Giuseppe Bonghi

INTRODUZIONE

XXIX  -  ASPASIA
DI GIACOMO LEOPARDI

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Creazione: canzone composta a Napoli nell'autunno del 1833 o nella primavera del 1834 (per qualcuno addirittura all'inizio del 1835) e pubblicata per la prima volta nell'edizione Starita; non se ne conserva alcun autografo; Aspasia è il nome dell'etera amata da Pericle e questo nome assume per Leopardi Fanny Targioni Tozzetti: l'identificazione è testimoniata da Antonio Ranieri in una lettera alla stessa Fanny.
Metro: Quattro stanze di endecasillabi sciolti.

Tema centrale

         Aspasia è il canto dell'amore e del disinganno, dell'addio non alla donna ma all'amore e alla vita, ed è un canto in cui traspare un dolorosa intimità, che qui, dopo la presa di coscienza di un amore finito o mai realizzato, assume la forma di un libero corso effusivo dei propri pensieri, del disinganno provato e delle illusioni improvvisamente spezzate, quelle illusioni che erano state ad arte incitate e accarezzate dalla stessa Fanny colla sua bellezza, coi suoi atteggiamenti civettuoli non solo di madre ma anche di donna (che abbraccia le sue tre bambine e mentre le stringe al seno le bacia lasciando lampeggiare la bianca e conturbante nudità del collo).
         Il cuore del poeta si presenta aperto e la sua anima è nuda e disarmata. Il sorriso che chiude la canzone non è di disperazione; è piuttosto il sorriso di chi ha capito che per lui non c'è più spazio e inevitabilmente bisogna accettare il destino, per quanto amaro e angoscioso possa essere, di chi nelle cose del mondo ha scoperto la definitiva infinita vanità. Alla fine nella nostra mente resta proprio questo sorriso, così lontano da ogni pessimismo ma così vicino alla vera profonda infelicità che possiede ogni essere umano che dal destino si vede negata la sola cosa veramente bella che esiste: l'amore, tanto da fargli dire che la morte è la seconda cosa bella e desiderabile. Ma il pensiero della morte non esiste nel sentimento d'amore: subentra come una liberazione quando l'amore non c'è più o si rivela irrealizzabile.
         Il canto è chiusa da un sorriso finale; ma questo sorriso non è quello di un misantropo che mostra la sua avversione per il genere umano o di un misogino che mostra il suo impotente odio per le donne, ma è il sorriso di colui che è ormai andato oltre le umane miserie prospettate dal destino, che ha accantonato i desideri più veri, che ha smesso di essere schiavo dell'amore, cioè dell'unico vero sentimento per cui vale la pena lottare e soffrire.

Struttura

Indubbiamente la canzone può essere divisa in due parti.

- La prima (vv. 1-60) si presenta con un carattere più generale in cui Leopardi mostra che l'uomo amando vagheggia e desidera un'idea che a suo modo si forma nella sua mente, idea alla quale solo raramente corrisponde la figura della donna che gliel'ha suscitata: la donna, anzi, non sarebbe nemmeno capace di comprendere le alte ispirazioni che suscita nell'uomo colla sua bellezza.

- La seconda (dal v. 61 alla fine) parla di sè e di Aspasia, calando nella realtà quello che ha in generale dell'uomo e della donna, ed incomincia riprendendo e ampliando il concetto esposto nei vv. 50-52: la donna non pensa, né potrebbe comprendere, a ciò che ispira il fascino della sua stessa bellezza nel generoso amante.

Nel quadro che segue abbiamo rispettato una divisione quadripartita con la scansione delle quattro strofe

prima strofa
1-32

seconda strofa
33-60

terza strofa
61-88

quarta strofa
89-112

- presentazione di Aspasia, delizia ed erinni,

- rievocazione della donna e del momento dell'innamoramento

- elogio della bellezza

- l'inganno

- l'amorosa idea e l'inferiorità femminile

- dichiarazione d'amore

- la morte (o impossibile esistenza) della donna ideale

- la fine dell'amore

- l'impossibile vanto di Aspasia che ebbe solo una somiglianza con l'idea della donna formata nell'anima del poeta

- mai potrà arrivare la primavera coi suoi profumi senza che ritorni alla mente la visione della donna allettatrice che coi suoi modi e colla sua bellezza fece innamorare di sè il poeta, mentre compare nel profumo dei primi fiori primaverili: due anni durò la delizia e il tormento: ora resta solo la visione che lampeggia per un attimo nel volto di donne sconosciute incontrate per caso.

