Giuseppe Bonghi
INTRODUZIONE
XI - IL PASSERO
SOLITARIO
DI GIACOMO LEOPARDI
Creazione: pubblicato per la prima volta nel 1835; di data incerta (i critici lo pongono tra il 1828 e il 1835), quasi certamente fra la fine del 1831 e il 1834.
Metro: strofe libere con rime al mezzo
Il Leopardi pose
questo canto in testa agli idilli ai quali si lega per i concetti e le immagini espresse
(mentre l'impianto generale e l'uso linguistico è diverso), quasi una prefazione a quel
componimenti' "in cui il Leopardi anziché ragionare intorno al dominio del male ed
esporre le proprie convinzioni filosofiche, ritrae un aspetto della natura o un momento
del suo animo: componimenti generati come per miracolo dal pessimismo e dal tedio dello
spirito, derivati dalla contemplazione nuova e stupita dei cieli, delle stelle, delle
strade, delle campagne" (A Gianni).
In questo idillio il tema della
solitudine ragiunge un momento di altissima espressione poetica e la dolorosità della sua
condizione esistenziale è divenuta ormai estremamente familiare. Nella solitudine l'uomo,
come il Leopardi, "si gitta naturalmente a considerare e speculare sopra gli uomini
nei loro rapporti scambievoli e sopra se stesso nei rapporti cogli altri. Questo è il
soggetto che lo interessa sopra ogni altro e dal quale non sa staccare le sue riflessioni.
Così egli viene naturalmente ad avere un campo molto ristretto, e viste in sostanza molto
limitate, perché alla fine che cosa è tutto il genere umano (considerato solo nel suoi
rapporti con se stesso) appetto alla natura, e nella università delle cose? (Zibaldone,
4138)".
Anche in questo idillio la condizione di
solitudine e i sentimenti sono espressi attraverso un paragone, come nel Canto notturno,
che nella prima parte presenta una corrispondenza fra la vita del poeta e quella del
passero e nella seconda, superando l'idea di similitudine, presenta una sorta di
opposizione, mostrando quanto le due condizioni siano spiritualmente differenti.
La memoria delle impressioni giovanili,
dalla torre campanaria della Chiesa di SantAgostino alla piazzetta, fanno da sfondo ai
pensieri dell'età matura, ai sentimenti di profonda infelicità che leggiamo negli ultimi
versi, dopo la leggerezza dei primi che esprimono un dolore che mai si trasforma in
negativa angoscia esistenziale.
Come il passero vive solitario, e pensoso
contempla il volteggiare gioioso dei compagni nel libero cielo e canta in disparte
sull'arte della torre, così il poeta, mentre tutto il paese è in festa, esce solitario
alla campagna mentre la primavera brilla nell'aria ed ogni cosa sembra far festa e rimanda
ad altro tempo ogni gioco ed ogni diletto. Ma mentre il passero giunto alla fine della sua
esistenza non proverà dolore per la sua vita trascorsa inutilmente e per quella sua
solitudine, perché ogni gioia è donata dalla natura e non è una conquista dello
spirito, il poeta rimpiangerà di non aver vissuto in modo più felice il suo tempo
migliore, cioè la giovinezza e si volgerà senza conforto al passato.
Il canto caratterizza la vita del passero
che trova ciò che gli serve nella sua natura, come tutti gli altri passeri, né potrebbe
fare altrimenti: non ha bisogni. E quindi non ha bisogno di compagni o di spassi o di
volare insieme ad altri passeri: canta perché quello è il suo istinto, ed il suo canto
è privo di dolore o di felicità. Solo noi uomini possiamo vedere nel canto del passero
dolore o felicità, perché il dolore o la felicità è dentro di noi. Il passero sta solo
e canta e gode anche se non sa di godere; l'uomo al contrario sta solo e soffre, e canta,
come il poeta, e talvolta il suo canto gli serve almeno per addolcire qualche momento
della sua vita, come scrive nello Zibaldone: "[4302] Uno de' maggiori
frutti che io mi propongo e spero da' miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza
col calore della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche
reliquia de' miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata,
quasi in deposito; è di commuover me stesso in rileggerli, come spesso mi accade, e
meglio che in leggere poesie d'altri: (Pisa. 15. Apr. 1828.) oltre la rimembranza, il
riflettere sopra quello ch'io fui, e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che
si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da se compiacendosene, le
bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta
una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. (Pisa. 15. Feb.
ult. Venerdì di Carnevale. 1828.)."
La struttura
Dividiamo l'idillio in tre parti, corrispondenti alle tre stanze (vv. 1/16, 17/44, 45/59).
