IL SETTECENTO
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1.
Nasce ad Asti nel 1749 da una
delle più nobili e ricche famiglie
piemontesi. Perduto a un anno il padre,
fu affidato alla tutela di uno zio, il
quale si servì di un
precettore-sacerdote per educarlo (nella
satira L'educazione forse ne è
ritratta l'immagine). Nel '58 fu posto
in collegio (accademia militare di
Torino) e vi rimase fino al '66. Qui
veniva educata la gioventù nobile nelle
scienze e negli esercizi cavallereschi,
e in 9 anni si prendeva la laurea in
legge. Ma i sistemi pedagogici erano
senz'altro molto antiquati. Durante
questi anni l'Alfieri, che conosceva
perfettamente il francese (lingua della
nobiltà piemontese), legge molti
romanzi francesi e la Storia
ecclesiastica del Fleury che
contribuì notevolmente al suo
scetticismo in materia di religione.
2.
Morto lo zio tutore, l'Alfieri a 15 anni
eredita il patrimonio di questi e del
padre, divenendo ricchissimo. Appena
poté uscire dall'accademia (ove aveva
ottenuto la carica di porta-insegne nel
reggimento provinciale d'Asti), si diede
ai viaggi e alle dissolutezze (1766-72).
In quegli anni percorse letteralmente
tutta Europa, leggendo Montaigne,
Montesquieu, Rousseau, Helvetius ecc.,
cioè quanto di meglio esprimeva la
Francia di quel tempo. Il suo
cosmopolitismo tuttavia non lasciò
tracce profonde nella sua coscienza, se
si esclude un particolare apprezzamento
per la società inglese, di cui ammirava
l'equilibrato governo costituzionale. I
viaggi comunque gli servirono per
maturare un atteggiamento critico verso
il dispotismo illuminato (riformismo
dall'alto) di Austria, Prussia e Russia
(fu soprattutto il viaggio nella Prussia
di Federico II e la visita a Zorendorff,
campo di battaglia tra russi e
prussiani, nel 1758, che lo portò a
rifiutare con decisione ogni forma di
militarismo e di bellicismo).
3.
Tornato in patria, continua
ancora per qualche anno questa vita,
s'iscrive alla massoneria, legge con
molto entusiasmo Plutarco, e nel corso
di un'ultima avventura galante abbozza
una tragedia, Cleopatra, e scrive
una farsa autocritica, I poeti,
che, rappresentate entrambe nel '75,
riscuotono un certo successo. A partire
da questo momento inizia la sua
rigenerazione spirituale e culturale.
Consapevole delle sue possibilità e del
suo talento letterario, con decisa e
ferma volontà, l'Alfieri si propone il
compito di dare all'Italia ciò che
ancora le mancava: la tragedia.
4.
5.
Dopo di che intraprende l'ultimo suo
vagabondare per l'Europa (1783-92). A
Parigi assiste con entusiasmo alla
Rivoluzione francese e la esalta con
l'ode Parigi sbastigliata. Ma
resterà presto deluso dalle conseguenze
radicali che presero gli avvenimenti,
per cui se ne tornerà a Firenze. Nel
'90 aveva cominciato la stesura
autobiografica della Vita,
accompagnata da un'ampia produzione
lirica, le Rime. A Firenze
(1792-1803) si chiude sempre più in un
odio feroce contro i francesi, specie
durante le due occupazioni napoleoniche
del 1799 e 1800. Dall'89 al '97 compone
17 Satire, dal 1800 al 1802 le Commedie
e infine il Misogallo, un
violento libello contro la Francia.
Muore in solitudine nel 1803. IDEOLOGIA
E POETICA
6.
Il Settecento fu prodigo di tragedie.
L'interesse per il genere era nato
dall'influenza del teatro francese (Racine,
Corneille), che era così forte da
condizionare non solo la scelta degli
argomenti (i sentimenti, l'amore ecc.)
ma persino il metro con cui trattarli. I
commediografi italiani si erano
orientati, cercando di emulare i
francesi, verso argomenti greco-latini,
ebraici, orientali (come avveniva del
resto per il melodramma). L'Alfieri non
fece che porsi in questa corrente
apportandovi un originale contributo
(non però su quello formale, poiché
qui si attenne al rispetto delle unità
aristoteliche di luogo e tempo).
7.
Dotato di un fortissimo senso della
libertà e insofferente a ogni
tirannide, sia pubblica che privata,
egli infatti concepì il teatro come
mezzo di educazione civile e politica e
l'artista come "sacerdote
dell'umanità". Convinto che la
storia sia maestra di vita, portò sulla
scena i grandi personaggi, quelli
secondo lui più adatti a suscitare
l'amore per la libertà e l'odio contro
la tirannide: Saul, Mirra, Antigone,
Agamennone, Oreste, Sofonisba, Filippo,
Rosmunda, Maria Stuarda, ecc. Tutti
personaggi che mostrano d'avere
un'altissima umanità, ma che, in
definitiva, risultano troppo perfetti
per permettere allo spettatore una vera
immedesimazione. Il pubblico applaudiva
perché affascinato dai ritmi
travolgenti delle passioni
rappresentate, ma avvertiva chiaramente
in esse qualcosa di inarrivabile,
perché troppo straordinario.
8.