- nella prima parte (34-45) abbiamo l'elogio della bellezza che affascina ed incanta

- nella seconda parte (46-60) abbiamo il disinganno: la donna non solo non corrisponde ma non pensa neppure a comprendere le immaginazioni che in virtù della sua della sua bellezza corporea è stata capace di suscitare.

- Aspasia ha suscitato erinni e delizie nel cuore del poeta, ma ora quella donna immaginata non esiste più, è sepolta nel cuore del poeta: vive solo l'Aspasia reale-

- ma l'amore è stato tutto rivolto all'amorosa idea, che contempla senza sapersene staccare, asservito a quegli occhi.

- La donna si può ora anche vantare di aver asservito, lei sola tra tante, il Leopardi che mai prima d'allora si era piegato supplicando amore davanti a una donna.

- All'improvviso tutto finisce: cade l'inganno che il poeta aveva rivolto contro se stesso creando l'immagine della donna vera e reale, e nel sogno frantumato riacquista la perduta libertà: e spunta un sorriso: ora il senno non mi porterà più a sognare ma a vedere la mia realtà e la realtà che mi circonda.

Qualche volta, Aspasia, il tuo viso mi torna davanti agli occhi. Il tuo viso mi lampeggia davanti in altri volti per un attimo per le vie cittadine, o per i deserti campi di giorno o durante la notte sotto le stelle silenziose, quasi riportata alla memoria da una musica soave, quella sublime visione risorge nell'anima pronta a sgomentarsi ancora. Quanto adorata è stata quella immagine e quale delizia e tormento insieme è stata. E nessuna primavera torna coi suoi profumi in città o in campagna senza che ritorni alla mia mente la donna nel suo appartamento odoroso di fiori novelli primaverili vestita di color viola, che si offre alla vista, circonfusa di arcana voluttà, mentre, dotta allettatrice, scoccava fervidi baci sulle labbra dei suoi bambini porgendo il niveo collo, stringendoli al seno nascosto e desiderato. Allora apparve un nuovo cielo, una nuova terra, quasi un raggio divino davanti alla mia mente e nel cuore mi entrò lo strale d'amore impresso a viva forza dal tuo braccio che poi, confitto, portai finché per due volte il sole tornò al suo punto primitivo con cupo lamento.

La tua bellezza, Donna, apparve al mio pensiero come un raggio divino. Un simile è prodotto solo dalla bellezza e dalla musica, che spesso sembrano rivelare il mistero di sconosciuti Elisi. L'uomo innamorato vagheggia l'immagine della donna che ha creato nella sua mente, l'idea amorosa, che racchiude in sè la bellezza divina dell'Olimpo, una immagine in tutto, viso costumi voce, pari alla donna che stima confusamente di amare e di desiderare. Non la donna reale, comunque, ma quella immagine ama e venera quando la possiede fra le sue braccia. Alla fine riconoscendo l'errore dello scambio fra donna reale e l'amorosa donna immaginata, s'adira, e spesso incolpa a torto la donna. A quell'eccelsa immagine raramente corrisponde la donna; e ciò che ispira ai suoi amanti la sua bellezza ma non ci pensa né potrebbe comprenderlo. Non entra in quelle anguste menti un concetto uguale a quello che si è formato nella mente dell'amante. E spera a torto, l'uomo ingannato dal vivo sfolgorare di quegli sguardi e a torto richiede il possesso di sentimenti profondi e sconosciuti, e molti più che virili in chi in tutto è inferiore all'uomo, nella donna, che riceve dalla natura più molli e più deboli le membra, anche la mente riceve meno capace e meno forte.

