Giuseppe
Bonghi
Biografia
di
Pietro
Verri
Pietro
Verri, discendente da una delle più
nobili e importanti famiglie milanesi,
dotato di grande intelligenza e di una
rara capacità di rinnovarsi per la sua
geniale sete di conoscere e di sapere,
nacque a Milano il 12 dicembre 1728 da
Gabriele, magistrato di notevole
carisma, presidente del Senato milanese
negli ultimi anni della sua vita, e da
Barbara Dati di condizione
aristocratica; compie i suoi primi studi
nei Collegi dei Gesuiti di Monza e Brera
e li proseguirà prima nella scuola
pubblica di sant'Alessandro, retta dai
Padri Barnabiti, nel Collegio nazareno
di Roma (che più tardi paragona con
orrore all'esperienza avuta nei sordidi
accampamenti imperiali durante la guerra
dei Sette Anni), e infine a Parma nel
Collegio dei Nobili, retto dai Gesuiti;
nel 1741 nascerà il fratello
Alessandro, col quale dividerà
interessi culturali vari e vasti e che
lascerà una traccia profonda
nell'ambito dell'Illuminismo milanese.
Tornato
in famiglia nel 1748, fin dall'anno
seguente cominciano i suoi contrasti con
la famiglia, soprattutto col padre, un
alto funzionario governativo (era
vicario di provvisione nella capitale
lombarda), a causa della sua relazione
con Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni,
moglie del duca Gabrio Serbelloni,
mentre intraprende la carriera di
magistrato, ottenendo l'incarico di
"protettore dei carcerati" e
partecipa contemporaneamente
all'accademia dei "Trasformati"
col titolo di «Abitatore Disabitato».
L'anno successivo pubblica la di poesie
satiriche dal titolo La Borlanda
impasticciata, servendosi d'un
linguaggio derivante dall'uso
maccheronico e storpiato di varie
lingue.
Del
1753 il padre, che era stato nominato
reggente del Supremo Consiglio d'Italia,
si reca a Vienna e si fa accompagnare
dal figlio nella speranza che la
momentanea lontananza potesse
contribuire a troncare il legame con la
duchessa Serbelloni; ma al ritorno il
suo distacco dalla famiglia si accentua
perché prosegue la relazione amorosa
che diventa più intima, anche se per
poco tempo ancora. Con la Serbelloni si
interessa di attività teatrali e
traduce le opere di Philippe Nericault
Destouches, scrivendo anche una
particolare introduzione sulla scena
comica; nello stesso periodo prende
posizione a favore della riforma
goldoniana
Abbandonato
dalla Serbelloni nel 1754 attraverso un
periodo di crisi, durante il quale non
trascura comunque gli studi. Nel 1757
pubblica un almanacco dal titolo Il
gran Zoroastro, ossia predizioni
astrologiche per il 1758, tratte da un
manoscritto di pietra e dall'egiziano in
volgare favella per la pubblica utilità
tradotte, scritto secondo l'uso del
tempo, in tutti i linguaggi possibili,
dal greco al dialetto milanese, in cui
mette alla berlina i vizi della società
aristocratica milanese con i suoi
scandali e le sue superstizioni, con un
tono ferocemente avverso al clero, ai
nobili e ai pregiudizi popolari. Ripete
la pubblicazione l'anno seguente,
un'edizione per il 1759, in cui attenua
certi toni violenti e sarcastici; ne
pubblicherà un terzo nel 1762
intervenendo a favore di Cesare Beccaria
nella polemica contro il marchese
Carpani. Un ultimo Gran Zoroastro per
l'anno bisestile 1764, verrà
pubblicato l'anno seguente.
Tra
il 1759 e il 1760 viaggia tra Vienna
(dove partecipa a una guerra contro la
Prussia, nel reggimento Clerici, dopo
aver ottenuto il brevetto di Capitano),
Dresda, ancora Vienna per ritornare
infine a Milano, dove pubblica un
trattato Sul tributo del sale nello
stato di Milano ed uno Sulla
grandezza e decadenza del commercio di
Milano, allo scopo di attirare su di
sè l'attenzione delle autorità regie
mostrando le sue attitudini a ricoprire
un incarico nella pubblica
amministrazione. Sulla questione
monetaria ed economica tornerà nel 1762
pubblicando a Lucca il Dialogo tra
Fronimo e Simplicio sul disordine delle
monete nello Stato di Milano.
Insieme
al fratello Alessandro fonda nel 1761 l'Accademia
dei Pugni, che in qualche modo
continua l'esperienza degli almanacchi
già pubblicati, soprattutto il primo:
è un ritrovo "piuttosto insolito
anche in quell'età fiorentissima di
accademie e di circoli, dominato com'era
da intenzioni mondane e culturali,
oziose e insieme coraggiosamente
progressive", ed era stata chiamata
così proprio per rendere meglio l'idea
dello spirito aggressivo e spregiudicato
che animava i suoi iscritti sia nelle
discussioni private che nei dibattiti
pubblici.
