Giovanni Boccaccio
Decameron
Settima Giornata
Novella decima
Due sanesi amano una donna comare dell'uno; muore il, compare e torna al compagno secondo la promessa fattagli, e raccontagli come di là si dimori.
Restava solamente al re il dover novellare, il quale,
poi che vide le donne racchetate, che del pero tagliato che colpa non avea si dolevano,
incominciò:
Manifestissima cosa è che ogni giusto re primo servatore
dee essere delle leggi fatte da lui, e se altro ne fa, servo degno di punizione, e non re,
si dee giudicare; nel quale peccato e riprensione a me, che vostro re sono, quasi
costretto cader con viene. Egli è il vero che io ieri la legge diedi a' nostri
ragionamenti fatti oggi, con intenzione di non voler questo dì il mio privilegio usare,
ma, soggiacendo con voi insieme a quella, di quello ragionare che voi tutti ragionato
avete; ma egli non solamente è stato raccontato quello che io imaginato avea di
raccontare, ma sonsi sopra quello tante altre cose e molto più belle dette, che io per
me, quantunque la memoria ricerchi, rammentar non mi posso né conoscere che io intorno a
sì fatta materia dir potessi cosa che alle dette s'appareggiasse; e per ciò, dovendo
peccare nella legge da me medesimo fatta, sì come degno di punizione, infino ad ora ad
ogni ammenda che comandata mi fia mi proffero apparecchiato, e al mio privilegio usitato
mi tornerò. E dico che la novella detta da Elissa del compare e della comare, e appresso
la bessaggine de' sanesi, hanno tanta forza, carissime donne, che, lasciando stare le
beffe agli sciocchi mariti fatte dalle lor savie mogli, mi tirano a dovervi con tare una
novelletta di loro, la quale, ancora che in sé abbia assai di quello che creder non si
dee, nondimeno sarà in parte piacevole ad ascoltare.
Furono adunque in Siena due giovani popolari, de' quali
l'uno ebbe nome Tingoccio Mini e l'altro fu chiamato Meuccio di Tura, e abitavano in porta
Salaia, e quasi mai non usavano se non l'un con l'altro, e per quello che paresse s'amavan
molto; e andando, come gli uomini vanno, alle chiese e alle prediche, più volte udito
avevano della gloria e della miseria che all'anime di coloro che morivano era, secondo li
lor meriti, conceduta nell'altro mondo. Delle quali cose disiderando di saper certa
novella, né trovando il modo, insieme si promisero che qual prima di lor morisse, a colui
che vivo fosse rimaso, se potesse, ritornerebbe, e direbbegli novelle di quello che egli
desiderava; e questo fermarono con giuramento.
Avendosi adunque questa promession fatta, e insieme
continuamente usando, come è detto, avvenne che Tingoccio divenne compare d'uno Ambruogio
Anselmini, che stava in Camporeggi, il qual d'una sua donna chiamata monna Mita aveva
avuto un figliuolo. Il qual Tingoccio, insieme con Meuccio visitando alcuna volta questa
sua comare, la quale era una bellissima e vaga donna, non ostante il comparatico,
s'innamorò di lei; e Meuccio similmente, piacendogli ella molto e molto udendola
commendare a Tingoccio, se ne innamorò. E di questo amore l'un si guardava dall'altro, ma
non per una medesima cagione: Tingoccio si guardava di scoprirlo a Meuccio per la
cattività che a lui medesimo pareva fare d'amare la comare, e sarebbesi vergognato che
alcun l'avesse saputo; Meuccio non se ne guardava per questo, ma perché già avveduto
s'era che ella piaceva a Tingoccio. Laonde egli diceva: - Se io questo gli discuopro, egli
prenderà gelosia di me; e potendole ad ogni suo piacere parlare, sì come compare, in
ciò che egli potrà le mi metterà in odio, e così mai cosa che mi piaccia di lei io non
avrò -.
Ora, amando questi due giovani, come detto è, avvenne che
Tingoccio, al quale era più destro il potere alla donna aprire ogni suo disiderio, tanto
seppe fare, e con atti e con parole, che egli ebbe di lei il piacere suo; di che Meuccio
s'accorse bene; e quantunque molto gli dispiacesse, pure, sperando di dovere alcuna volta
pervenire al fine del suo disidero, acciò che Tingoccio non avesse materia né cagione di
guastargli o d'impedirgli alcun suo fatto, faceva pur vista di non avvedersene.
