Giuseppe Bonghi
INTRODUZIONE
XXXIII - IL TRAMONTO DELLA
LUNA
DI GIACOMO LEOPARDI
Creazione: Composta dopo La ginestra a Villa Ferrigni (in Torre del Greco) nella
primavera del 1836; secondo il Mestica "dopo il mese di maggio
e finito il 14 giugno 1837", cioè il giorno della sua morte; secondo Enrico
Guglielmo Schulz, coetaneo del Leopardi e suo ammiratore, scrisse (nell'opera "G.L. la sua vita e la sua opera" pubblicata a Berlino
nel 1840) che Leopardi compose due ore prima di morire gli ultimi sei versi di questo
canto, i quali sono perciò le parole estreme dettate dal poeta.
"N'è conferma, scrive Alfredo Straccali nel 1910, il ms. di questo canto che tra le carte napoletane si conserva autografo,
meno gli ultimi versi i quali sono in altro foglio scritti dalla mano del Ranieri"
- Il canto fu pubblicato per la prima volta da Ranieri nell'edizione fiorentina della
Lemonnier del 1845.
I sei ultimi versi non sono di mano del
Leopardi, ma del Ranieri: quando e da chi sono stati realmente scritti? Quasi nessuno
contesta la paternità di Leopardi, anche se viene avanzato qualche dubbio analizzando la
costruzione dei versi e la successione delle rime, così atipica nella poesia leopardiana.
Molti critici, comunque, non accettano per valida l'idea che essi siano stati dettati da
Leopardi a Ranieri circa due ore prima della morte, ma che questi abbia ricopiato i versi,
su richiesta del Leopardi alla vigilia o il giorno stesso della morte (secondo la
testimonianza del tedesco Schulz) presenti su una carta a se stante, mentre la carta
originale, che avrebbe dovuto contenerli, risulta mancante.
Metro
: Strofe libere con rime al mezzo. Le quattro strofe di cui si compone il canto sono di lunghezza quasi uguale; i versi rimati sono 42, quelli senza rima sono 26; eguale il numero dei settenari e degli endecasillabi: 34. I sei ultimi versi, quelli di mano del Ranieri, presentano il seguente schema: ABB, CdD.Tema centrale
Scende la notte: il
giorno è finito la vita ormai è oscura, mentre sono ormai dileguate le speranze dolce
della giovinezza, e l'uomo, come un confuso viandante, è giunto ormai al fine del suo
viaggio, cercando invano davanti a sè, nell'orizzonte ormai oscuro la meta del suo
viaggio. Scende la notte sulla terra, come dopo la giovinezza scende la vecchiaia nella
vita dell'uomo; ma mentre questa rivedrà di lì a poco la luce del sole inondare colline
e pianure, l'uomo, persa la giovinezza e le ingannevoli speranze che l'accompagnavano, non
vedrà mai altra alba o sorgere un altro sole con altri piacevoli inganni: all'oscurità
della notte succede il giorno mentre al buio della vecchiaia succede come unica ed ultima
meta la morte. Come in Silvia, il canto della giovinezza perduta, anche qui abbiamo come
ultimo concetto la morte e la tomba: allora Silvia additava con la fredda mano al poeta
una tomba ignuda, ora è il poeta che sa ormai che la tomba ignuda è la meta che alla
vecchiaia hanno riservato gli Dei.
Il vero male dell'uomo, comunque, non è
la morte, ma la vecchiaia, perché in essa ancora durasse il desiderio giovanile, ma è
venuta meno la speranza, e si sono disseccate le fonti del piacere e sono aumentate le
pene, mentre la felicità è diventata un irrealizzabile sogno. La realtà dolorosa non
diventa comunque mai angoscia, ma accettazione senza asprezza del destino della morte,
anche se un leggero sarcasmo lo possiamo ritrovare nei versi 44/45 "D'intelletti
immortali / Degno trovato", un sarcasmo subito calato nella triste realtà della
vecchiaia caratterizzata da desideri ancora intatti e nel contempo dall'impossibilità di
realizzare quei desideri. Ma gli Dei sono immortali, ignari della morte e incapaci di
vedere la morte come male: per questo anche per il poeta la morte non è fonte di male,
ma, insieme all'amore, l'unico vero bene di ogni essere mortale.