Sempre
nel 1761, in un momento di generale
crisi dei periodici eruditi, fonda,
insieme al fratello Alessandro (A),
all'abate Alfonso Longhi (L), a Cesare
Beccaria (B), al matematico e fisico
Paolo Frisi (X), a Luigi Lambertenghi
(NN), Giuseppe Visconti di Saliceto (G),
(collaboratori furono anche Giuseppe
Colpani (GC), Pietro Secchi(S) e
Sebastiano Franci (F) - tra parentesi
abbiamo messo le lettere iniziali con
cui hanno segnato i loro articoli), la
rivista "Il Caffè", che
comincia le sue pubblicazioni nel giugno
1764 uscendo con una cadenza di dieci
giorni e durerà fino al maggio 1766:
due anni ricchi di animazione culturale
e di contributi originali di idee.
La
rivista viene così chiamata perché si
finge di trascrivere le conversazioni,
le discussioni e i racconti che venivano
narrati in una bottega da caffè, di
proprietà di una certo Demetrio, un
greco saggio e di intelligenza pronta
che si era trasferito a Milano.
Nell'editoriale così scrive il Verri a
nome di Demetrio: "in essa bottega
chi vuol leggere trova sempre i fogli di
novelle politiche... in essa bottega chi
vuol leggere trova per suo uso il Giornale
Enciclopedico e l'Estratto della
Letteratura Europea e simili buone
raccolte di novelle interessanti, le
quali fanno che gli uomini che in prima
erano romani, fiorentini, genovesi o
lombardi, ora sieno tutti presso a poco
europei; in essa bottega v'è di più un
buon atlante, che decide le questioni
che nascono nelle nuove politiche; in
essa bottega per fine si radunano alcuni
uomini, altri ragionevoli, altri
irragionevoli, si discorre, si parla, si
scherza, si sta sul serio; ed io, che
per naturale inclinazione parlo poco, mi
son compiaciuto di registrare tutte le
scene interessanti che vi vedo accadere,
e tutt'i discorsi che vi ascolto degni
da registrarsi; e siccome mi trovo
d'averne già messi in ordine vari,
così li do alle stampe col titolo
"Il Caffè", poiché appunto
son nati in una bottega da caffè".
I maggiori collaboratori saranno proprio
Pietro Verri (con 37 articoli) e il
fratello Alessandro, ma il più celebre
è senz'altro Cesare Beccaria, che vi
pubblicherà "Dei delitti e
delle pene", un trattato che
gli darà risonanza europea e verrà
letto nei più famosi salotti di Parigi,
di Mosca e di altre città europee.
Sul
piano di una ricerca in qualche modo
filosofica ed esistenziale pubblica
anonimo a Livorno un libretto,
intitolato Discorso sulla felicità
o Meditazioni sulla felicità,
definito da qualcuno come il manifesto
dell'illuminismo lombardo, in cui,
talvolta in consonanza col pensiero
illuministico francese (e di Rousseau in
particolare), sviluppa il tema del
contratto sociale mediante il quale
l'individuo rinuncia a parte della sua
libertà per delegare allo Stato la
sicurezza della collettività,
delineando un'etica laica e
spregiudicata, nella quale troviamo
prima di tutto l'accettazione dei propri
privilegi insieme all'espressione della
volontà e quasi all'obbligo di usarli
per il bene comune; poi l'analisi dei
piaceri e dei dolori su una visione non
religiosa, ma materialistica,
dell'esistenza, insieme all'analisi
dell'«ambizione», considerata come la più
funesta ma anche la più benemerita
fra le passioni. L'opera si conclude con
un breve saggio sulla storia umana,
interpretata come progresso spezzato
continuamente da catastrofi e periodi di
decadimento, per cui il processo di
civilizzazione è da intendersi come un
percorso non indolore anche se le
esperienze accumulate devono essere
interpretate come un arricchimento
dell'umanità.
Incaricato
di redigere un progetto di riforma
amministrativa per Milano riguardo
all'appalto dei tributi, nel 1764
comincia la sua collaborazione colle
autorità austriache. La passione con
cui si dedica alla riforma del sistema
tributario scatena le ire dei "fermieri",
cioè dei privati ai quali era data in
appalto la riscossione delle imposte,
che notoriamente taglieggiavano la
popolazione. Il piano di riforma,
criticato aspramente sulla Frusta
Letteraria dal Baretti, incontra il
favore dell'Imperatrice Maria Teresa
d'Austria, nonostante le idee
illuministiche spesso estremistiche
dell'autore.
Pietro
Verri è un esempio convincente di
questa figura di intellettuale calato
nella vita civile; nel 1768 scrive le Memorie
storiche sull'economia politica dello
Stato di Milano (destinate ad essere
pubblicate postume nel 1804) e l'anno
successivo scrive le Riflessioni
sulle leggi vincolanti il commercio dei
grani, allineato sulle posizioni
delle teorie fisiocratiche che
avversavano la limitazione imposta dai
dazi doganali in materia di derrate
alimentari, che verrà pubblicato solo
nel 1797, l'anno della sua morte.
