Francesco Redi
Bacco in Toscana
vv. 732-980
Chi l'acqua beve mai non riceve grazie da me: sia pur l'acqua o bianca, o fresca, o ne' tonfani sia bruna: nel suo amor me non invesca questa sciocca ed importuna, questa sciocca, che sovente fatta altiera e capricciosa, riottosa (n.299) ed insolente con furor perfido e ladro (n.300) terra e ciel mette a soqquadro: ella rompe i ponti e gli argini, e con sue nembose aspergini (n.301) su i fioriti e verdi margini porta oltraggio ai fior più vergini (n.302); e l'ondose scaturigini (n.303) alle moli stabilissime, che sarian perpetuissime, di rovina sono origini. Lodi pur l'acque del Nilo il Soldan de' Mammalucchi (n.304), né l'Ispano mai si stucchi (n.305) d'innalzar quelle del Tago; ch'io per me non ne son vago (n.306): e se a sorte alcun de' miei fosse mai cotanto ardito, che bevessene un sol dito, di mia man lo strozzerei: vadan pur, vadano a svellere la cicoria e raperonzoli (n.307) certi magri mediconzoli (n.308), che coll'acqua ogni mal pensan di espellere: io di lor non mi fido, né con essi mi affanno, anzi di lor mi rido, che con tanta lor acqua io so ch'egli hanno un cervel così duro e così tondo (n.309), che quadrar nol potria né meno in pratica del Viviani (n.310) il gran saper profondo con tutta quanta la sua Matematica. Di mia masnada lungi sen vada (n.311) ogni bigoncia che d'acqua acconcia (n.312) colma si sta: l'acqua cedrata, di limoncello (n.313) sia sbandeggiata dal nostro ostello (n.314): de' gelsomini non faccio bevande, ma tesso ghirlande su questi miei crini: dell'aloscia e del candiero non ne bramo, e non ne chero (n.315): i sorbetti ancorché ambrati, e mille altre acque odorose son bevande da svogliati, e da femmine leziose; vino vino a ciascun bever bisogna, se fuggir vuole ogni danno, e non par mica vergogna tra i bicchier impazzir sei volte l'anno (n.316), io per me son nel caso, e sol per gentilezza avallo questo, e poi quest'altro vaso (n.317), e sì facendo del nevoso cielo non temo il gielo, né mai nel più gran ghiado (n.318) m'imbacucco nel zamberlucco, come ognor vi s'imbacucca dalla linda sua parrucca per infino a tutti i piedi il segaligno (n.319) e freddoloso Redi. Quali strani capogiri (n.320) d'improvviso mi fan guerra? Parmi proprio, che la terra sotto i piè mi si raggiri; Ma se la terra comincia a tremare, e traballando minaccia disastri lascio la terra, mi salvo nel mare (n.321). Vara vara quella gondola (n.322) più capace, e ben fornita, ch'è la nostra favorita. Su questa nave, che tempre ha di cristallo (n.323), e pur non pave del mar cruccioso il ballo, io gir (n.324) men voglio per mio gentil diporto, conforme io soglio di Brindisi nel porto, purché sia carca (n.325) di brindisevol merce questa mia barca. Su voghiamo, navighiamo, navighiamo infino a Brindisi: Arianna, Brindis, Brindisi (n.326). Oh bell'andare per barca in mare (n.327) verso la sera di Primavera! Venticelli e fresche aurette (n.328) dispiegando ali d'argento sull'azzurro pavimento tesson danze amorosette, e al mormorio de' tremuli cristalli (n.329) sfidano ognora i naviganti ai balli. Su voghiamo, navighiamo, navighiamo infino a Brindisi: Arianna, Brindis, Brindisi. Passavoga (n.330), arranca, arranca, che la ciurma non si stanca, anzi lieta si rinfranca quando arranca inverso Brindisi: Arianna, Brindis, Brindisi. E se a te Brindisi io fo, Perché a me faccia il buon pro (n.331), Ariannuccia, vaguccia, belluccia (n.332), Cantami un poco, e ricantami tu sulla Mandola la cuccurucù (n.333) la cuccurucù la cuccurucù sulla Mandola la cuccurucù. Passa vo passa vo passavoga, arranca, arranca; che