Dante Alighieri

LA DIVINA COMMEDIA

PARADISO

Canto XIII

mercoledì 13 aprile Cielo IV: Sole 
Intelligenze motrici: Potestà
Tommaso d'Aquino Spiriti sapienti: fulgori che, disposti in tre corone concentriche, danzano e cantano intorno a Beatrice e Dante.  
Invito ad essere prudenti e polemica contro coloro che frettolosamente e superficialmente giudicano gli altri e i loro comportamenti.
Comincia il canto decimoterzo del Paradiso. Nel quale l'autore mostra come san Tommaso d'Aquino gli chiarisse quello che di Salamon detto avea: non surse il secondo.
       Imagini, chi bene intender cupe 
quel ch'i' or vidi - e ritegna l'image, 
mentre ch'io dico, come ferma rupe -, 
       quindici stelle che 'n diverse plage 
lo ciel avvivan di tanto sereno 
che soperchia de l'aere ogne compage; 
       imagini quel carro a cu' il seno 
basta del nostro cielo e notte e giorno, 
sì ch'al volger del temo non vien meno; 
       imagini la bocca di quel corno 
che si comincia in punta de lo stelo 
a cui la prima rota va dintorno, 
       aver fatto di sé due segni in cielo, 
qual fece la figliuola di Minoi 
allora che sentì di morte il gelo; 
       e l'un ne l'altro aver li raggi suoi, 
e amendue girarsi per maniera 
che l'uno andasse al primo e l'altro al poi; 
       e avrà quasi l'ombra de la vera 
costellazione e de la doppia danza 
che circulava il punto dov'io era: 
       poi ch'è tanto di là da nostra usanza, 
quanto di là dal mover de la Chiana 
si move il ciel che tutti li altri avanza. 
       Lì si cantò non Bacco, non Peana, 
ma tre persone in divina natura, 
e in una persona essa e l'umana. 
       Compié 'l cantare e 'l volger sua misura; 
e attesersi a noi quei santi lumi, 
felicitando sé di cura in cura. 
       Ruppe il silenzio ne' concordi numi 
poscia la luce in che mirabil vita 
del poverel di Dio narrata fumi, 
       e disse: «Quando l'una paglia è trita, 
quando la sua semenza è già riposta, 
a batter l'altra dolce amor m'invita. 
       Tu credi che nel petto onde la costa 
si trasse per formar la bella guancia 
il cui palato a tutto 'l mondo costa, 
       e in quel che, forato da la lancia, 
e prima e poscia tanto sodisfece, 
che d'ogne colpa vince la bilancia, 
       quantunque a la natura umana lece 
aver di lume, tutto fosse infuso 
da quel valor che l'uno e l'altro fece; 
       e però miri a ciò ch'io dissi suso, 
quando narrai che non ebbe 'l secondo 
lo ben che ne la quinta luce è chiuso. 
       Or apri li occhi a quel ch'io ti rispondo, 
e vedrai il tuo credere e 'l mio dire 
nel vero farsi come centro in tondo. 
       Ciò che non more e ciò che può morire 
non è se non splendor di quella idea 
che partorisce, amando, il nostro Sire; 
       ché quella viva luce che sì mea 
dal suo lucente, che non si disuna 
da lui né da l'amor ch'a lor s'intrea, 
       per sua bontate il suo raggiare aduna, 
quasi specchiato, in nove sussistenze, 
etternalmente rimanendosi una. 
       Quindi discende a l'ultime potenze 
giù d'atto in atto, tanto divenendo, 
che più non fa che brevi contingenze; 
       e queste contingenze essere intendo 
le cose generate, che produce 
con seme e sanza seme il ciel movendo. 
       La cera di costoro e chi la duce 
non sta d'un modo; e però sotto 'l segno 
ideale poi più e men traluce. 
       Ond'elli avvien ch'un medesimo legno, 
secondo specie, meglio e peggio frutta; 
e voi nascete con diverso ingegno. 
       Se fosse a punto la cera dedutta 
e fosse il cielo in sua virtù supprema, 
la luce del suggel parrebbe tutta; 
       ma la natura la dà sempre scema, 
similemente operando a l'artista 
ch'a l'abito de l'arte ha man che trema. 
       Però se 'l caldo amor la chiara vista 
de la prima virtù dispone e segna, 
tutta la perfezion quivi s'acquista. 
       Così fu fatta già la terra degna 
di tutta l'animal perfezione; 
così fu fatta la Vergine pregna; 
       sì ch'io commendo tua oppinione, 
che l'umana natura mai non fue 
né fia qual fu in quelle due persone. 
       Or s'i' non procedesse avanti piùe, 
'Dunque, come costui fu sanza pare?' 
comincerebber le parole tue. 
       Ma perché paia ben ciò che non pare, 
pensa chi era, e la cagion che 'l mosse, 
quando fu detto "Chiedi", a dimandare. 
       Non ho parlato sì, che tu non posse 
ben veder ch'el fu re, che chiese senno 
acciò che re sufficiente fosse; 
       non per sapere il numero in che enno 
li motor di qua sù, o se necesse 
con contingente mai necesse fenno; 
       non si est dare primum motum esse
o se del mezzo cerchio far si puote 
triangol sì ch'un retto non avesse. 
       Onde, se ciò ch'io dissi e questo note, 
regal prudenza è quel vedere impari 
in che lo stral di mia intenzion percuote; 
       e se al "surse" drizzi li occhi chiari, 
vedrai aver solamente respetto 
ai regi, che son molti, e ' buon son rari. 
       Con questa distinzion prendi 'l mio detto; 
e così puote star con quel che credi 
del primo padre e del nostro Diletto. 
       E questo ti sia sempre piombo a' piedi, 
per farti mover lento com'uom lasso 
e al sì e al no che tu non vedi: 
       ché quelli è tra li stolti bene a basso, 
che sanza distinzione afferma e nega 
ne l'un così come ne l'altro passo; 
       perch'elli 'ncontra che più volte piega 
l'oppinion corrente in falsa parte, 
e poi l'affetto l'intelletto lega. 
       Vie più che 'ndarno da riva si parte, 
perché non torna tal qual e' si move, 
chi pesca per lo vero e non ha l'arte. 
       E di ciò sono al mondo aperte prove 
Parmenide, Melisso e Brisso e molti, 
li quali andaro e non sapean dove; 
       sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti 
che furon come spade a le Scritture 
in render torti li diritti volti. 
       Non sien le genti, ancor, troppo sicure 
a giudicar, sì come quei che stima 
le biade in campo pria che sien mature; 
       ch'i' ho veduto tutto 'l verno prima 
lo prun mostrarsi rigido e feroce; 
poscia portar la rosa in su la cima; 
       e legno vidi già dritto e veloce 
correr lo mar per tutto suo cammino, 
perire al fine a l'intrar de la foce. 
       Non creda donna Berta e ser Martino, 
per vedere un furare, altro offerere, 
vederli dentro al consiglio divino; 
       ché quel può surgere, e quel può cadere».
 
