Dante Alighieri

LA DIVINA COMMEDIA

PARADISO

Canto XVI

mercoledì 13 aprile Cielo V: Marte 
Intelligenze motrici: Virtù
Cacciaguida Spiriti militanti: scorrono cantando come gemme luminose lungo i bracci di una croce su cui lampeggia la figura di Cristo.
Comincia il canto decimosesto del Paradiso. Nel quale messer Cacciaguida mostra all'autore quali fossero le più notabili famiglie di Firenze al suo tempo.
      O poca nostra nobiltà di sangue, 
se gloriar di te la gente fai 
qua giù dove l'affetto nostro langue, 
       mirabil cosa non mi sarà mai: 
ché là dove appetito non si torce, 
dico nel cielo, io me ne gloriai. 
       Ben se' tu manto che tosto raccorce: 
sì che, se non s'appon di dì in die, 
lo tempo va dintorno con le force. 
       Dal 'voi' che prima a Roma s'offerie, 
in che la sua famiglia men persevra, 
ricominciaron le parole mie; 
       onde Beatrice, ch'era un poco scevra, 
ridendo, parve quella che tossio 
al primo fallo scritto di Ginevra. 
       Io cominciai: «Voi siete il padre mio; 
voi mi date a parlar tutta baldezza; 
voi mi levate sì, ch'i' son più ch'io. 
       Per tanti rivi s'empie d'allegrezza 
la mente mia, che di sé fa letizia 
perché può sostener che non si spezza. 
       Ditemi dunque, cara mia primizia, 
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni 
che si segnaro in vostra puerizia; 
       ditemi de l'ovil di San Giovanni 
quanto era allora, e chi eran le genti 
tra esso degne di più alti scanni». 
       Come s'avviva a lo spirar d'i venti 
carbone in fiamma, così vid'io quella 
luce risplendere a' miei blandimenti; 
       e come a li occhi miei si fé più bella, 
così con voce più dolce e soave, 
ma non con questa moderna favella, 
       dissemi: «Da quel dì che fu detto 'Ave
al parto in che mia madre, ch'è or santa, 
s'alleviò di me ond'era grave, 
       al suo Leon cinquecento cinquanta 
e trenta fiate venne questo foco 
a rinfiammarsi sotto la sua pianta. 
       Li antichi miei e io nacqui nel loco 
dove si truova pria l'ultimo sesto 
da quei che corre il vostro annual gioco. 
       Basti d'i miei maggiori udirne questo: 
chi ei si fosser e onde venner quivi, 
più è tacer che ragionare onesto. 
       Tutti color ch'a quel tempo eran ivi 
da poter arme tra Marte e 'l Batista, 
eran il quinto di quei ch'or son vivi. 
       Ma la cittadinanza, ch'è or mista 
di Campi, di Certaldo e di Fegghine, 
pura vediesi ne l'ultimo artista. 
       Oh quanto fora meglio esser vicine 
quelle genti ch'io dico, e al Galluzzo 
e a Trespiano aver vostro confine, 
       che averle dentro e sostener lo puzzo 
del villan d'Aguglion, di quel da Signa, 
che già per barattare ha l'occhio aguzzo! 
       Se la gente ch'al mondo più traligna 
non fosse stata a Cesare noverca, 
ma come madre a suo figlio benigna, 
       tal fatto è fiorentino e cambia e merca, 
che si sarebbe vòlto a Simifonti, 
là dove andava l'avolo a la cerca; 
       sariesi Montemurlo ancor de' Conti; 
sarieno i Cerchi nel piovier d'Acone, 
e forse in Valdigrieve i Buondelmonti. 
       Sempre la confusion de le persone 
principio fu del mal de la cittade, 
come del vostro il cibo che s'appone; 
       e cieco toro più avaccio cade 
che cieco agnello; e molte volte taglia 
più e meglio una che le cinque spade. 
       Se tu riguardi Luni e Orbisaglia 
come sono ite, e come se ne vanno 
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia, 
       udir come le schiatte si disfanno 
non ti parrà nova cosa né forte, 
poscia che le cittadi termine hanno. 
       Le vostre cose tutte hanno lor morte, 
sì come voi; ma celasi in alcuna 
che dura molto, e le vite son corte. 
       E come 'l volger del ciel de la luna 
cuopre e discuopre i liti sanza posa, 
così fa di Fiorenza la Fortuna: 
       per che non dee parer mirabil cosa 
ciò ch'io dirò de li alti Fiorentini 
onde è la fama nel tempo nascosa. 
       Io vidi li Ughi e vidi i Catellini, 
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi, 
già nel calare, illustri cittadini; 
       e vidi così grandi come antichi, 
con quel de la Sannella, quel de l'Arca, 
e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi. 
       Sovra la porta ch'al presente è carca 
di nova fellonia di tanto peso 
che tosto fia iattura de la barca, 
       erano i Ravignani, ond'è disceso 
il conte Guido e qualunque del nome 
de l'alto Bellincione ha poscia preso. 
       Quel de la Pressa sapeva già come 
regger si vuole, e avea Galigaio 
dorata in casa sua già l'elsa e 'l pome. 
       Grand'era già la colonna del Vaio, 
Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci 
e Galli e quei ch'arrossan per lo staio. 
       Lo ceppo di che nacquero i Calfucci 
era già grande, e già eran tratti 
a le curule Sizii e Arrigucci. 
       Oh quali io vidi quei che son disfatti 
per lor superbia! e le palle de l'oro 
fiorian Fiorenza in tutt'i suoi gran fatti. 
       Così facieno i padri di coloro 
che, sempre che la vostra chiesa vaca, 
si fanno grassi stando a consistoro. 
       L'oltracotata schiatta che s'indraca 
dietro a chi fugge, e a chi mostra 'l dente 
o ver la borsa, com'agnel si placa, 
       già venìa sù, ma di picciola gente; 
sì che non piacque ad Ubertin Donato 
che poi il suocero il fé lor parente. 
       Già era 'l Caponsacco nel mercato 
disceso giù da Fiesole, e già era 
buon cittadino Giuda e Infangato. 
       Io dirò cosa incredibile e vera: 
nel picciol cerchio s'entrava per porta 
che si nomava da quei de la Pera. 
       Ciascun che de la bella insegna porta 
del gran barone il cui nome e 'l cui pregio 
la festa di Tommaso riconforta, 
       da esso ebbe milizia e privilegio; 
avvegna che con popol si rauni 
oggi colui che la fascia col fregio. 
       Già eran Gualterotti e Importuni; 
e ancor saria Borgo più quieto, 
se di novi vicin fosser digiuni. 
       La casa di che nacque il vostro fleto, 
per lo giusto disdegno che v'ha morti, 
e puose fine al vostro viver lieto, 
       era onorata, essa e suoi consorti: 
o Buondelmonte, quanto mal fuggisti 
le nozze sue per li altrui conforti! 
       Molti sarebber lieti, che son tristi, 
se Dio t'avesse conceduto ad Ema 
la prima volta ch'a città venisti. 
       Ma conveniesi a quella pietra scema 
che guarda 'l ponte, che Fiorenza fesse 
vittima ne la sua pace postrema. 
       Con queste genti, e con altre con esse, 
vid'io Fiorenza in sì fatto riposo, 
che non avea cagione onde piangesse: 
       con queste genti vid'io glorioso 
e giusto il popol suo, tanto che 'l giglio 
non era ad asta mai posto a ritroso, 
       né per division fatto vermiglio».
 