la ciurma non si stanca; anzi lieta si rinfranca, quando arranca quando arranca inverso Brindisi: Arianna, Brindis, Brindisi. E se a te, e se a te Brindisi io fo, perché a me perché a me perché a me faccia il buon pro il buon pro, Ariannuccia leggiadribelluccia, cantami un po' cantami un po', cantami un poco, e ricantami tu sulla Viò sulla Viola (n.334) la cuccurucù la cuccurucù sulla Viola la cuccurucù. Or qual nera con fremiti orribili scatenossi tempesta fierissima (n.335), che de' tuoni fra gli orridi sibili sbuffa nembi (n.336) di grandine asprissima? Su nocchiero ardito e fiero, su nocchiero adopra ogn'arte per fuggire il reo periglio (n.337): ma già vinto ogni consiglio (n.338) veggio rotti e remi e sarte, e s'infurian tuttavia venti e mare in traversia (n.339). Gitta spere (n.340) omai per poppa, e rintoppa, o marangone, l'orcipoggia e l'artimone, che la nave se ne va colà dove è il finimondo, e forse anco un po' più in là. Io non so quel ch'io mi dica, e nell'acque io non son pratico (n.341); parmi ben, che il ciel predica un evento più rematico : scendon Sioni dall'aerea chiostra (n.342) per rinforzare coll'onde un nuovo assalto, e per la lizza del ceruleo smalto i cavalli del mare urtansi in giostra(n.343): ecco, oimé, ch'io mi mareggio e m'avveggio, che noi siam tutti perduti (n.344): ecco, oimè, ch'io faccio getto con grandissimo rammarico delle merci prezïose, delle merci mie vinose; ma mi sento un po' più scarico (n.345). Allegrezza allegrezza: io già rimiro, per apportar salute al legno infermo (n.346), sull'antenna da prua muoversi in giro l'oricrinite stelle di Santermo (n.347): ah! nò, nò, non sono Stelle: son due belle fiasche gravide di buon vini (n.348): i buon vini son quegli, che acquetano le procelle sì fosche e rubelle, che nel lago del cor (n.349) l'anime inquietano. Satirelli ricciutelli (n.350), satirelli, or chi di voi porgerà più pronto a noi qualche nuovo smisurato sterminato calicione (n.351) sarà sempre il mio mignone, né m'importa se un tal calice sia d'avorio, o sia di salice, o sia d'oro arciricchissimo, purché sia molto grandissimo. Chi s'arrisica (n.352) di bere ad un piccolo bicchiere fa la zuppa nel paniere: questa altiera, questa mia Dionea bottiglieria non raccetta (n.353), non alloggia bicchieretti fatti a foggia: quei bicchieri arrovesciati, e quei gozzi strangolati (n.354) sono arnesi da ammalati: quelle tazze spase (n.355) e piane son da genti poco sane: caraffini, buffoncini, zampilletti e borbottini son trastulli da bambini: son minuzie, che raccattole per fregiarne in gran dovizia le moderne scarabattole (n.356) delle donne Fiorentine; voglio dir non delle Dame, ma bensì delle pedine (n.357). In quel vetro, che chiamasi il tonfano (n.358) scherzan le Grazie, e vi trionfano; ognun colmilo, ognun votilo, ma di che si colmerà? Bella Arianna con bianca mano versa la manna (n.359) di Montepulciano; colmane il tonfano, e porgilo a me. Questo liquore, che sdrucciola al core o come l'ugola e baciami, e mordemi (n.360)! O come in lacrime gli occhi disciogliemi! Me ne strasecolo, me ne strabilio, e fatto estatico vo in visibilio (n.361). Onde ognun, che di Lieo (n.362) riverente il nome adora, ascolti questo altissimo decreto, che Bassareo (n.363) pronunzia, e gli dia fe, Montepulciano d'ogni vino è il re (n.364). A così lieti accenti (n.365) d'edere e di corimbi (n.366) il crine adorne alternavano i canti, le festose Baccanti (n.367); ma i Satiri, che avean bevuto a isonne (n.368), si sdraiaron sull'erbetta (n.369) tutti cotti come monne (n.370). |
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