 

 
 

 
 
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 Canto XIV

mercoledì 13 aprile Cielo IV: Sole 
Intelligenze motrici: Potestà  
Cielo V: Marte 
Intelligenze motrici: Virtù
Salomone Spiriti sapienti: fulgori che, disposti in tre corone concentriche, danzano e cantano intorno a Beatrice e Dante  
Spiriti militanti: scorrono cantando come gemme luminose lungo i bracci di una croce su cui lampeggia la figura di Cristo.
Comincia il canto decimoquarto del Paradiso. Nel quale primieramente l'autore mostra come chiarito fosse come, dopo la universale resurrezione, i santi avranno quello medesimo splendore che al presente hanno, e forza visiva a riguardarlo; e appresso come, nel quinto cielo salito, vide in quello una croce, e in quella lampeggiar Cristo.
       Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro 
movesi l'acqua in un ritondo vaso, 
secondo ch'è percosso fuori o dentro: 
       ne la mia mente fé sùbito caso 
questo ch'io dico, sì come si tacque 
la glorïosa vita di Tommaso, 
       per la similitudine che nacque 
del suo parlare e di quel di Beatrice, 
a cui sì cominciar, dopo lui, piacque: 
       «A costui fa mestieri, e nol vi dice 
né con la voce né pensando ancora, 
d'un altro vero andare a la radice. 
       Diteli se la luce onde s'infiora 
vostra sustanza, rimarrà con voi 
etternalmente sì com'ell'è ora; 
       e se rimane, dite come, poi 
che sarete visibili rifatti, 
esser porà ch'al veder non vi nòi». 
       Come, da più letizia pinti e tratti, 
a la fiata quei che vanno a rota 
levan la voce e rallegrano li atti, 
       così, a l'orazion pronta e divota, 
li santi cerchi mostrar nova gioia 
nel torneare e ne la mira nota. 
       Qual si lamenta perché qui si moia 
per viver colà sù, non vide quive 
lo refrigerio de l'etterna ploia. 
       Quell'uno e due e tre che sempre vive 
e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno, 
non circunscritto, e tutto circunscrive, 
       tre volte era cantato da ciascuno 
di quelli spirti con tal melodia, 
ch'ad ogne merto saria giusto muno. 
       E io udi' ne la luce più dia 
del minor cerchio una voce modesta, 
forse qual fu da l'angelo a Maria, 
       risponder: «Quanto fia lunga la festa 
di paradiso, tanto il nostro amore 
si raggerà dintorno cotal vesta. 
       La sua chiarezza séguita l'ardore; 
l'ardor la visione, e quella è tanta, 
quant'ha di grazia sovra suo valore. 
       Come la carne gloriosa e santa 
fia rivestita, la nostra persona 
più grata fia per esser tutta quanta; 
       per che s'accrescerà ciò che ne dona 
di gratuito lume il sommo bene, 
lume ch'a lui veder ne condiziona; 
       onde la vision crescer convene, 
crescer l'ardor che di quella s'accende, 
crescer lo raggio che da esso vene. 
       Ma sì come carbon che fiamma rende, 
e per vivo candor quella soverchia, 
sì che la sua parvenza si difende; 
       così questo folgór che già ne cerchia 
fia vinto in apparenza da la carne 
che tutto dì la terra ricoperchia; 
       né potrà tanta luce affaticarne: 
ché li organi del corpo saran forti 
a tutto ciò che potrà dilettarne». 
       Tanto mi parver sùbiti e accorti 
