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Pessimismo mondano e ottimismo provvidenziale nei "Promessi sposi" |
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Francesco
De Sanctis: "Il senso del reale e della vita" nei "Promessi
sposi Il Seicento "protagonista vero e immanente" del romanzo "Promessi sposi": dalla "morale cattolica" al romanzo "Fermo e Lucia" e "Promessi sposi" due libri diversi La novità dei "Promessi sposi" La struttura ideologica dei "Promessi sposi" Pessimismo mondano e ottimismo provvidenziale nei "Promessi sposi" Alessandro Manzoni e il romanticismo "Promessi sposi" il romanzo dei rapporti di forza Fu Manzoni un cattolico liberale? La tecnica manzoniana del dialogo Il paesaggio nei "Promessi sposi" Don Abbondio, "un vinto perpetuo" La "malvagità animale" del conte Attilio Azzeccagarbugli e il peccato della parola Il cardinale, un' "immagine essenziale" del romanzo Due "personaggi d'autorità": il conte zio e il padre provinciale Fra Cristoforo "uomo fra gli uomini" Don Ferrante, "l'erudito" del Seicento Donna Prassede, "caricatura della pratica cristiana" La "psicologa proibita" della monaca di Monza La conversione in atto dell'innominato La "verità spirituale" di Perpetua Don Rodrigo, "malvagio" o "ragazzaccio" ? Il valore patriottico e civile, il valore nazionale Il pessimismo e la fiducia nel romanzo Caratteri dell'arte manzoniana Reale
e ideale Il popolo, gli umili, la storia La misura dell'ideale: il cardinale e don Abbondio Valori e aspetti dell'arte manzoniana nel romanzo
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Poeta e narratore, Eurialo De Michelis (1904-1990) come critico si è esercitato sulla letteratura italiana e straniera dell’Otto e Novecento (dalla Deledda al Verga, da Dostoevskij a D’Annunzio), ma le sue attenzioni si sono rivolte soprattutto a Manzoni con Studi sul Manzoni del 1962 cui hanno fatto seguito un ottimo commento al romanzo (1964) e la raccolta La vergine e il drago (1968), donde sono tratte le pagine che seguono, volte a mettere in evidenza le implicazioni drammatiche dei Promessi sposi contro le interpretazioni "provvidenzialistiche" e a scoprire, sul comune terreno del Pessimismo mondano’), significative analogie fra l’atteggiamento di Manzoni e quello di Leopardi.
Pessimismo mondano e ottimismo provvidenziale nei "Promessi sposi"
Amaro pessimismo rispetto alle cose del mondo, questo in sostanza l’atteggiamento da cui muove di romanzo, e [.. . ] mai ne deflette; per questa parte, proprio nell’Adelchi, dove morendo sconfitto altra consolazione il protagonista non sapeva porgere al padre e a se stesso:
E se qualcosa di men negativo poteva rivolgere il coro con disperata dolcezza a quell’altra sconfitta, Ermengarda, immortalmente travagliata dalle speranze terrene, era a prezzo di strappargliele:
cioè incorandola alla medesima abdicazione dalle cose di giù, a cui era arrivato il Carmagnola nella tragedia precedente: quando sul punto di muovere innocente al patibolo si vietava di tornare ancora ad "affacciarsi alla vita", come cosa che il pensiero della morte, nonché un suo gelido tocco, subito cancella. "Dov’è silenzio e tenebre / la gloria che passò"; ma non soltanto la gloria, tutto quanto qua giù è "silenzio e tenebre", il negativo, il nulla assoluto, al confronto delle ragioni che costituiscono l’ultimo approdo di Napoleone, come del Carmagnola, e di Ermengarda, di Adelchi. Nessun modo dl fare unità del due mondi che reciprocamente si elidono, il mondo della Storia il mondo di Dio, impensabile un intervento provvidenziale che sani il contrasto fuorché abolendo con uno dei due termini la necessità d’intervenire: trasportare nel mondo di là tutti i valori, e in loro nome far leva contro il mondo di qua [...].Ripetiamo, bene sta accentrare il poeticamente vitale dei Promessi sposi dalla parte del pessimismo di Adelchi; ma con juicio, sennò sorgono dubbi. Per esempio: come nacque la vulgata interpretazione del romanzo stucchevolmente ottimista? Oppure: com’è che leggendo non si avverte la contrapposizione che dovrebbe risultare, fra la zona del romanzo dove si afferma la pessimistica considerazione del Vero storico dall’angolo visuale di Dio, e le zone dove invece si afferma l’ottimismo intenzionale l’idealismo del cuore? Nella diversità anzi contrasto degli atteggiamenti lì e costi riscontrabili, quale dunque il principio motore che permette la loro trascolorante unità? Unità del tono bensì, ma da nient’altro può derivare, fuorché da un atteggiamento interiore che contenga gli atteggiamenti fra loro nemici, e ne componga il dissidio.Pressappoco negli anni del Carmagnola e dell’Adelchi, un altro dei nostri grandissimi per cui la poesia fu un modo di cercare la Verità, il Leopardi, ribellandosi in nome del nulla alla Natura che gli teneva il posto di Dio, era arrivato anche lui a rifiutare la Storia; testualmente nella Sera del dì di festa (1820):Tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona...cancellato il fragorio "di que’ popoli antichi", tranne nell’eco che si lascia dietro prima di spegnersi, e che soltanto perciò viene dolorosamente seguita, perché eco e si spegne. Oppure, coincidenza ancora più puntuale, rileggete del Leopardi il primo dei Pensieri accolti postumi nell’edizione fiorentina delle Opere, 1845: "Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene,>, ecc. Pari pari la sentenza messa in bocca a Renzo nel cap. XIV dei Promessi sposi, circa il buon volere del re e di "quelli che comandano" affinché "i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla, perché c’è una lega"; sentenza sorridevole come l’esprime il personaggio, non tanto però, che non contenga in succo tutta l’esperienza del mondo sociale patita dal giovine inesausto a credere, a voler la giustizia. Succo amaro anzitutto al Manzoni, talché non è arbitrio rileggervi in filigrana il disperato pessimismo di Adelchi morente:
consentaneo a sua volta con altri luoghi del Leopardi, per esempio quei versi della Palinodia (1835):
Oppure, dello stesso Leopardi nello stesso Pensiero, vedete la differenza segnata fra ciò che vi è d’inerme, di senza presa sui terzi, anche nel coraggio dell’uomo da bene, in confronto a un birbante anche pauroso: "perché le vie dell’uomo coraggioso e da bene sono conosciute e semplici, quelle del ribaldo sono occulte e infinitamente varie’>. Che richiama la malfidata sospensione di don Abbondio, nel cap. XXIV dei Promessi sposi, fra le benefiche disposizioni del cardinale arcivesco in pro di Lucia, e la rabbia vendicativa che ne conseguirà in don Rodrigo deluso: "Quelli che fanno il bene, lo fanno all’ingrosso (...); ma coloro che hanno quel gusto di fare il male, ci mettono più diligenza, ci stanno dietro fino alla fine, non prendon mai requie", ecc.Luoghi topici del romanzo, espliciti nella direzione indicata, tanto fermo si appunta lo sguardo del Manzoni a cogliere ciò che di negativo s’impasta nell’uomo a farlo uomo. "Che carattere singolare, eh?, tale il commento agrodolce sull’oste del cap. VII, amico a parole dei galantuomini, dei birboni in atto pratico; e nel cap. XXIV, in tali termini la bonaria Agnese scusa il comportamento di don Abbondio dopo essersene sfogata col cardinale: "non lo gridi, perché già quel che è stato è stato; e poi non serve a nulla: è un uomo fatto così: tornando il caso, farebbe lo stesso". Cioè, senza accorgersi di affermarlo chiuso irrimediabilmente alla voce di Dio, cioè senza forza per raggiungerlo la voce di Dio. Più sottilmente disperato e disperante sulla natura dell’uomo ricordate nel cap. X il "così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano", a proposito della "tenerezza in gran parte sincera" che prova il principe verso la figlia Gertrude nell’atto stesso che trionfa di averla moralmente costretta a collaborare con lui per sacrificarla; e nel cap. XXV, a proposito dei paesani che si offrono a proteggere Lucia e Agnese, adesso che le assiste la presenza del cardinale, quel proverbio perfino acre a forza di amaro, in aspetto di arguzia: "volete aver molti in aiuto? cercate di non averne bisogno,>. Ovvero lì stesso, a proposito dell’indignazione di coloro contro don Rodrigo, intera solo quando il tiranno è sconfitto: "... perché gli uomini, generalmente parlando, quando l’indegnazione non si possa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran meno, o tengono affatto in se quella che sentono, ma ne senton meno in effetto". Una sentenza, che spinge ben addentro il pessimismo mondano del Manzoni più in là di dove i don Abbondio dànno ragione alla forza sapendo che "non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza" (cap. Il); lo spinge dove, a loro insaputa, chinando il capo a subirla, l’accettano almeno in parte come ragione. E quanto ai tradimenti perpetrati contro il Vangelo: "una sapienza così antica, e sempre nuova", commenterà l’autore nel cap. V alla sentenza dell’Azzecca-garbugli, che altro vale predicato sul pulpito, altro si applica nelle dispute cavalleresche; cioè mettendo in rilievo, in quel caso non più di oggi, una blasfema condotta che è di allora e di sempre. Infine, dal recinto della coscienza a tu per tu con se stessa, uscendo di nuovo alla vita di relazione con gli altri, potrebbe bastare il commento, endemico 2 in tutto il romanzo, esplicito nel cap. VIII a proposito di don Abbondio oppressore in veste di vittima, e Renzo vittima m veste di oppressore: "Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo". Più stringente dove il romanzo si costruisce come storia di signori e di poveri, il "Mala cosa nascer povero>, di Perpetua a Renzo nel cap. 11; che anch’esso affiora molte volte più o meno variato nel corso del romanzo. In bocca all’oste del cap. XV, arrovellato contro Renzo, in realtà contro se stesso che soggiace a collaborare coi birri per perderlo: "Lo so anch’io che ci son delle gride che non contan nulla (...). Ma tu non sai che le gride contro gli osti contano"; l’impaurito don Abbondio nel cap. XXIV: "I colpi cascano sempre all’ingiù; i cenci vanno all’aria"; Agnese nello stesso capitolo: "I poveri, ci vuoi poco a farli comparir birboni", a cui il cardinale consente: "È vero pur troppo ".Nella situazione narrativa propria del romanzo, sono tutti sviluppi deducibili dal pessimismo che suggerì al Leopardi il Pensiero citato di sopra. Non basta ancora; più in là della zona dove l’uomo si arrabatta con la sua coscienza e col prossimo, ricordate la frase di Tonio appestato, nel cap. XXXIII: "A chi la tocca, la tocca", ermetica di cupa sfiducia in nessuna Provvidenza regolatrice delle cose del mondo, che non sia quella che nel Bruto minore (1821) fu detta "la ferrata / necessità", e il "cieco / dispensator de’ casi" nell’Ultimo canto di Saffo (1822):
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