Né tu, o Aspasia, finora hai potuto immaginare quello che tu stessa un tempo hai potuto ispirare al mio pensiero. Non sai quale smisurato amore, quanti intensi affanni, quali indicibili moti del cuore e che deliri hai suscitato in me; né arriverà il momento in cui tu potrai capirlo. Allo stesso modo il musicista, l'esecutore del concerto musicale ignora ciò che, suonando o cantando, ha suscitato in chi l'ascolta. Ora quell'Aspasia che tanto amai è morta. Giace per sempre lei che un giorno fu l'oggetto, il pensiero dominante della mia vita: anche se di quando in quando ama tornare nei miei pensieri per disparire di nuovo. Tu, Aspasia (reale) vivi, non solo ancor bella, ma tanto bella che secondo me superi tutte le altre con la tua bellezza. Nondimeno, quell'ardore che dalla tua bellezza nacque in me è spento: perché io non amai te, ma quella immagine amorosa, quella Dea che un tempo fu vita ed ora ha un sepolcro nel mio cuore. Quella immagine per gran tempo (due anni) adorai; e tanto mi piacque la sua celestiale bellezza, che io, già fin dal principio consapevole e sicuro del tuo modo di essere e delle tue arti, pur contemplando nei tuoi occhi vivi i begli occhi dell'immagine che mi ero formata, desideroso ti seguii finché ella visse, non già da te ingannato, ma facilmente persuaso dal piacere di quella dolce somiglianza a sopportare un lungo e crudele servaggio.

Ora vantati, perché puoi ben farlo. E narra che tu sola, del tuo sesso, sei la persona alla quale accettai di piegare il mio capo altero, a cui spontaneamente offrii il mio cuore indomito, mai domato fino a quel momento da altra donna. Narra che sei stata la prima, e spero che sarai anche l'ultima, a vedere i miei occhi supplichevoli, a vedermi dinanzi a te timido, tremante (e nel ricordarlo e ridirlo ardo ancora di sdegno e di vergogna), me fuori di me stesso, osservare umilmente e con sottomissione ogni tua voglia, ogni tua parola, ogni tuo atto, impallidire davanti alle tue sprezzanti espressioni di fastidio, illuminarmi in viso anche solo ad un segno cortese e benigno a me rivolto, mutare aspetto e colore ad ogni fuggevole sguardo. Cadde l'incanto e con l'incanto cadde il giogo, la schiavitù amorosa frantumata e sparsa per terra. E di questo mi rallegro. E sebbene pieni di tedio, alfine dopo la schiavitù amorosa e dopo il lungo vaneggiare rincorrendo un vano e irrealizzabile sogno, abbraccio contento il senno ritrovato e la libertà. Che se la vita priva di affetti e di gentili illusioni è come una notte senza stelle nel pieno dell'inverno, mi basta come conforto e vendetta contro l'umano destino il sedermi sull'erba e giacere immobile e abbandonato inerte e guardo il mare, la terra e il cielo e sorrido.

Aspasia

         La scelta del nome non è molto lusinghiera per la donna che un giorno aveva suscitato amore nel suo cuore. Aspasia era il nome della figlia, bellissima e coltissima, di Asioco di Mileto, come narra Plutarco nella vita di Pericle; è la più famosa delle etere (cortigiane) greche, celebre anche per la conoscenza dell'arte oratoria, rara soprattutto in una donna; ammiratrice di Socrate, che amava recarsi presso di lei coi suoi discepoli che aveva familiarità anche con gli intellettuali più in vista di Atene; fu prima amante e poi moglie di Pericle, del quale divenne l'ispiratrice politica sul piano della protezione delle arti. Nel 1779 alcuni fortunati scavi archeologici restituirono alla luce un busto di Pericle e poco lontano uno proprio si Aspasia.
         Nella vita reale Aspasia è Fanny Ronchivecchi, moglie del professor Antonio Targioni Tozzetti, che a Firenze abitava in via Ghibellina; nata nel 1805 (all’epoca aveva quindi venticinque anni) e morta nel 1889, era donna assai in vista nella società fiorentina per la sua bellezza e per le sue pretese letterarie, ma anche per i pettegolezzi che circolavano sul suo conto e sul numero dei suoi amanti: così da Firenze in una lettera del 18 maggio 1830 ad Antonio Ranieri racconta Alessandro Poerio, che aveva presentato Leopardi e lo stesso Ranieri alla Fanny:

È qui la Tanari, quella Signora Bolognese, la quale, per quanto mi pare che tu mi dicessi, ti è nota personalmente. Leopardi e Niccolini la conoscono entrambi, e dicono essere ella non solo bellissima e cortese di modi, ma eccellente oltre al solito delle donne nella pittura, nelle lingue moderne, ed in altri pregi. La Targioni, cui non veggo se non assai di rado, fui per presentarle il nostro Leopardi, mi commise salutarti. Ella è ormai fatta tutta letteratura e Signoria. Dicesi, che Carlo Torrigiani sia attualmente il favorito. Altri nominarono Luigi Mannelli. Ci è pure chi pretende che Gherardo Lenzoni, e il Marchese Lucchesini di tempo in tempo facciano incursioni sull'antico dominio. Io non posso indurmi a credere di sì prudente donna così licenziose novelle, e credo che de' quattro amanti almeno due sieno favolosi.