Così amando i due compagni, l'uno più felicemente che
l'altro, avvenne che, trovando Tingoccio nelle possessioni della comare il terren dolce,
tanto vangò e tanto lavorò che una infermità ne gli sopravenne, la quale dopo alquanti
dì sì l'aggravò forte che, non potendola sostenere, trapassò di questa vita. E
trapassato, il terzo dì appresso (ché forse prima non aveva potuto) se ne venne, secondo
la promession fatta, una notte nella camera di Meuccio, e lui, il qual forte dormiva,
chiamò.
Meuccio destatosi disse: - Qual se' tu?
A cui egli rispose: - Io son Tingoccio, il qual, secondo la
promession che io ti feci, sono a te tornato a dirti novelle dell'altro mondo.
Alquanto si spaventò Meuccio veggendolo, ma pure
rassicurato disse: - Tu sia il ben venuto, fratel mio - ; e poi il domandò se egli era
perduto.
Al qual Tingoccio rispose: - Perdute son le cose che non si
ritruovano; e come sarei io in mei chi, se io fossi perduto?
- Deh, - disse Meuccio - io non dico così ; ma io ti
domando se tu se' tra l'anime dannate nel fuoco pennace di ninferno.
A cui Tingoccio rispose: - Costetto no, ma io son bene, per
li peccati da me commessi, in gravissime pene e angosciose molto.
Domandò allora Meuccio particularmente Tingoccio che pene
si dessero di là per ciascun de' peccati che di qua si commettono; e Tingoccio gliele
disse tutte. Poi gli domandò Meuccio s'egli avesse di qua per lui a fare alcuna cosa. A
cui Tingoccio rispose di sì, e ciò era che egli facesse per lui dir delle messe e delle
orazioni e fare delle limosine per ciò che queste cose molto giovavano a quei di là, a
cui Meuccio disse di farlo volentieri.
E partendosi Tingoccio da lui, Meuccio si ricordò della
comare, e sollevato alquanto il capo disse: - Ben che mi ricorda, o Tingoccio: della
comare, con la quale tu giacevi quando eri di qua, che pena t'è di là data?
A cui Tingoccio rispose: - Fratel mio, come io giunsi di
là, sì fu uno, il qual pareva che tutti i miei peccati sapesse a mente, il quale mi
comandò che io andassi in quel luogo nel quale io purgo in grandissima pena le colpe mie,
dove io trovai molti compagni a quella medesima pena condennati che io; e stando io tra
loro, e ricordandomi di ciò che già fatto avea con la comare e aspettando per quello
troppo maggior pena che quella che data m'era, quantunque io fossi in un gran fuoco e
molto ardente, tutto di paura tremava. Il che sentendo un che m'era dal lato, mi disse: -
Che hai tu più che gli altri che qui sono, che triemi stando nel fuoco? - - Oh, - diss'io
- amico mio, io ho gran paura del giudicio che io aspetto d'un gran peccato che io feci
già -. Quegli allora mi domandò che peccato quel fosse. A cui io dissi: - Il peccato fu
cotale, che io mi giaceva con una mia comare, e giacquivi tanto che io me ne scorticai -.
Ed egli allora, faccendosi beffe di ciò, mi disse: - Va, sciocco, non dubitare; ché di
qua non si tiene ragione alcuna delle comari -; il che io udendo tutto mi rassicurai.
E detto questo, appressandosi il giorno, disse: - Meuccio,
fatti con Dio, ché io non posso più esser con teco - ; e subitamente andò via.
Meuccio, avendo udito che di là niuna ragione si teneva
delle comari, cominciò a far beffe della sua sciocchezza, per ciò che già parecchie
n'avea risparmiate; per che, lasciata andar la sua ignoranza, in ciò per innanzi divenne
savio. Le quali cose se frate Rinaldo avesse saputo, non gli sarebbe stato bisogno
d'andare sillogizzando quando convertì a' suoi piaceri la sua buona comare.
Indici delle giornate
Indice delle novelle della settima giornata
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 08 febbraio 1998