e l'uno e l'altro coro a dicer «Amme!», 
che ben mostrar disio d'i corpi morti: 
       forse non pur per lor, ma per le mamme, 
per li padri e per li altri che fuor cari 
anzi che fosser sempiterne fiamme. 
       Ed ecco intorno, di chiarezza pari, 
nascere un lustro sopra quel che v'era, 
per guisa d'orizzonte che rischiari. 
       E sì come al salir di prima sera 
comincian per lo ciel nove parvenze, 
sì che la vista pare e non par vera, 
       parvemi lì novelle sussistenze 
cominciare a vedere, e fare un giro 
di fuor da l'altre due circunferenze. 
       Oh vero sfavillar del Santo Spiro! 
come si fece sùbito e candente 
a li occhi miei che, vinti, nol soffriro! 
       Ma Beatrice sì bella e ridente 
mi si mostrò, che tra quelle vedute 
si vuol lasciar che non seguir la mente. 
       Quindi ripreser li occhi miei virtute 
a rilevarsi; e vidimi translato 
sol con mia donna in più alta salute. 
       Ben m'accors'io ch'io era più levato, 
per l'affocato riso de la stella, 
che mi parea più roggio che l'usato. 
       Con tutto 'l core e con quella favella 
ch'è una in tutti, a Dio feci olocausto, 
qual conveniesi a la grazia novella. 
       E non er'anco del mio petto essausto 
l'ardor del sacrificio, ch'io conobbi 
esso litare stato accetto e fausto; 
       ché con tanto lucore e tanto robbi 
m'apparvero splendor dentro a due raggi, 
ch'io dissi: «O Eliòs che sì li addobbi!». 
       Come distinta da minori e maggi 
lumi biancheggia tra ' poli del mondo 
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi; 
       sì costellati facean nel profondo 
Marte quei raggi il venerabil segno 
che fan giunture di quadranti in tondo. 
       Qui vince la memoria mia lo 'ngegno; 
ché quella croce lampeggiava Cristo, 
sì ch'io non so trovare essempro degno; 
       ma chi prende sua croce e segue Cristo, 
ancor mi scuserà di quel ch'io lasso, 
vedendo in quell'albor balenar Cristo. 
       Di corno in corno e tra la cima e 'l basso 
si movien lumi, scintillando forte 
nel congiugnersi insieme e nel trapasso: 
       così si veggion qui diritte e torte, 
veloci e tarde, rinovando vista, 
le minuzie d'i corpi, lunghe e corte, 
       moversi per lo raggio onde si lista 
talvolta l'ombra che, per sua difesa, 
la gente con ingegno e arte acquista. 
       E come giga e arpa, in tempra tesa 
di molte corde, fa dolce tintinno 
a tal da cui la nota non è intesa, 
       così da' lumi che lì m'apparinno 
s'accogliea per la croce una melode 
che mi rapiva, sanza intender l'inno. 
       Ben m'accors'io ch'elli era d'alte lode, 
però ch'a me venìa «Resurgi» e «Vinci» 
come a colui che non intende e ode. 
       Io m'innamorava tanto quinci, 
che 'nfino a lì non fu alcuna cosa 
che mi legasse con sì dolci vinci. 
       Forse la mia parola par troppo osa, 
posponendo il piacer de li occhi belli, 
ne' quai mirando mio disio ha posa; 
       ma chi s'avvede che i vivi suggelli 
d'ogne bellezza più fanno più suso, 
e ch'io non m'era lì rivolto a quelli, 
       escusar puommi di quel ch'io m'accuso 
per escusarmi, e vedermi dir vero: 
ché 'l piacer santo non è qui dischiuso, 
       perché si fa, montando, più sincero.
 