struttura
parte prima vv. 1-19 |
parte seconda vv. 20-33 |
parte terza vv. 34-50 |
parte quarta vv. 51-68 |
Prima parte della similitudine: finisce la giornata, il sole tramonta e arriva la fioca luce della luna che inargenta il mondo mentre l'oscurità lo invade |
l'uomo viandante che vive una vita senza la giovinezza e i suoi ameni inganni è come il carrettiere che va per una via ormai non più illuminata ma piena di tenebre |
dileguata la giovinezza, abbandonata e oscura resta la vita, perché l'uomo dopo questa età comincia subito a scadere e a perdere il suo vigore entrando presto nella vecchiaia |
Mentre la terra vedrà comunque ancora sorgere l'alba e di nuovo il sole, la vecchiaia dell'uomo non vedrà mai un'altra aurora, ma lo attende ormai solamente la morte. |
Come in una notte solitaria, sopra campagne illuminate dall'argentea luce della luna, là dove spira lo zefiro e le ombre lontane fingono mille vaghi aspetti e ingannevoli oggetti fra le onde tranquille, e fra i rami e le siepi e le collinette e le ville; giunta all'orizzonte, al confine del cielo, scende la luna dietro l'Appennino o le Alpi o nel seno infinito del Tirreno; il mondo si scolora; le ombre spariscono mentre l'oscurità imbruna la valle e il monde; priva di luce resta la notte, mentre cantando con triste e dolente melodia il carrettiere saluta l'ultimo guizzare della morente luce che fino a qualche momento prima gli aveva illuminato la via; |
così, come la luce del sole, si dilegua la giovinezza lasciando la vita umana. In fuga vanno le ombre e le sembianze e le dilettose immagini, che sono un inganno della vita mentre vengono meno le lontane speranze che sono il sostegno e l'appoggio delle creature umane. Abbandonata e oscura resta la vita. Stendendo avanti lo sguardo, nella vita, il viandante confuso e smarrito cerca la meta o la ragione lontana della sua vita; e vede che è diventato ormai estraneo e indifferente alla terra, come questa è diventata estranea a lui. |
Troppo felice e lieta la nostra misera sorte parve in cielo, se la condizione giovanile condizione, in cui ogni bene è frutto di mille pene, durasse per tutto il corso della vita. Troppo mite decreto sembrò quello che condannava a un destino di morte ogni essere umano, se inoltre prima di morire se anche durante il corso della vita non dovesse patire qualche prova assai più dura della morte. Gli Eterni ritrovarono la vecchiaia, degna invenzione di intelletti immortali, nella quale tuttavia durasse ancora il desiderio, ma venisse meno la speranza, fossero disseccate le fonti del piacere e aumentassero sempre più le pene, e non più dato il bene e la felicità. |
Voi, collinette e pianure, caduto l'ultimo splendore che verso occidente inargentava il velo della notte, non resterete ancora per molto tempo prive di luce; che dall'altra parte, da oriente, presto vedrete nuovamente il cielo imbiancarsi e illuminarsi e sorger l'alba, alla quale poi segue il sole che sfolgorando intorno con la sua luce possente illuminerà i campi celesti e la terra. Ma la vita mortale, dopo che la giovinezza svanì, mai si colorerà illuminandosi d'altra luce, nè d'altra aurora. Vedova resterà fino alla morte; ed alla buia notte della vecchiaia, che oscura tutte le altre età, gli Dei posero come meta finale la sepoltura. |
La luna
La luna rappresenta
simbolicamente la vita, sia per quanto riguarda l'esistenza quotidiana di tutti gli esseri
umani, sia per quanto riguarda la partecipazione dell'uomo a quel qualcosa di indefinito e
di divino che l'uomo non potrà mai capire su questa terra. Quel qualcosa di divino è
appunto il senso dell'infinito, dell'eterno, di tutto ciò che non è soggetto alla morte.
È singolare che nello Zibaldone la luna è nominata solo 7 volte e l'ultima nel 1822 (il
3 agosto). Il momento più significativo è quando parla della teoria del piacere nel 1821
"Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra
come degli oggetti veduti per metà, o con certi impedimenti ec. ci destino idee
indefinite, si spiega perchè piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo
dov'essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte
illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce, e i vari effetti materiali che ne
derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov'ella divenga incerta e impedita, e non
bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi" (20 settembre 1821).
Un conto è la presenza della luna nello
Zibaldone, vista come un elemento decorativo o che scatena qualche sensazione nell'animo
per la eccezionalità della situazione, ma rimane una presenza estranea, un oggetto da
vedere più che contemplare; un altro conto è la presennza nei Canti, una presenza che è
sempre simbolizzata e trasfigurata, quasi una presenza amica e consolatrice, una divinità
che conosce la realtà dell'universo e dell'eternità, una presenza rassicurante dopo
l'angoscia generata dalla coscienza del reale contrapposto all'eterno. Nello Zibaldone è una presenza fisica, che inargente e crea un
misterioso intrecciarsi di immagini e di ombre, nel Canti è una presenza attiva, l'Essere
con cui dialogare e confidarsi in dolce abbandono superando comunque l'infelicità del
vivere quotidiano.
