.285)
vin Rullato, e alla sciotta;
e tra noi gozzovigliando (n.286),
gavazzando,
gareggiamo a chi più imbotta.
Imbottiam senza paura,
senza regola, o misura:
quando il vino è gentilissimo
digeriscesi prestissimo,
e per lui (n.287) mai non molesta
la spranghetta nella testa;
e far fede ne potria
l'anatomico Bellini (n.288),
se dell'uve, e se de' vini
far volesse notomia;
egli almeno, o lingua mia,
t'insegnò con sua bell'arte
in qual parte
di te stessa, e in qual vigore
puoi gustarne ogni sapore;
lingua mia già fatta scaltra
gusta un po', gusta quest'altro
vin robusto, che si vanta
d'esser nato in mezzo al Chianti (n.289),
e ta' sassi
lo produsse
per le genti più bevone
vite bassa, e non broncone (n.290):
bramerei veder trafitto
da una serpe in mezzo al petto
quell'avaro villanzone (n.291),
che per render la sua vite
di più grappoli feconda,
là ne' monti del buon Chianti,
veramente villanzone,
maritolla ad un broncone (n.292).
      Del buon Chianti il vin decrepito (n.293)
maestoso
imperioso
mi passeggia dentro il core,
e ne scaccia senza strepito
ogni affanno, e ogni dolore;
ma se Giara (n.294) io prendo in mano
di brillante Carmignano (n.295),
così grato in sen mi piove,
ch'ambrosia e nettar non invidio (n.296) a Giove.
Or questo, che stillò all'uve brune
di vigne sassosissime (n.297) Toscane
bevi, Arianna, e tien da lui lontane
le chiomazzurre Naiadi (n.298) importune;
che saria
gran follia
e bruttissimo peccato
bevere il Carmignan, quando è innacquato.
 
 
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Bacco in Toscana
vv. 1-357                      vv. 733-980

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