GIACOMO LEOPARDI
Canti
VI.
BRUTO MINORE.
Poi
che divelta, nella tracia polve Giacque ruina immensa Litalica virtute, onde alle valli DEsperia verde, e al tiberino lido, Il calpestio de barbari cavalli Prepara il fato, e dalle selve ignude Cui lOrsa algida preme, A spezzar le romane inclite mura Chiama i gotici brandi; Sudato, e molle di fraterno sangue, Bruto per latra notte in erma sede, Fermo già di morir, glinesorandi Numi e laverno accusa, E di feroci note Invan la sonnolenta aura percote.
Stolta virtù, le cave nebbie, i campi Preme il destino invitto e
la ferrata Spiace agli Dei chi violento
irrompe Di colpa ignare e de
lor proprii danni E tu dal mar cui nostro
sangue irriga, Ecco tra nudi sassi o in
verde ramo Non io dOlimpo o di
Cocito i sordi |
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VII.
ALLA PRIMAVERA
O DELLE FAVOLE ANTICHE.
Perchè i celesti danni Ristori il sole, e perchè laure inferme Zefiro avvivi, onde fugata e sparta Delle nubi la grave ombra savvalla; Credano il petto inerme Gli augelli al vento, e la diurna luce Novo damor desio, nova speranza Ne penetrati boschi e fra le sciolte Pruine induca alle commosse belve; Forse alle stanche e nel dolor sepolte Umane menti riede La bella età, cui la sciagura e latra Face del ver consunse Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti Di febo i raggi al misero non sono In sempiterno? ed anco, Primavera odorata, inspiri e tenti Questo gelido cor, questo chamara Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara? Vivi tu,
vivi, o santa
Vissero i fiori e lerbe,
Nè dellumano affanno, Ma non cognato al nostro |
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VIII.
INNO AI PATRIARCHI
O DE PRINCIPI DEL GENERE
UMANO.
E
voi de figli dolorosi il canto, Voi dellumana prole incliti padri, Lodando ridirà; molto alleterno Degli astri agitator più cari, e molto Di noi men lacrimabili nellalma Luce prodotti. Immedicati affanni Al misero mortal, nascere al pianto, E delletereo lume assai più dolci Sortir lopaca tomba e il fato estremo, Non la pietà, non la diritta impose Legge del cielo. E se di vostro antico Error che luman seme alla tiranna Possa de morbi e di sciagura offerse, Grido antico ragiona, altre più dire Colpe de figli, e irrequieto ingegno E demenza maggior loffeso Olimpo Narmaro incontra, e la negletta mano Dellaltrice natura; onde la viva Fiamma nincrebbe, e detestato il parto Fu del grembo materno, e violento Emerse il disperato Erebo in terra.
Tu primo il giorno, e le purpuree faci E tu dalletra infesto
e dal mugghiante Or te, padre de pii,
te giusto e forte, Fu certo, fu (nè derror
vano e dombra Tal fra le vaste
californie selve |
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IX.
ULTIMO CANTO DI SAFFO.
Placida
notte, e verecondo raggio Della cadente luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettose e care Mentre ignote mi fur lerinni e il fato, Sembianze agli occhi miei; già non arride Spettacol molle ai disperati affetti. Noi linsueto allor gaudio ravviva Quando per letra liquido si volve E per li campi trepidanti il flutto Polveroso de Noti, e quando il carro, Grave carro di Giove a noi sul capo, Tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar giova tra nembi, e noi la vasta Fuga de greggi sbigottiti, o dalto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira dellonda.
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella Qual fallo mai, qual sì
nefando eccesso Morremo. Il velo indegno a
terra sparto, |
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X.
IL PRIMO AMORE.