 

 
 

 
 
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 Canto XV

mercoledì 13 aprile Cielo V: Marte 
Intelligenze motrici: Virtù
Cacciaguida Spiriti militanti: scorrono cantando come gemme luminose lungo i bracci di una croce su cui lampeggia la figura di Cristo.
Comincia il canto decimoquinto del Paradiso. Nel quale l'autore mostra come con festa ricevuto fosse da messer Cacciaguida, suo antico, e come da lui udisse certe cose degli antichi costumi fiorentini, e dove e a che tempo nascesse, e dove abitasse, e poi morisse.
       Benigna volontade in che si liqua 
sempre l'amor che drittamente spira, 
come cupidità fa ne la iniqua, 
       silenzio puose a quella dolce lira, 
e fece quietar le sante corde 
che la destra del cielo allenta e tira. 
       Come saranno a' giusti preghi sorde 
quelle sustanze che, per darmi voglia 
ch'io le pregassi, a tacer fur concorde? 
       Bene è che sanza termine si doglia 
chi, per amor di cosa che non duri, 
etternalmente quello amor si spoglia. 
       Quale per li seren tranquilli e puri 
discorre ad ora ad or sùbito foco, 
movendo li occhi che stavan sicuri, 
       e pare stella che tramuti loco, 
se non che da la parte ond'e' s'accende 
nulla sen perde, ed esso dura poco: 
       tale dal corno che 'n destro si stende 
a piè di quella croce corse un astro 
de la costellazion che lì resplende; 
       né si partì la gemma dal suo nastro, 
ma per la lista radial trascorse, 
che parve foco dietro ad alabastro. 
       Sì pia l'ombra d'Anchise si porse, 
se fede merta nostra maggior musa, 
quando in Eliso del figlio s'accorse. 
       «O sanguis meus, o superinfusa 
gratia Dei, sicut tibi cui 
bis unquam celi ianua reclusa
?». 
       Così quel lume: ond'io m'attesi a lui; 
poscia rivolsi a la mia donna il viso, 
e quinci e quindi stupefatto fui; 
       ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso 
tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo 
de la mia gloria e del mio paradiso. 
       Indi, a udire e a veder giocondo, 
giunse lo spirto al suo principio cose, 
ch'io non lo 'ntesi, sì parlò profondo; 
       né per elezion mi si nascose, 
ma per necessità, ché 'l suo concetto 
al segno d'i mortal si soprapuose. 
       E quando l'arco de l'ardente affetto 
fu sì sfogato, che 'l parlar discese 
inver' lo segno del nostro intelletto, 
       la prima cosa che per me s'intese, 
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno, 
che nel mio seme se' tanto cortese!». 
       E seguì: «Grato e lontano digiuno, 
tratto leggendo del magno volume 
du' non si muta mai bianco né bruno, 
       solvuto hai, figlio, dentro a questo lume 
in ch'io ti parlo, mercè di colei 
ch'a l'alto volo ti vestì le piume. 
       Tu credi che a me tuo pensier mei 
da quel ch'è primo, così come raia 
da l'un, se si conosce, il cinque e 'l sei; 
       e però ch'io mi sia e perch'io paia 
più gaudioso a te, non mi domandi, 
che alcun altro in questa turba gaia. 
       Tu credi 'l vero; ché i minori e ' grandi 
di questa vita miran ne lo speglio 
in che, prima che pensi, il pensier pandi; 
       ma perché 'l sacro amore in che io veglio 
con perpetua vista e che m'asseta 
di dolce disiar, s'adempia meglio, 
       la voce tua sicura, balda e lieta 