         A Firenze Leopardi rallenta la vita letteraria, ma aumenta la vita di società; la sua salute non lo fa soffrire molto e la sua cera è quasi buona, non tale comunque da far pensare a un uomo malato; si reca spesso nel salotto di Fanny, per la quale concepirà un amore appassionato, ma a quanto pare non come al solito pieno di sottomissione, che gli ispirerà i cinque canti del cosiddetto "ciclo di Aspasia" (Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia).
         Fanny appartiene all’orizzonte di Antonio Ranieri, il bel napoletano, (che tanta parte avrà negli ultimi sette anni della vita di Leopardi), e appena di riflesso si accorge del poeta. "È una donna attraente che con esemplare civetteria giunge ad accusarsi in una lettera ad Antonio Ranieri del novembre 1831, di "ocaggine" e di essere vittima di un destino che l’ha "fatta più per soffrire che per godere". Giacomo può innamorarsi di lei in virtù del suo legame con il bel napoletano e attirarne l’attenzione affettuosa soltanto in un ruolo secondario (Damiani, 405)". D’altronde la Fanny non avrebbe potuto, lei così bella e affascinante, restare fisicamente incantata da un personaggio che aveva così poca cura della sua persona ("Leopardi non stà bene di occhi, ed è ostinato non voler far niente, mi sembra anche poco tenerli netti...", scrive nel marzo 1833 a Ranieri che si trovava a Napoli mentre Leopardi era ancora a Firenze, lei che pure soffriva in quel periodo agli occhi, ma non sono nemica dell’acqua: in che modo avrebbe potuto provare del tenero la Fanny per un simile uomo?).
         I rapporti tra Fanny e Giacomo si sono sempre mantenuti su un piano di cordialità e, da parte della donna, anche di rispetto, ma mai avrebbero potuto sfociare in "amore" per una sorta di naturale repulsione fisica che la donna provava per il poeta, per il quale sentiva comunque ammirazione e una specie di affetto che sicuramente era qualcosa di diverso dall’amicizia e dall’affetto fraterno ma non poteva essere amore. Sicuramente il Leopardi un giorno le ha confessato il suo amore, e questo ci viene confermato da una delle lettere di Fanny al Ranieri, nella quale la donna confessa chiaramente che il poeta era stato uno dei suoi ammiratori, che lei lo aveva respinto con tale garbo che tra i due non vi fu nessuna rottura, ma continuò una certa "amicizia". Così scrive infatti nel 1833 Fanny al Ranieri che si trovava ormai a Napoli con Leopardi:

E di Leopardi che ne è? io già sono nella sua disgrazia non è vero?, e il grande amore si convertì in ira; ciò mi è accaduto sovente, perché nella filsa dei miei adoratori ho avuto certi camorri (persona uggiosa e seccante, oltre che persona malaticcia, ndr) da far paura; e con quelli che non erano in questa categoria è perché non ho potuto mai spogliarmi da quel maledetto, e brutto pensar volgare del quale mi avete sempre accusata.

Proprio l’identificazione con Aspasia Fanny cerca con forza di respingere (non priva di un certo compiacimento); e quando Ranieri le scrive affermando di vedere proprio in lei l’Aspasia leopardiana, così gli risponde il 20 gennaio 1838, rivelando una certa sincera pena per il "disgraziato" Leopardi, una pena che nasce dal pensiero di aver dato una trista idea di sé:

Se non vi conoscessi così propenso al farmi arrabbiare, e canzonare direi che siete stato cattivo nel tentare di darmi un dispiacere colla risposta sull’Aspasia. Voi più d’ogni altro sapete se mai diedi la menoma lusinga a quel pover’uomo del Leo..., e se il mio carattere è tale da prendersi gioco d’un infelice, e d’un brav’uomo come lui. Quando me ne parlava, in certi tempi, io m’inquietavo, e non volevo, manco credere vere certe cose, come non le credo ancora, ed il bene che io gli volevo glie lo voglio ancora tal quale, abbenché ei più non esista. Siate dunque buono per me, vi prego, non mi dite più delle simili sciocchezze, e risparmiate una pena al mio cuore, nel togliermi l’idea che senza volerlo potei dar trista idea di me stessa a persona così disgraziata