Tornami
a mente il dì che la battaglia Damor sentii la prima volta, e dissi: Oimè, se questè amor, comei travaglia! Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi Io mirava colei cha questo core Primiera il varco ed innocente aprissi. Ahi come mal mi governasti, amore! Perchè seco dovea sì dolce affetto Recar tanto desio, tanto dolore? E non sereno, e non intero e schietto, Anzi pien di travaglio e di lamento Al cor mi discendea tanto diletto? Dimmi, tenero core, or che spavento, Che angoscia era la tua fra quel pensiero Presso al qual tera noia ogni contento? Quel pensier che nel dì, che lusinghiero Ti si offeriva nella notte, quando Tutto queto parea nellemisfero: Tu inquieto, e felice e miserando, Maffaticavi in su le piume il fianco Ad ogni or fortemente palpitando. E dove io tristo ed affannato e stanco Gli occhi al sonno chiudea, come per febre Rotto e deliro il sonno venia manco. Oh come viva in mezzo alle tenebre Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi La contemplavan sotto alle palpebre! Oh come soavissimi diffusi Moti per lossa mi serpeano, oh come Mille nellalma instabili, confusi Pensieri si volgean! qual tra le chiome Dantica selva zefiro scorrendo, Un lungo, incerto mormorar ne prome. E mentre io taccio, e mentre io non contendo, Che dicevi, o mio cor, che si partia Quella per che penando ivi e battendo? Il cuocer non più tosto io mi sentia Della vampa damor, che il venticello Che laleggiava, volossene via. Senza sonno io giacea sul dì novello, E i destrier che dovean farmi deserto, Battean la zampa sotto al patrio ostello. Ed io timido e cheto ed inesperto, Ver lo balcone al buio protendea Lorecchio avido e locchio indarno aperto, La voce ad ascoltar, se ne dovea Di quelle labbra uscir, chultima fosse; La voce, chaltro il cielo, ahi, mi togliea. Quante volte plebea voce percosse Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese, E il core in forse a palpitar si mosse! E poi che finalmente mi discese La cara voce al core, e de cavai E delle rote il romorio sintese; Orbo rimaso allor, mi rannicchiai Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi, Strinsi il cor con la mano, e sospirai. Poscia traendo i tremuli ginocchi Stupidamente per la muta stanza, Chaltro sarà, dicea, che il cor mi tocchi? Amarissima allor la ricordanza Locommisi nel petto, e mi serrava Ad ogni voce il core, a ogni sembianza. E lunga doglia il sen mi ricercava, Comè quando a distesa Olimpo piove Malinconicamente e i campi lava. Ned io ti conoscea, garzon di nove E nove Soli, in questo a pianger nato Quando facevi, amor, le prime prove. Quando in ispregio ogni piacer, nè grato Mera degli astri il riso, o dellaurora Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato. Anche di gloria amor taceami allora Nel petto, cui scaldar tanto solea, Che di beltade amor vi fea dimora. Nè gli occhi ai noti studi io rivolgea, E quelli mapparian vani per cui Vano ogni altro desir creduto avea. Deh come mai da me sì vario fui, E tanto amor mi tolse un altro amore? Deh quanto, in verità, vani siam nui! Solo il mio cor piaceami, e col mio core In un perenne ragionar sepolto, Alla guardia seder del mio dolore. E locchio a terra chino o in se raccolto, Di riscontrarsi fuggitivo e vago Nè in leggiadro soffria nè in turpe volto: Che la illibata, la candida imago Turbare egli temea pinta nel seno, Come allaure si turba onda di lago. E quel di non aver goduto appieno Pentimento, che lanima ci grava, E il piacer che passò cangia in veleno, Per li fuggiti dì mi stimolava Tuttora il sen: che la vergogna il duro Suo morso in questo cor già non oprava. Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro Che voglia non mentrò bassa nel petto, Charsi di foco intaminato e puro. Vive quel foco ancor, vive laffetto, Spira nel pensier mio la bella imago, Da cui, se non celeste, altro diletto Giammai non ebbi, e sol di lei mappago. |
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XI.
IL PASSERO SOLITARIO.
Din
su la vetta della torre antica, Passero solitario, alla campagna Cantando vai finchè non more il giorno; Ed erra larmonia per questa valle. Primavera dintorno Brilla nellaria, e per li campi esulta, Sì cha mirarla intenerisce il core. Odi greggi belar, muggire armenti; Gli altri augelli contenti, a gara insieme Per lo libero ciel fan mille giri, Pur festeggiando il lor tempo migliore: Tu pensoso in disparte il tutto miri; Non compagni, non voli, Non ti cal dallegria, schivi gli spassi; Canti, e così trapassi Dellanno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia Tu, solingo augellin, venuto
a sera |
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XII.
LINFINITO.
Sempre caro mi fu questermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dellultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien leterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità sannega il pensier mio: E il naufragar mè dolce in questo mare. |
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XIII.
LA SERA DEL DÌ DI FESTA.
Dolce
e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna mia, Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, che taccolse agevol sonno Nelle tue chete stanze; e non ti morde Cura nessuna; e già non sai nè pensi Quanta piaga mapristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno Appare in vista, a salutar maffaccio, E lantica natura onnipossente, Che mi fece allaffanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e daltro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo dì fu solenne: or da trastulli Prendi riposo; e forse ti rimembra In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti Piacquero a te: non io, non già chio speri, Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi In così verde etate! Ahi, per la via Odo non lunge il solitario canto Dellartigian, che riede a tarda notte, Dopo i sollazzi, al suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito Il dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. Or dovè il suono Di que popoli antichi? or dovè il grido De nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e larmi, e il fragorio Che nandò per la terra e loceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando saspetta Bramosamente il dì festivo, or poscia Chegli era spento, io doloroso, in veglia, Premea le piume; ed alla tarda notte Un canto che sudia per li sentieri Lontanando morire a poco a poco, Già similmente mi stringeva il core. |
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XIV.