suoni la volontà, suoni 'l disio, 
a che la mia risposta è già decreta!». 
       Io mi volsi a Beatrice, e quella udio 
pria ch'io parlassi, e arrisemi un cenno 
che fece crescer l'ali al voler mio. 
       Poi cominciai così: «L'affetto e 'l senno, 
come la prima equalità v'apparse, 
d'un peso per ciascun di voi si fenno, 
       però che 'l sol che v'allumò e arse, 
col caldo e con la luce è sì iguali, 
che tutte simiglianze sono scarse. 
       Ma voglia e argomento ne' mortali, 
per la cagion ch'a voi è manifesta, 
diversamente son pennuti in ali; 
       ond'io, che son mortal, mi sento in questa 
disagguaglianza, e però non ringrazio 
se non col core a la paterna festa. 
       Ben supplico io a te, vivo topazio 
che questa gioia preziosa ingemmi, 
perché mi facci del tuo nome sazio». 
       «O fronda mia in che io compiacemmi 
pur aspettando, io fui la tua radice»: 
cotal principio, rispondendo, femmi. 
       Poscia mi disse: «Quel da cui si dice 
tua cognazione e che cent'anni e piùe 
girato ha 'l monte in la prima cornice, 
       mio figlio fu e tuo bisavol fue: 
ben si convien che la lunga fatica 
tu li raccorci con l'opere tue. 
       Fiorenza dentro da la cerchia antica, 
ond'ella toglie ancora e terza e nona, 
si stava in pace, sobria e pudica. 
       Non avea catenella, non corona, 
non gonne contigiate, non cintura 
che fosse a veder più che la persona. 
       Non faceva, nascendo, ancor paura 
la figlia al padre, che 'l tempo e la dote 
non fuggien quinci e quindi la misura. 
       Non avea case di famiglia vòte; 
non v'era giunto ancor Sardanapalo 
a mostrar ciò che 'n camera si puote. 
       Non era vinto ancora Montemalo 
dal vostro Uccellatoio, che, com'è vinto 
nel montar sù, così sarà nel calo. 
       Bellincion Berti vid'io andar cinto 
di cuoio e d'osso, e venir da lo specchio 
la donna sua sanza 'l viso dipinto; 
       e vidi quel d'i Nerli e quel del Vecchio 
esser contenti a la pelle scoperta, 
e le sue donne al fuso e al pennecchio. 
       Oh fortunate! ciascuna era certa 
de la sua sepultura, e ancor nulla 
era per Francia nel letto diserta. 
       L'una vegghiava a studio de la culla, 
e, consolando, usava l'idioma 
che prima i padri e le madri trastulla; 
       l'altra, traendo a la rocca la chioma, 
favoleggiava con la sua famiglia 
d'i Troiani, di Fiesole e di Roma. 
       Saria tenuta allor tal maraviglia 
una Cianghella, un Lapo Salterello, 
qual or saria Cincinnato e Corniglia. 
       A così riposato, a così bello 
viver di cittadini, a così fida 
cittadinanza, a così dolce ostello, 
       Maria mi diè, chiamata in alte grida; 
e ne l'antico vostro Batisteo 
insieme fui cristiano e Cacciaguida. 
       Moronto fu mio frate ed Eliseo; 
mia donna venne a me di val di Pado, 
e quindi il sopranome tuo si feo. 
       Poi seguitai lo 'mperador Currado; 
ed el mi cinse de la sua milizia, 
tanto per bene ovrar li venni in grado. 
       Dietro li andai incontro a la nequizia 
di quella legge il cui popolo usurpa, 
per colpa d'i pastor, vostra giustizia. 
       Quivi fu' io da quella gente turpa 
disviluppato dal mondo fallace, 
lo cui amor molt'anime deturpa; 
       e venni dal martiro a questa pace».
 
 

 
 

 
 
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998