Francesco Redi

Bacco in Toscana

vv. 1-357

      Dell'Indico (n.30)Orïente
Domator (n.31) glorïoso il Dio del vino (n.32)
fermato avea l'allegro suo soggiorno
a i colli Etruschi intorno;
e colà dove imperïal palagio (n.33)
l'augusta fronte inver le nubi inalza
sul verdeggiante prato
con la vaga (n.34) Arïanna (n.35) un dì sedea,
e bevendo, e cantando
al bell'idolo suo così dicea:
      Se dell'uve il sangue (n.36) amabile
non rinfranca (n.37) ognor le vene,
questa vita è troppo labile(n.38),
troppo breve, e sempre in pene.
      Sì bel sangue è un raggio acceso
di quel Sol (n.39), che in ciel vedete;
e rimase avvinto e preso
di più grappoli alla rete.
      Su su dunque in questo sangue
rinnoviam l'arterie e i musculi;
e per chi s'invecchia (n.40), e langue
prepariam vetri maiusculi (n.41):
ed in festa baldanzosa
tra gli scherzi, e tra le risa
lasciam pur, lasciam passare
lui (n.42), che in numeri e in misure
si ravvolge, e si consuma,
e quaggiù Tempo si chiama;
e bevendo, e ribevendo
i pensier mandiamo in bando (n.43).
      Benedetto
quel Claretto (n.44)  
che si sprilla in Avignone,
questo vasto Bellicone(n.45)
io ne verso entro 'l mio petto;
ma di quel, che sì puretto
si vendemmia in Artimino (n.46) ,
vò trincarne più d'un tino (n.47) ;
ed in sì dolce e nobile lavacro (n.48) ,
mentre il polmon (n.49) mio tutto s'abbevera,
Arianna, mio Nume, a te consacro
il tino, il fiasco, il botticin, la pevera (n.50).
      Accusato,
tormentato,
condannato
sia colui, che in pian di Lècore (n.51)
prim'osò (n.52) piantar le viti;
infiniti
capri, e pecore
si divorino quei tralci,
e gli stralci
pioggia (n.53) rea di ghiaccio asprissimo;
ma lodato,
celebrato,
coronato
sia l'eroe, che nelle vigne
di Petraia e di Castello (n.54)
piantò prima il Moscadello (n.55).
      Or che stiamo in festa, e in giòlito (n.56)
bei (n.57) di questo bel Crisòlito (n.58),
ch'è figliuolo
d'un magliuolo (n.59),  
che fa viver più del solito:
se di questo tu berai,
Arianna mia bellissima,
crescerà sì tua vaghezza (n.60),
che nel fior di giovinezza
parrai Venere (n.61) stessissima.
      Del Leggiadretto,
del sì divino
Moscadelletto
di Montalcino (n.62)  
talor per scherzo
ne chieggio un nappo (n.63),  
ma non incappo
a berne il terzo:
egli è un vin, ch'è tutto grazia,
ma però troppo mi sazia.
Un tal vino
lo destino
per stravizzo (n.64), e per piacere
delle vergini severe,
che racchiuse in sacro loco
an di Vesta (n.65) in cura il foco (n.66);  
un tal vino
lo destino
per le dame di Parigi,
e per quelle,
che sì belle
rallegrar fanno il Tamigi:
il Pisciancio (n.67) del Cotone (n.68),  
onde ricco è lo Scarlatti (n.69),
vò, che il bevan le persone,
che non san fare i lor fatti (n.70).
Quel cotanto sdolcinato,
sì smaccato (n.71),  
scolorito (n.72), snervatello (n.73)  
Pisciarello (n.74) di Bracciano (n.75)  
non è sano,
e il mio detto vò che approvi100
ne' suoi dotti scartabelli (n.76)
l'erudito Pignatelli (n.77);
e se in Roma al volgo (n.78) piace
glie lo lascio in santa pace:
e se ben Ciccio d'Andrea (n.79)
con amabile fierezza,
con terribile dolcezza
tra gran tuoni d'eloquenza
nella propria mia presenza
innalzare un dì volea
quel d'Aversa acido Asprino (n.80),
che non sò s'agresto (n.81), o vino,
egli a Napoli sel bea
del superbo Fasano (n.82) in compagnia,
che con lingua profana (n.83) osò di dire,
che del buon vino al par di me s'intende;
ed empio ormai bestemmiator pretende
delle Tigri Nisee (n.84) sul carro
gire in trionfo al bel Sebeto intorno (n.85);
ed a quei lauri, ond'ave il crine adorno,
anco intralciar la pampinosa vigna,
che lieta alligna (n.86) in Posillipo e in Ischia ;
e più avanti s'innoltra, e in fin s'arrischia
brandire il Tirso (n.87), e minacciarmi altero:
ma con esso azzuffarmi ora non chero;
perocché lui dal mio furor preserva
Febo e Minerva (n.88),  
forse avverrà, che sul Sebeto io voglia
alzar un giorno di delizie un trono:
allor vedrollo umiliato, e in dono
offerirmi devoto
di Posillipo e d'Ischia il nobil Greco (n.89);
e forse allor rappattumarmi (n.90) seco
non fia ch'io sdegni, e beveremo in tresca (n.91)
all'usanza Tedesca;
e tra l'anfore vaste, e l'inguistare (n.92)
sarà di nostre gare
giudice illustre, e spettator ben lieto
il Marchese gentil Dell'Oliveto (n.93).
Ma frattanto qui sull'Arno140
io di Pescia, il Buriano (n.94),
il Trebbiano, il Colombano
mi tracanno a piena mano:
egli è il vero oro potabile(n.95) ,
che mandar suole in esilio
ogni male inrimediabile (n.96);
egli è d'Elena (n.97) il Nepente ,
che fa stare il mondo allegro
da i pensieri
foschi e neri
sempre sciolto, e sempre esente.
Quindi avvien, che sempre mai
tra la sua filosofia
lo teneva in compagnia
il buon vecchio Rucellai (n.98);
ed al chiaro di lui (n.99) ben comprendea
gli atomi tutti quanti, e ogni corpuscolo,
e molto ben distinguere sapea
dal mattutino il vespertin crepuscolo,
ed additava donde avesse origine
la pigrizia degli astri, e la vertigine.
Quanto errando, oh quanto va
nel cercar la verità (n.100)
chi dal vin lungi si stà!
Io stovvi appresso, ed or godendo accorgomi,
che in bel color di fragola matura
la Barbarossa (n.101) allettami,
e cotanto dilettami,
che temprare (n.102) amerei l'intera arsura,
se il Greco Ipocrate (n.103),
se il vecchio Andromaco (n.104)
non mel vietassero,
né mi sgridassero,
che suol talora infievolir lo stomaco;
lo sconcerti quanto sà;
voglio berne almen due ciotole (n.105),
perché so mentre ch'io votole
alla fin quel che ne va.
Con un sorso
di buon Corso,
o di pretto antico Ispano (n.106)
a quel mal porgo un soccorso (n.107),
che non è da Cerretano (n.108):
non fia già, che il cioccolatte (n.109)
v'adoprassi, ovvero il tè (n.110),
medicine così fatte
non saran giammai per me:
beverei prima il veleno,
che un bicchier che fosse pieno
dell'amaro e reo caffè (n.111):
colà tra gli Arabi
e tra i Giannizzeri (n.112)  
liquor sì ostico (n.113),  
sì nero e torbido
gli schiavi ingollino.
Giù nel Tartaro,
giù nell'Erebo (n.114)  
l'empie Belidi (n.115) l'inventarono,
e Tesifone, e l'altre Furie (n.116)
a Proserpina (n.117) il ministrarono;
e se in Asia il Musulmanno
se lo cionca (n.118) a precipizio,
mostra aver poco giudizio.
      Han giudizio, e non son gonzi
quei Toscani bevitori,
che tracannano gli umori
della vaga e della bionda,
che di gioia i cuori innonda,
malvagia di Montegonzi (n.119);
allor che per le fauci, e per l'esofago
ella gorgoglia e mormora,
mi fa nascer nel petto
un indistinto incognito diletto,
che si può ben sentire,
ma non si può ridire.
      Io nol nego, è preziosa
odorosa
l'Ambra (n.120) liquida Cretense;
ma tropp'alta ed orgogliosa
la mia sete mai non spense;
ed è vinta in leggiadria
dall'Etrusca Malvagia (n.121) :
ma se fia mai, che da Cidonio (n.122) scoglio
tolti i superbi e nobili rampolli (n.123)
ringentiliscan su i Toscani colli,
depor vedransi il naturale orgoglio (n.124) ,
e qui dove il ber s'apprezza
pregio avran di gentilezza.
      Chi la squallida Cervogia (n.125)
alle labbra sue congiugne
presto muore (n.126) , o rado giugne
all'età vecchia e barbogia (n.127):
beva il Sidro d'Inghilterra (n.128)
chi vuol gir presto sotterra;
chi vuol gir presto alla morte
le bevande usi del Norte:
fanno i pazzi beveroni (n.129)
quei Norvegi, e quei Lapponi;
quei Lapponi son pur tangheri,
son pur sozzi nel loro bere;
solamente nel vedere
mi fariano uscir de' gangheri:
ma si restin col mal die (n.130)
sì profane dicerie,
e il mio labbro profanato
si purifichi, s'immerga,