Fanny, donna "famosa" per bellezza, innamorata della vita con malinconico piacere, amata con maggiore o minor fortuna da molti uomini, si svela donna di buon senso, lontana dal suscitare sogni irrealizzabili, concreta e sensibile, ma sempre animata da una certa ragionevolezza, con la quale affrontava la vita e le amicizie. E proprio in conto di questa ragionevolezza la Fanny non avrebbe mai potuto accettare l’amore di Leopardi, ma l’avrebbe sempre trattato con gentilezza e un certo affetto anche perché amico del bel napoletano del quale la donna aveva sentito un certo trasporto amoroso mai scaduto nella volgarità. Certamente la donna non negò al Leopardi l’affetto che viene dalla stima e forse anche per la pietà che derivava dalle sofferenze di cui era intessuta l’esistenza del poeta: ma di questo amore il Leopardi non sapeva che farsene.
         Di qui parte quell’idealizzazione che ritroviamo nel "ciclo di Aspasia", una idealizzazione che nasce anche dall’impaccio del poeta con le donne in generale e con Fanny in particolare, come risulta dalla lettera che le invia durante il soggiorno romano e che riportiamo integralmente:

Roma 5 dicembre [1831]
      Cara Fanny. Non vi ho scritto fin qui per non darvi noia, sapendo quanto siete occupata. Ma in fine non vorrei che il silenzio vi paresse dimenticanza, benché forse sappiate che il dimenticar voi non è facile. Mi pare che mi diceste un giorno, che spesso ai vostri amici migliori non rispondevate, agli altri sì, perché di quelli eravate sicura che non si offenderebbero, come gli altri del vostro silenzio. Fatemi tanto onore di trattarmi come uno de’ vostri migliori amici; e se siete molto occupata, e se lo scrivere vi affatica, non mi rispondete. Io desidero grandemente le vostre nuove, ma sarò contento di averne da Ranieri o dal Gozzani, ai quali ne domando.

         Delle nuove da me non credo che vi aspettiate. Sapete ch’io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gl’individui sono infelici sotto ogni forma di governo; colpa della natura che ha fatti gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici. Molto meno potrei parlarvi di notizie letterarie, perché vi confesso che sto in gran sospetto di perdere la cognizione delle lettere dell’abbiccì, mediante il disuso del leggere e dello scrivere. I miei amici si scandalizzano; ed essi hanno ragione di cercar gloria e di beneficare gli uomini; ma io che non presumo di beneficare, e che non aspiro alla gloria, non ho torto di passare la mia giornata disteso su un sofà, senza battere una palpebra. E trovo molto ragionevole l’usanza dei Turchi e degli altri Orientali, che si contentano di sedere sulle loro gambe tutto il giorno, e guardare stupidamente in viso questa ridicola esistenza.
         Ma io ho ben torto di scrivere queste cose a voi, che siete bella, e privilegiata dalla natura a risplendere nella vita, e trionfare del destino umano. So che ancor voi siete inclinata alla malinconia, come sono state sempre e come saranno in eterno tutte le anime gentili e d’ingegno. Ma con tutta sincerità, e non ostante la mia filosofia nera e disperata, io credo che a voi la malinconia non convenga, cioè che quantunque naturale, non sia del tutto ragionevole. – Almeno così vorrei che fosse.
        
Ho incontrata più volte la Contessa Mosti, la quale anche mi ha dato le vostre nuove. Addio, cara Fanny: salutatemi le bambine. Se vi degnate di comandarmi, sapete che a me, come agli altri che vi conoscono, è una gioia e una gloria il servirvi. Il vostro Leopardi.