parte I 1/16 |
Nella prima parte il poeta canta del passero, coi suoi costumi, rappresentato in un 'quadro basato non solo sulla natura ma anche sul comportamento degli altri uccelli. Risalta subito il tema della solitudine, che nel passero non provoca dolore o angosciose domande sulla vita e sul destino. Anzi all'apparenza il 'solingo augellin' sembra padrone del cielo, col suo canto spiegato alla campagna, mentre la primavera è in festa nell'aria e nella natura e tutto sembra partecipare di una gioia comune. Ma già in questa prima stanza possiamo cogliere il filone o lo sfondo di una solitudine pensosa e quindi dolorosa. |
parte II 17/44 |
Il centro della seconda stanza è il poeta stesso che coglie il paragone tra la sua vita e quella del passero ("quanto somiglia / al tuo costume il mio"). La stanza sembra costruita in parallelo con la pn'ma, in una sorta di assoluta "corrispondenza", come abbiamo avuto modo di notare già nelle note: ma tutto si rivela apparente non appena si passa dall'immaginazione alla realtà. Riscontriamo quindi un doppio piano connotativo: uno superficiale (la festa, la gioventù gioiosa, ecc.) e uno profondo, rappresentato appunto dalla solitudine: "All'uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo, gli oggetti sono in un certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna, udrà cogli orecchi un suono di una campana; e nel tempo stesso coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose (Zib. 4418)". Ma questo bello e piacevole il poeta non riuscirà a coglierlo profondamente, proprio perché solitario; alla natura e alle cose non si abbandona: lo coglie piuttosto il pensiero, dettato proprio da quel "bello piacevole", dal sole che tramonta dolcissimo dopo un giorno sereno, "che la beata gioventù vien meno". |
parte III 45/59 |
La terza stanza, attraverso una similitudine espressa non più per concordanza ma per contrasto, sviluppa proprio il tema del trascorrere inesorabile del tempo, del ritorno al tempo passato e del rimpinto doloroso di non averlo potuto o saputo vivere in modo diverso e più "piacevole", della primavera e della giovinezza ormai passate, che non torneranno più. Il limite estremo non è comunque il nulla, nel quale affogare le illusioni, le lacerazioni dell'anima, l'infelicità "naturale", ma l'angoscia che lo prenderà ogni volta che ripensando al passato e voltandosi "sconsolato" indietro, sarà cosciente di non averlo vissuto. Alla fine nella nostra mente spariscono le scene di allegrezza e rimane solo il poeta colla sua malinconia, colla sua tristezza, coi suoi rimpianti. |
La lingua
Sul piano linguistico
dobbiamo notare come le posizioni affidate dal poeta ad alcuni pronomi personali ed al
vocativo "passero solitario" del 2 verso, siano tutte in posizione iniziale di
verso. Diciamo anzi che il vocativo "passero solitario" e i successivi pronomi
personali /tu/ v. 12, /io/ v. 36, /Tu/ v. 45, /a me/ v. 50,
segnano lo svolgersi delle immagini e devono attirare l'attenzione del lettore sui
concetti fondamentali espressi come concordanza o come contrasto.
Una novità di questo idillio è l'uso
del verbo /Odi/ (vv. 8-30-31) alla seconda persona, sempre in posizione di
struttura iniziale, con un /tu/ sottinteso, che crea apparentemente un personaggio
col quale il poeta sembra intrecciare un dialogo: in effetti Leopardi si rivolge a se
stesso; il Leopardi che vive nella realtà quotidiana, fatta ormai di disillusioni, di
accettazione del vero esistenziale e dell'infelicità dalla quale ormai dispera di potersi
salvare, si rivolge al Leopardi sognante, che ritorna il tempo andato, mitizzandolo e
depurandolo di tutti quegli avvenimenti che lo avevano caratterizzato in modo negativo
tanto da farlo diventare triste e odioso e da fargli desiderare ardentemente di scappare
da Recanati.
Pur prendendo in considerazione il il
passaggio del verbo dalla seconda persona singolare alla terza persona impersonale /si
ode/, possiamo, anche nella indeterminatezza dell'espressione, individuare comunque in
quel /tu/ sottinteso l'altro /io/ del Leopardi, come se avvenisse nel poeta
uno sdoppiamento di personalità: l'/io-tu/ che vede lo splendore della primavera e
la festosità della gioventù recanatese e l'/io-io/ che solitario vaga per la
"rimota campagna" pensando al tempo trascorso e alla gioventù ormai finita.
Allo stesso modo anche l'amore,
attraverso il /te/ (verso 20: E te german di giovinezza, amore), viene per
un attimo esaltato come gemello della giovinezza; l'amore, come afferma nel canto Ad
Arimane (dio del male della religione persiana, abbozzo di canto scritto forse nella
primavera del 1833 a Firenze) è l'unico sentimento che veramente può portare l'uomo a
una condizione di felicità superando la solitudine. Ultima nota, infine, sulle domande
retoriche degli ultimi versi: come struttura linguistica sembrano anticipare le domande
del "Canto notturno": "che di questi anni miei? che di me stesso?"
alle quali fanno eco appunto le domande "che vuol dir questa / solitudine immensa? ed
io che sono?" (vv. 88-89). Domande per le quali non esiste risposta, ma una
constatazione: la coscienza che "qualche bene o contento / avrà fors'altri", ma
per il poeta la vita è male, perché "dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce
il dì natale". La poesia quasi sempre non riesce a dare risposte, al contrario della
filosofia, che tenta di creare un sistema logico e razionale nel quale la risposta può
anche essere tentata.
La raffigurazione degli aspetti sognanti
della natura e della vita avviene attraverso una serie di parole che appartengono al campo
dell'indeterminatezza, così come indeterminato deve restare il rivivere commosso
l'incanto della primavera giovanile vissuta a Recanati insieme all'impossibilità di poter
partecipare a quella gioia diffusa, ma permette solamente un uscire da solo in quell'aria
verso il declinare del giorno e vedere nel sole che tramonta il destino comune degli
uomini che è un affannarsi verso la morte e un voltarsi indietro sconsolato a un certo
punto e dirsi: ma perché non ho vissuto?
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 30 gennaio 1999