si sommerga
dentro un pècchero (n.131) indorato
colmo in giro (n.132) di quel vino
del vitigno
sì benigno (n.133) ,
che fiammeggia in Sansavino;
o di quel che vermigliuzzo,
brillantuzzo
fa superbo l'Aretino,
che lo alleva in Tregozzano,
e tra' sassi di Giggiano (n.134) .
Sarà forse più frizzante,
più razzente (n.135) e più piccante,
o coppier, se tu richiedi
quell'Albano,
quel Vaiano,
che biondeggia,
che rosseggia
là negli orti del mio Redi (n.136).
Manna dal ciel sulle tue trecce piova (n.137),
vigna gentil, che questa ambrosia (n.138) infondi;
ogni tua vite in ogni tempo muova
nuovi fior, nuovi frutti e nuove frondi (n.139);
un rio di latte in dolce foggia (n.140), e nuova
i sassi tuoi placidamente innondi:
né pigro giel, né tempestosa piova (n.141)
ti perturbi giammai, né mai ti sfrondi:
e 'l tuo Signor nell'età sua più vecchia
possa del vino tuo ber colla secchia.
Se la druda (n.142) di Titone
al canuto suo marito
con un vasto ciotolone
di tal vin facesse invito,
quel buon vecchio colassù
tornerebbe in gioventù (n.143).
      Torniam noi trattanto a bere:
ma con qual nuovo ristoro
coronar (n.144) potrò 'l bicchiere
per un brindisi canoro?
col Topazio pigiato in Lamporecchio (n.145),
ch'è famoso Castel per quel Masetto (n.146),
a inghirlandar le tazze or m'apparecchio (n.147),
purché gelato sia, e sia puretto (n.148),
gelato, quale alla stagion del gielo
il più freddo Aquilon fischia pel cielo.
Cantinette e Cantimplore (n.149)
stieno in pronto a tutte l'ore
con forbite bombolette (n.150)
chiuse e strette tra le brine
delle nevi cristalline.
Son le nevi il quinto elemento (n.151),
che compongono il vero bevere:
ben è folle chi spera ricevere
senza nevi nel bere un contento (n.152):
venga pur da Vallombrosa (n.153)
neve a iosa:
venga pur da ogni bicocca
neve in chiocca (n.154);  
e voi Satiri (n.155) lasciate
tante frottole e tanti riboboli (n.156),
e del ghiaccio mi portate
dalla grotta del Monte di Boboli (n.157).
Con alti picchi
de' mazzapicchi (n.158)  
dirompetelo,
sgretolatelo,
infragnetelo (n.159),  
stritolatelo,
finché tutto si possa risolvere
in minuta freddissima polvere,
che mi renda il ber più fresco
per rinfresco del palato,
or ch'io son mortoassetato (n.160).
Del vin caldo s'io n'insacco (n.61),
dite pur ch'io non son Bacco.
Se giammai n'assaggio un gotto (n.162)
dite pure, e vel perdono,
ch'io mi sono un vero Arlotto (n.163):
e quei, che in prima in leggiadretti versi
ebbe le grazie (n.164) lusinghiere al fianco,
e poi pel suo gran cuore ardito e franco
vibrò i suoi detti in fulmine conversi (n.165),
il grande Anacreontico (n.166)ammirabile
Menzin (n.167), che splende per Febea ghirlanda,
di satirico fiele (n.168) atra bevanda
mi porga ostica (n.169), acerba e inevitabile;
ma se vivo costantissimo
nel volerlo arcifreddissimo,
quei, che in Pindo (n.170) è sovrano, e in Pindo gode
glorie immortali, e al par di Febo ha i vanti,
quel gentil Filicaia (n.171) inni di lode  
su la Cètera (n.172) sua sempre mi canti;
e altri Cigni ebrifestosi (n.173),
che di lauro s'incoronino
ne' lor canti armonïosi,
il mio nome ognor risuonino,
e rintuonino
viva Bacco il nostro Re:
Evoé (n.174)
Evoé:
Evoé replichi a gara
quella turba sì preclara (n.175),
anzi quel Regio Senato (n.176),
che decide in trono assiso
ogni saggio e dotto piato (n.177)
là 've l'Etrusche voci (n.178) e cribra e affina
la gran Maestra, e del parlar Regina (n.179);
ed il Segni Segretario (n.180)
scriva gli atti al Calendario,
e spediscano courier (n.181)
à Monsieur l'Abbé Regnier (n.182).      
 
 
 
 
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Bacco in Toscana
vv. 358-732                      vv. 733-980

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