ALLA LUNA.
O
graziosa luna, io mi rammento Che, or volge lanno, sovra questo colle Io venia pien dangoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia, che travagliosa Era mia vita: ed è, nè cangia stile O mia diletta luna. E pur mi giova La ricordanza, e il noverar letate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che laffanno duri! |
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XV.
IL SOGNO.
Era
il mattino, e tra le chiuse imposte Per lo balcone insinuava il sole Nella mia cieca stanza il primo albore; Quando in sul tempo che più leve il sonno E più soave le pupille adombra, Stettemi allato e riguardommi in viso Il simulacro di colei che amore Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto. Morta non mi parea, ma trista, e quale Deglinfelici è la sembianza. Al capo Appressommi la destra, e sospirando, Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna Serbi di noi? Donde, risposi, e come Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto Di te mi dolse e duol: nè mi credea Che risaper tu lo dovessi; e questo Facea più sconsolato il dolor mio. Ma sei tu per lasciarmi unaltra volta? Io nho gran tema. Or dimmi, e che tavvenne? Sei tu quella di prima? E che ti strugge Internamente? Obblivione ingombra I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno; Disse colei. Son morta, e mi vedesti Lultima volta, or son più lune. Immensa Doglia moppresse a queste voci il petto. Ella seguì: nel fior degli anni estinta, Quandè il viver più dolce, e pria che il core Certo si renda comè tutta indarno Lumana speme. A desiar colei Che dogni affanno il tragge, ha poco andare Legro mortal; ma sconsolata arriva La morte ai giovanetti, e duro è il fato Di quella speme che sotterra è spenta. Vano è saper quel che natura asconde Aglinesperti della vita, e molto Allimmatura sapienza il cieco Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara, Taci, taci, dissio, che tu mi schianti Con questi detti il cor. Dunque sei morta, O mia diletta, ed io son vivo, ed era Pur fisso in ciel che quei sudori estremi Cotesta cara e tenerella salma Provar dovesse, a me restasse intera Questa misera spoglia? Oh quante volte In ripensar che più non vivi, e mai Non avverrà chio ti ritrovi al mondo, Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa Che morte saddimanda? Oggi per prova Intenderlo potessi, e il capo inerme Agli atroci del fato odii sottrarre. Giovane son, ma si consuma e perde La giovanezza mia come vecchiezza; La qual pavento, e pur mè lunge assai. Ma poco da vecchiezza si discorda Il fior delletà mia. Nascemmo al pianto, Disse, ambedue; felicità non rise Al viver nostro; e dilettossi il cielo De nostri affanni. Or se di pianto il ciglio, Soggiunsi, e di pallor velato il viso Per la tua dipartita, e se dangoscia Porto gravido il cor; dimmi: damore Favilla alcuna, o di pietà, giammai Verso il misero amante il cor tassalse Mentre vivesti? Io disperando allora E sperando traea le notti e i giorni; Oggi nel vano dubitar si stanca La mente mia. Che se una volta sola Dolor ti strinse di mia negra vita, Non mel celar, ti prego, e mi soccorra La rimembranza or che il futuro è tolto Ai nostri giorni. E quella: ti conforta, O sventurato. Io di pietade avara Non ti fui mentre vissi, ed or non sono, Che fui misera anchio. Non far querela Di questa infelicissima fanciulla. Per le sventure nostre, e per lamore Che mi strugge, esclamai; per lo diletto Nome di giovanezza e la perduta Speme dei nostri dì, concedi, o cara, Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto Soave e tristo, la porgeva. Or mentre Di baci la ricopro, e daffannosa Dolcezza palpitando allanelante Seno la stringo, di sudore il volto Ferveva e il petto, nelle fauci stava La voce, al guardo traballava il giorno. Quando colei teneramente affissi Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro, Disse, che di beltà son fatta ignuda? E tu damore, o sfortunato, indarno Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio. Nostre misere menti e nostre salme Son disgiunte in eterno. A me non vivi E mai più non vivrai: già ruppe il fato La fe che mi giurasti. Allor dangoscia Gridar volendo, e spasimando, e pregne Di sconsolato pianto le pupille, Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi Pur mi restava, e nellincerto raggio Del Sol vederla io mi credeva ancora. |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 18 luglio 1999