Giacomo Leopardi
Canti
XXIX.
ASPASIA.
Torna
dinanzi al mio pensier talora Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo Per abitati lochi a me lampeggia In altri volti; o per deserti campi, Al dì sereno, alle tacenti stelle, Da soave armonia quasi ridesta, Nellalma a sgomentarsi ancor vicina Quella superba vision risorge. Quanto adorata, o numi, e quale un giorno Mia delizia ed erinni! E mai non sento Mover profumo di fiorita piaggia, Nè di fiori olezzar vie cittadine, Chio non ti vegga ancor qual eri il giorno Che ne vezzosi appartamenti accolta, Tutti odorati de novelli fiori Di primavera, del color vestita Della bruna viola, a me si offerse Langelica tua forma, inchino il fianco Sovra nitide pelli, e circonfusa Darcana voluttà; quando tu, dotta Allettatrice, fervidi sonanti Baci scoccavi nelle curve labbra De tuoi bambini, il niveo collo intanto Porgendo, e lor di tue cagioni ignari Con la man leggiadrissima stringevi Al seno ascoso e desiato. Apparve Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio Divino al pensier mio. Così nel fianco Non punto inerme a viva forza impresse Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto Ululando portai fincha quel giorno Si fu due volte ricondotto il sole.
Raggio divino al mio pensiero apparve, Nè tu finor giammai quel
che tu stessa Or ti vanta, che il puoi.
Narra che sola |
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XXX.
SOPRA
UN BASSO RILIEVO ANTICO SEPOLCRALE
DOVE UNA GIOVANE MORTA
È RAPPRESENTATA IN ATTO DI PARTIRE,
ACCOMIATANDOSI DAI SUOI.
Dove
vai? chi ti chiama Lunge dai cari tuoi, Bellissima donzella? Sola, peregrinando, il patrio tetto Sì per tempo abbandoni? a queste soglie Tornerai tu? farai tu lieti un giorno Questi choggi ti son piangendo intorno?
Asciutto il ciglio ed animosa in atto, Morte ti chiama; al
cominciar del giorno Mai non veder la luce Madre temuta e pianta Misera ovunque miri, Già se sventura è questo |
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XXXI.
SOPRA
IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA
SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE
DELLA MEDESIMA.
Tal
fosti: or qui sotterra Polve e scheletro sei. Su lossa e il fango Immobilmente collocato invano, Muto, mirando delletadi il volo, Sta, di memoria solo E di dolor custode, il simulacro Della scorsa beltà. Quel dolce sguardo, Che tremar fe, se, come or sembra, immoto In altrui saffisò; quel labbro, ondalto Par, come durna piena, Traboccare il piacer; quel collo, cinto Già di desio; quellamorosa mano, Che spesso, ove fu porta, Sentì gelida far la man che strinse; E il seno, onde la gente Visibilmente di pallor si tinse, Furo alcun tempo: or fango Ed ossa sei: la vista Vituperosa e trista un sasso asconde.
Così riduce il fato Desiderii infiniti Natura umana, or come, |
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XXXII.
PALINODIA
AL MARCHESE GINO CAPPONI.
Il sempre
sospirar nulla rileva. Petrarca |
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Errai, candido Gino; assai gran tempo, E di gran lunga errai. Misera e vana Stimai la vita, e sovra laltre insulsa La stagion chor si volge. Intolleranda Parve, e fu, la mia lingua alla beata Prole mortal, se dir si dee mortale Luomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno, DallEden odorato in cui soggiorna, Rise lalta progenie, e me negletto Disse, o mal venturoso, e di piaceri O incapace o inesperto, il proprio fato Creder comune, e del mio mal consorte Lumana specie. Alfin per entro il fumo De sígari onorato, al romorio De crepitanti pasticcini, al grido Militar, di gelati e di bevande Ordinator, fra le percosse tazze E i branditi cucchiai, viva rifulse Agli occhi miei la giornaliera luce Delle gazzette. Riconobbi e vidi La pubblica letizia, e le dolcezze Del destino mortal. Vidi leccelso Stato e il valor delle terrene cose, E tutto fiori il corso umano, e vidi Come nulla quaggiù dispiace e dura. Nè men conobbi ancor gli studi e lopre Stupende, e il senno, e le virtudi, e lalto Saver del secol mio. Nè vidi meno Da Marrocco al Catai, dallOrse al Nilo, E da Boston a Goa, correr dellalma Felicità su lorme a gara ansando Regni, imperi e ducati; e già tenerla O per le chiome fluttuanti, o certo Per lestremo del boa. Così vedendo, E meditando sovra i larghi fogli Profondamente, del mio grave, antico Errore, e di me stesso, ebbi vergogna. Aureo secolo omai volgono, o Gino,
Ghiande non ciberà certo la terra
Queste lievi reliquie e questi segni
Fortunati color che mentre io scrivo
Quale un fanciullo, con assidua cura,
Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
Un già de tuoi, lodato Gino; un franco
O salve, o segno salutare, o prima |
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XXXIII.
IL TRAMONTO DELLA LUNA.
Quale
in notte solinga, Sovra campagne inargentate ed acque, Là ve zefiro aleggia, E mille vaghi aspetti E ingannevoli obbietti Fingon lombre lontane Infra londe tranquille E rami e siepi e collinette e ville; Giunta al confin del cielo, Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nellinfinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo; Spariscon lombre, ed una Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta, E cantando, con mesta melodia, Lestremo albor della fuggente luce, Che dianzi gli fu duce, Saluta il carrettier dalla sua via;
Tal si dilegua, e tale Troppo felice e lieta Voi, collinette e piagge, |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 18 luglio 1999