È una lettera venata di impaccio e timidezza, che rivela una certa sottomissione che non sempre è sintomo evidente di amore. Noi pensiamo che la coscienza della propria deformità, le disillusioni provate negli anni precedenti e infine un bisogno di tenerezza raggelato dalla freddezza della madre, abbia provocato in Giacomo una profonda sfiducia in se stesso e inibito la naturalezza dei rapporti con le donne creando una sorta di timore di essere considerato ridicolo. Anche se la lontananza da Fanny durante il soggiorno romano gli fu quasi intollerabile, questo non lo si può capire né da questa lettera né dai pochi altri indizi che abbiamo.
         Tornato a Firenze la situazione inevitabilmente precipita. Leopardi le confessa il suo amore, forse mentre Ranieri si trovava a Bologna, impegnato in un amore burrascoso con una giovane attricetta, ma viene con molta gentilezza respinto. Pian piano si rende conto che il suo amore per Fanny non può e non sarà mai corrisposto. Si diradano le visite, non si scrivono più lettere. Sulla storia d'amore cade il silenzio.
         Certo per qualche momento la donna reale corrispose all'immagine che il poeta si era formata dentro di sé e il vero corrispose e si adeguò all'idea, creando una illusione quasi perfetta: il poeta amo l'Aspasia reale e le sue bellezze corporee: leggendo la poesia, cogliendo il lampo del ricordo dell'amore trascorso, un lampo comunque non venato d'angoscia, sentiamo ancora vivo questo ardore che non si spegne nemmeno di fronte al disinganno che non è solo quello creato da Aspasia/Fanny, ma dallo stesso disgraziato destino che ha determinato la sua vita.

Commento

         Il poeta distingue la donna dalla immagine che l'innamorato si forma dentro il suo animo; l'una e l'altra producono in lui effetti straordinari, come la musica. Il lampeggiare degli sguardi di una donna e dei suoi fuggevoli sorrisi che dicono e tacciono, che promettono e negano, creano quell'inganno inesplicabile nel quale l'uomo innamorato spera e quasi crede, restandone avvolto. Per qualche attimo l'illusione della perfetta corrispondenza tra l'immagine creata e la reale donna esistente si concretizza: Leopardi si innamora veramente di Fanny, ma Aspasia-Fanny è combattuta tra due sentimenti, quello del rispetto per un uomo che merita attenzione per il suo disgraziato destino, per la sua genialità e la sua poesia, e quello di un certo disgusto per una figura fisica che a tutto poteva mirare fuorché ad attirare fisicamente una donna: guardandolo Fanny mai avrebbe potuto un'immagine amorosa da conservare gelosamente dentro di sè.
         Per concludere riportiamo la parte finale di un breve saggio del critico Francesco Flora, pubblicato sulla Nuova Antologia nel 1928 col titolo Leopardi e "Aspasia"