Nella tabella seguente riportiamo tutte
le volte che la luna ricorre nei Canti, dove compare per 22 volte, talora
più volte nello stesso Canto:
per 14 volte la luna è accompagnata da un aggettivo, per otto no: candida, aurea, cadente, graziosa, diletta, cara, tacita, silenziosa, vergine, intatta, candida, recente, questa, rugiadosa:
Bruto Minore | 1) E tu dal mar cui nostro sangue irriga, Candida luna, sorgi, E l'inquieta notte e la funesta All'ausonio valor campagna esplori. |
Inno ai Patriarchi | 2) e gl'inarati colli Solo e muto ascendea l'aprico raggio Di febo e l'aurea luna. |
Ultimo canto di Saffo | 3) Placida notte, e verecondo raggio Della cadente luna; |
La sera del dì di festa | 4) Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. |
Alla luna | 5) O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l'anno, sovra questo colle Io venia pien d'angoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. 6) |
La vita solitaria | 7) O cara luna, al cui tranquillo raggio 70 Danzan le lepri nelle selve; e duolsi Alla mattina il cacciator, che trova L'orme intricate e false, e dai covili Error vario lo svia; salve, o benigna Delle notti reina. Infesto scende 75 Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro A deserti edifici, in su l'acciaro Del pallido ladron ch'a teso orecchio Il fragor delle rote e de' cavalli Da lungi osserva o il calpestio de' piedi 80 Su la tacita via; poscia improvviso Col suon dell'armi e con la rauca voce E col funereo ceffo il core agghiaccia Al passegger, cui semivivo e nudo Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre 85 Per le contrade cittadine il bianco Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi Va radendo le mura e la secreta Ombra seguendo, e resta, e si spaura |
Al Conte Carlo Pepoli | 8) Or quando al tutto irrigidito e freddo Questo petto sarà, nè degli aprichi Campi il sereno e solitario riso, Nè degli augelli mattutini il canto 130 Di primavera, nè per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna Commoverammi il cor; |
Il risorgimento | 9) Deserto il dì; la tacita Notte più sola e bruna; Spenta per me la luna, Spente le stelle in ciel. |
Canto noturno | 10-11) Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga 5 Di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli? 12) 13) 14) 15) |
Il sabato del villaggio | 16) Già tutta l'aria imbruna, Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre Giù da' colli e da' tetti, Al biancheggiar della recente luna. |
Odi Melisso | 17-18-19) Odi, Melisso: io vo' contarti un sogno Di questa notte, che mi torna a mente In riveder la luna. Io me ne stava Alla finestra che risponde al prato, Guardando in alto: ed ecco all'improvviso 5 Distaccasi la luna; e mi parea Che quanto nel cader s'approssimava, Tanto crescesse al guardo; infin che venne A dar di colpo in mezzo al prato; ed era Grande quanto una secchia, e di scintille 10 Vomitava una nebbia, che stridea Sì forte come quando un carbon vivo Nell'acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo La luna, come ho detto, in mezzo al prato Si spegneva annerando a poco a poco, 15 E ne fumavan l'erbe intorno intorno. 19) MELISSO 20) |
Spento il diurno raggio | 21) In questa ombra giacea la valle bruna, E i collicelli intorno rivestia Del suo candor la rugiadosa luna. 22) |
La luna assume, quindi un'importanza singolare: da un lato, e in piccola parte, è un punto di riferimento realistico, ma dall'altra è la più grande allegoria della vita nella poesia leopardiana (messa in risalto in questo canto dalla funzione illuminante del sole, e ha la funzione proprio di creare il contrappunto tra la vita umana e quella universale e ultraumana o eterna. Possiamo creare il seguente schema
metafora della natura |
metafora della vita umana |
luce ingannevole della luna breve corso della luce lunare |
dilettosi inganni della giovinezza breve corso della giovinezza |
oscurità e buio della notte |
oscurità e buio della vecchiaia |
ritorno della luminosita del sole |
la morte |
Ma lo schema non presenta corrispondenze esatte: la morte non può corrispondere al ritorno della luminosità del sole (se non in una concezione cristiana che non appartiene comunque al Leopardi). La successione della natura si presenta nello schema rovesciato e opposto rispetto alla vita umana: la giovinezza che dovrebbe corrispondere alla luminosità del sole occupa un breve spazio dell'esistenza umana e la morte rappresenta per sempre la fine di tutto.Se nella metafora della natura l'eternità è rappresentata dall'infinito ripetersi ciclico di luce e di buio, nell'esistenza umana l'eternità è rappresentata dalla morte che è il punto di non ritorno definitivo e per sempre.
Commento
Questo è l'idillio della morte, della coscienza di un lento morire che "gli Dei" hanno decretato per tutti gli essere viventi, nella loro immensa saggezza e amore per l'uomo, che pure hanno creato; ma per l'uomo questa condizione finale è aggravata da una "anticipazione" della morte, da vivere per buona parte durante l'esistenza stessa: la vecchiaia. La giovinezza abbraccia solamente un terzo della vita umana: il resto è un lento e costante decadere di tutte le qualità vitali, che restano vive a livello di desiderio ma non sono supportate da una forza tale che le possa realizzare, per cui lentamente muoiono le fonti stesse del piacere.
Dal momento della fine dell'amore per Fanny-Aspasia e la caduta dell'"inganno estremo", nel cuore di Leopardi è rimasta come "la traccia di un lutto. Nel disamoramento la morte non gli appariva più una divinità soccorrevole, bella e pietosa, ma una forza annientatrice, ambiguamente imparentata con il mistero eterno dell'esser nostro" (Damiani 451).
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 01 aprile 1999