Il limite dell'Alfieri sta in
quel suo modo vitalistico e
individualistico di affrontare lo
scontro, allora molto forte, tra tiranno
e oppresso. Il protagonista principale
delle sue tragedie è sempre il singolo
eroe che, con coraggio e abnegazione,
cerca di opporsi alla tirannia del
potente (re, principe o imperatore). Il
suo ideale è la personalità di Bruto e
il suo mondo preferito è quello degli
eroi e tirannicidi descritto da
Plutarco. In questo senso, il suo
riferimento alla classicità non sta
tanto nello stile letterario (ché anzi
l'Alfieri è un innovatore), e neppure
nel riconoscimento formale della
superiorità dell'antica tradizione,
quanto piuttosto nell'esigenza di
ricercare modelli umani eroici da
riproporre, in veste moderna, ai suoi
contemporanei (questo a prescindere da
una ricostruzione realistica degli
ambienti in cui quei personaggi sono
vissuti). Politicamente l'ideale
dell'Alfieri, almeno sino alla delusione
per gli esiti terroristici della
Rivoluzione francese, resta quello della
Repubblica romana pre-cesarea e
dell'antica Grecia.
9.
Ciò che più ha condizionato la
concezione "anarcoide e
antipoliticista" dell'Alfieri fu il
fatto ch'egli, pur avendo rinunciato
agli ideali aristocratici, non rinunciò
mai allo stile di vita aristocratico
(per molto tempo condusse una vita
errabonda, frenetica, in parte
dissoluta). In qualunque paese europeo
andasse egli guardava la situazione
politica con gli occhi
dell'intellettuale isolato, e quella
sociale con gli occhi dell'aristocratico
che da parte delle masse popolari non
spera in una decisa posizione
antigovernativa. Quando infatti i suoi
ideali giacobini-rivoluzionari si
trovano realizzati nella Rivoluzione
francese, la sua reazione negativa alla
necessità della dittatura politica
sarà immediata. Alfieri non era contro
una particolare forma di governo, ma
contro tutte, poiché là dove esisteva
un "potere", per lui vi era
anche ingiustizia e oppressione.
10.
Egli non solo nega il facile ottimismo
del secolo dei lumi, cioè l'idea di un
progresso lineare in nome della
razionalità, ma nega anche qualunque
soluzione politica alle contraddizioni
del suo tempo ("Ahi, null'altro che
forza al mondo dura", dice).
11.
Trattato Della
Tirannide. Alfieri afferma che
"base e molla" della tirannia
è la paura (in polemica col Montesquieu
che vi poneva invece l'onore). La
tirannide da lui descritta non coincide
con una forma particolare di governo
(anche se il riferimento alla sua epoca
è evidente), ma con un atteggiamento
individuale di distruzione, che conduce
all'annientamento dell'avversario e, in
ultima istanza, anche di se stessi (come
le tragedie mettono in luce).
12.
La nobiltà (ambiziosa
e amante del lusso), l'esercito (che col
pretesto della difesa da un nemico
esterno viene impiegato per reprimere il
dissenso interno) e la religione (che
educa all'obbedienza e impedisce la
libertà di pensiero) sono, oltre alla
paura, le armi del tiranno. Ma il
tiranno è schiavo della paura non meno
che il suddito, poiché, per restare sul
trono, ha bisogno di esercitarla
quotidianamente, temendo sempre d'essere
rovesciato. (Si veda anche l'Esquisse
du Jugement Universel).
13.
Sugli oppressi il giudizio
dell'Alfieri è pessimista. Chi è
abituato alla sottomissione
difficilmente riesce a liberarsene,
anzi, arriva ad acquisire sentimenti di
servilismo e di fatalismo. C'è solo una
speranza secondo il poeta: che
l'autoritarismo sia così duro e
insopportabile da indurre il popolo a
ribellarsi. Nel frattempo
l'intellettuale (che secondo lui deve
essere più poeta che filosofo) deve
avere il coraggio di criticare il
tiranno mediante le sue opere
letterarie. Ma perché lo possa fare
deve essere libero da problemi
economici, ché altrimenti sarà
costretto a compromettersi (come
l'intellettuale "cortigiano").
Il tirannicidio quindi viene escluso
solo fino a quando non è lo stesso
popolo a insorgere. In casi estremamente
sfavorevoli all'individuo Alfieri
consiglia il suicidio.
14.
19 Tragedie. La scelta del
genere letterario tragico rispecchia
psicologicamente l'esigenza
individualistica del poeta-eroe. Le
tragedie ruotano attorno a un
personaggio principale; gli altri
(sempre pochi) hanno una funzione
accessoria. Il finale in genere è di
due tipi: suicidio o tirannicidio. Gli
argomenti sono presi dalla storia o
dalla Bibbia, con predilezione per i
soggetti greco-romani. L'azione si
svolge in 5 atti. Il verso adoperato:
endecasillabo sciolto, ma è trattato in
maniera molto dura, nervosa, concisa.
Alla base di ogni vicenda sta il fato,
cioè una forza al di sopra dell'uomo,
che lo costringe a reagire. I
protagonisti, pur prigionieri delle loro
passioni, proprio in questa lotta con il
fato rivelano la loro forza, la loro
carica emotiva. È assente ogni
preoccupazione realistica. Non c'è
sfondo teatrale che ambienti i
personaggi, e neppure intreccio o
azione. Il linguaggio non è colloquiale
(come in Goldoni) ma oratorio, solenne.
I dialoghi son quasi dei monologhi (si
è sordi alle parole altrui). In questo
Alfieri si allontana decisamente
dall'Arcadia e dal melodico dramma
metastasiano. 15.
17 Satire. Qui l'Alfieri
condanna: commercio borghese,
clericalismo e anticlericalismo, re,
nobili e militari, il popolo e i
precettori. |