Per
il Verri il 1770 è un anno
particolarmente importante; sul piano
personale ottiene un particolare
successo quando viene chiamato a far
parte nel della Giunta per la riforma
fiscale, nella quale si batte per
l'abolizione degli appalti privati nella
riscossione delle imposte, eliminando i
privilegi dei "fermieri": il
governo asburgico stabilisce il
passaggio delle imposte indirette alla
gestione pubblica e nel contempo
allontana dalla Commissione delle
Riforme il Verri che rimane deluso e
irritato, anche se la sua
"carriera" come funzionario
non viene interrotta; nel 1772 viene
nominato vicepresidente del supremo
consiglio per l'economia e
successivamente nel 1780 presidente del Consiglio
Camerale (sforzandosi di
riorganizzare meglio l'apparato
fiscale), succedendo al conte Gian
Rinaldo Carli, che pur lo aveva
avversato aspramente qualche anno prima,
ma col quale si era successivamente
riconciliato, e infine nel 1783
"Consigliere Intimo Attuale di
Stato" e sempre nello stesso anno
gli viene concessa l'alta onorificenza
di "Cavaliere di Santo
Stefano". Soppresso nel 1786 il
Consiglio Camerale, ritornerà a vita
privata, dopo essersi reso conto che le
maniere riservategli dall'Imperatore
divenivano sempre più fredde, anche a
causa dell'invidia dei suoi nemici a
corte e dei suoi detrattori, che avevano
insinuato nell'animo di Giuseppe II
"il sospetto che il di lui zelo
fosse interessato, e che egli col favor
popolare cercasse quasi una
indipendenza: Si fece nascere una
gelosia di lumi e di ingegno, quasi che
egli volesse soverchiare e tutto
sconvolgere a suo talento. La diffidenza
fece moltiplicare gli ostacoli alla sua
carriera, per modo che trovavasi non di
rado costretto a disperdere la sua
attività in una continua difesa
personale... Ecco perché annojato, alla
fine chiese egli stesso di essere
liberato dal peso di amministrare, e
questo era quello che si bramava che
egli facesse".
Sempre
nel 1770 redige la prima stesura delle Osservazioni
sulla tortura, l'opera per cui viene
più spesso ricordato, a partire da
Alessandro Manzoni per la stesura della Storia
della colonna infame. Fin dal 1764
aveva abbozzato alcune idee su questo
orribile abuso. Ne esiste infatti un
cenno nel celebre almanacco pubblicato
in quell'anno nel punto in cui parla del
mal di milza. L'opera viene
rielaborata nel 1777, e per rendere più
efficace la forza del suo ragionamento
porta come esempio di delitto
impossibile e confessato attraverso
l'uso eccessivo della tortura,
l'episodio delle unzioni venefiche cui
si attribuì la peste che desolò Milano
nel 1630.
L'opera
verrà pubblicata solo postuma, nelle
serie di volumi dedicati agli
"Economisti classici, parte
moderna, vol. XVIII", anche perché
suo padre era Presidente di quel
collegio che centoquarantasette anni
prima aveva dato un così atroce esempio
di ignoranza e di crudeltà nel legale
assassinio di tanti innocenti e si
credette che la stima nei riguardi del
Senato potesse restar macchiata per la
diffusione dell'antica infamia; per
rispetto del padre, si pensa che il
Verri non diede alle stampe il libro.
Intanto
si diffondono in Europa nuove idee che
egli enuclea nelle Meditazioni
sull'economia politica (1771) che
esaltano la libera iniziativa e
prospettano l'ideale di un sistema
statale in cui avrebbe dovuto essere
garantita la felicità al maggior numero
possibile di cittadini, i migliori dei
quali avrebbero dovuto essere chiamati a
ricoprire i più elevati uffici
pubblici: siamo, come si può notare,
più all'interno dell'utopia
illuministica che dell'analisi razionale
della realtà quotidiana ed economica
oltre che politico-amministrativa.
Nel
1776 sposa la nipote Marietta
Castiglioni, di molti anni più giovane,
dalla quale avrà l'anno dopo la figlia
Teresa; in occasione della nascita della
bambina scrive i Ricordi alla figlia,
confidenze privatissime, non destinate
alla pubblicazione. Successivamente
avrà un secondo bambino, di nome
Alessandro, come il fratello, che
morirà prestissimo, seguito presto
anche dalla madre. Il 13 luglio 1782 si
risposa, prendendo in moglie Vincenzina
Melzi, che amò sempre teneramente,
dalla quale ebbe "numerosa
prole" che allietò gli ultimi anni
della sua vita.
Nel
1781 pubblica i Discorsi sull'indole
del piacere e del dolore, che erano
già usciti separatamente (il primo nel
1773), in cui stabilisce la teoria che
il piacere consiste nella cessazione del
dolore. Nel 1783 dà alle stampe la Storia
di Milano, dopo una diligente
ricerca delle antiche memorie milanesi,
soprattutto sul piano economico,