         Io non credo sia di buon gusto scagliare invettive contro una donna che fu amata dal Leopardi solo perchè era bella e spirava piacere da tutta la persona. Il poeta stesso ammonirebbe forse che in ogni caso non è lecito incolparla. Se ella (a parte quel che della passione per Ranieri si rifletteva sul poeta) diede anche a Leopardi un poco della sua tenera civetteria, questo non è colpa; ma è anzi indizio di cordialità. E se infine ella, che non era stata restìa ad altri amori, non seppe concedersi al Leopardi, provocando magari ella stessa il timido amatore che ciò invocava nel segreto animo: se ella non seppe vincere nella sua sensibilità l'ostacolo che la deformità di lui poneva a quei "corporali amplessi" di cui con insolito ardore di accenti parla il poeta nel canto Aspasia, occorre dire che nell'incarnare la sua amorosa idea mostrò di avere il medesimo gusto che il Leopardi aveva nell'incarnare la propria, e cioè la bellezza della persona amata. Per questa parte l'una e l'altro erano su un medesimo piano. E come pel Leopardi una donna deforme o disgustante non sarebbe apparsa raggio divino: così per la Fanny non appariva degno d'amore il corpo del poeta.
         L'Aspasia, che è canto bellissimo, si svolge nondimeno sull'equivoco di quella "amorosa idea " ed "eccelsa imago" alla quale "sorge di rado il femminile ingegno" perchè "non cape in quelle anguste fronti ugual concetto ". Che concetto sia questo è impossibile dire: e tutto il canto leopardiano, a questo proposito, è piuttosto un gergo che una realtà. Ma se ci si volesse servire dell'Aspasia come di documento intorno ai rapporti tra Leopardi e la donna, ci si chiederebbe: che cosa doveva "capere" nell'angusta fronte della povera Fanny? Che una bella donna. per suprema spiritualità, deve dare il suo corpo ad un grande poeta, per lei fisicamente repugnante, mostrando così d'aver compresa l'anima innamorata di lui? O perchè il corpo di Fanny doveva servire all'anima del Leopardi? Certi rapporti è meglio che se li vedano le anime tra loro! Ahimè: se Leopardi avesse potuto davvero dare un significato a quella platonica sua idea amorosa, avrebbe potuto incarnarla persino in una vecchia donna e gibbosa. Ma ciò non fu, chè la "celeste imago" era tutta senso, ed era, prima e dopo, nè più nè meno, Aspasia in persona, la Fanny: non certo l'inesistente "Diva". E d'altra parte non erano egualmente anguste le fronti degli uomini che non sapevano incarnare la loro idea amorosa nella deforme Saffo? Leopardi stesso ha detto il supremo canto di quella infelice.
         In ogni caso, anche come documento, il canto Aspasia bell poco illuminerebbe sui rapporti tra Fanny, e Leopardi. S'è visto come la Fanny si difende dall'accusa di essersi fatto gioco del Leopardi. Le dicerie per le quali ella avrebbe riso dell'infelice adoratore, vanno, io credo, ricondotte al circolo in cui si svolsero tra le ironiche insinuazioni degli amici: forse ella rise per difendere la sua civetteria di bella donna a cui si attribuiva un amante così disgraziato nel corpo. Più tardi forse, quando, morto il poeta, i biografi di lui si accanirono a parlare di lei come della donna che aveva provocato il canto Aspasia, ella dovette irritarsi: e con una certa curiosa asprezza di donna offesa, non volle già difendersi, ma quasi spregiare tutti coloro che in fondo le facevan colpa di non aver fatto sacrificio della sua persona al dolore di un poeta deforme. Una donna che passava per facile amatrice, e che si diceva avesse accolto nella sua intimità molti amanti, avrebbe potuto aggiungere con orgoglio a quelli degli altri amatori, il nome di un uomo qual'era il Leopardi; perchè, sebbene egli non fosse abbastanza conosciuto dai suoi stessi ammiratori, era tuttavia stimato come uno dei più illustri ingegni d'Italia: or se ella non invitò o se respinse questo amore, bisogna dire che i suoi sensi si ribellarono. I critici e le signorine romantiche l'accusavan dunque di non aver voluto portare quella croce gloriosa: ella se ne dovette sdegnare e, per reazione, disse con insolita e quasi arrogante schiettezza, perchè non era stata l'amante di Leopardi; disse perchè aveva rifiutato quell'eroismo che sembra oggi così facile e anzi ambitissimo alle donne che leggono i versi del Leopardi e idealizzano la figura fisica di lui in quella aerea ed effusa e odorosa della poesia. Raccontava infatti Matilde Serao d'aver conosciuto da giovinetta, la donna che tanta passione ispirò a Leopardi: e di averle chiesto con la romantica semplicità dell'adolescenza come avesse potuto resistere a un uomo quale Leopardi! A lei la Fanny rispose molto semplicemente: - Mia cara, puzzava.
         Tutto ciò parrà sconveniente: ma è umano. Le parole della povera Fanny sono in fondo una legittima protesta contro i biografi del Leopardi che avevan curiose esigenze e le chiedevan conto di cose in cui non avevano il minimo diritto: con qual principio infatti, si vuole imporre alla virtù di una donna (e qual virtù poi, in richiesta così scabrosa qual'era quella, tacita o espressa del Leopardi!) il coraggio di un amore dei sensi che proprio ai sensi ripugna? L'altro amore, l'affetto che vien dalla stima e forse dalla generosa pietà per le sofferenze, la Fanny non negò al Leopardi; ma di quello il Leopardi non sapeva che farsene, troppo il suo genio soprastava alla stima che i più dei suoi ammiratori (uomini e donne) facevan di liti, e troppo egli era orgoglioso per accettare una compassione di spiriti inferiori al suo.
         Infine tutto ciò riguarda la biografia del Leopardi e tocca solo della sua vita mortale. In un terreno biografico, non c'è motivo di dar più ragione a lui che alla signora Fanny: e, dopo tutto, costei fu troppo calunniata. La poesia del Leopardi sollevandosi sulle piccole vicende quotidiane, è sublimazione di un alto dolore e soprattutto di quella gioia del mondo che, invano negata, fu il più umano desiderio del poeta, e diede ala al suo canto. Anche Aspasia è un'invenzione lirica che sorge su un desiderio di gioia.


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© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 05 aprile 1999