 

 
 

 
 
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Canto XVII

mercoledì 13 aprile Cielo V: Marte 
Intelligenze motrici: Virtù
Cacciaguida Spiriti militanti: scorrono cantando come gemme luminose lungo i bracci di una croce su cui lampeggia la figura di Cristo.
Comincia il canto decimosettimo del Paradiso. Nel quale messer Cacciaguida, domandato, predice all'autore il suo futuro esilio, e che per quello gli debba seguire; e confortalo a scrivere le cose vedute e udite, a cui elle si debbano parer gravi.
       Qual venne a Climené, per accertarsi 
di ciò ch'avea incontro a sé udito, 
quei ch'ancor fa li padri ai figli scarsi; 
       tal era io, e tal era sentito 
e da Beatrice e da la santa lampa 
che pria per me avea mutato sito. 
       Per che mia donna «Manda fuor la vampa 
del tuo disio», mi disse, «sì ch'ella esca 
segnata bene de la interna stampa; 
       non perché nostra conoscenza cresca 
per tuo parlare, ma perché t'ausi 
a dir la sete, sì che l'uom ti mesca». 
       «O cara piota mia che sì t'insusi, 
che, come veggion le terrene menti 
non capere in triangol due ottusi, 
       così vedi le cose contingenti 
anzi che sieno in sé, mirando il punto 
a cui tutti li tempi son presenti; 
       mentre ch'io era a Virgilio congiunto 
su per lo monte che l'anime cura 
e discendendo nel mondo defunto, 
       dette mi fuor di mia vita futura 
parole gravi, avvegna ch'io mi senta 
ben tetragono ai colpi di ventura; 
       per che la voglia mia saria contenta 
d'intender qual fortuna mi s'appressa; 
ché saetta previsa vien più lenta». 
       Così diss'io a quella luce stessa 
che pria m'avea parlato; e come volle 
Beatrice, fu la mia voglia confessa. 
       Né per ambage, in che la gente folle 
già s'inviscava pria che fosse anciso 
l'Agnel di Dio che le peccata tolle, 
       ma per chiare parole e con preciso 
latin rispuose quello amor paterno, 
chiuso e parvente del suo proprio riso: 
       «La contingenza, che fuor del quaderno 
de la vostra matera non si stende, 
tutta è dipinta nel cospetto etterno: 
       necessità però quindi non prende 
se non come dal viso in che si specchia 
nave che per torrente giù discende. 
       Da indi, sì come viene ad orecchia 
dolce armonia da organo, mi viene 
a vista il tempo che ti s'apparecchia. 
       Qual si partio Ipolito d'Atene 
per la spietata e perfida noverca, 
tal di Fiorenza partir ti convene. 
       Questo si vuole e questo già si cerca, 
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa 
là dove Cristo tutto dì si merca. 
       La colpa seguirà la parte offensa 
in grido, come suol; ma la vendetta 
fia testimonio al ver che la dispensa. 
       Tu lascerai ogne cosa diletta 
più caramente; e questo è quello strale 
che l'arco de lo essilio pria saetta. 
       Tu proverai sì come sa di sale 
lo pane altrui, e come è duro calle 
lo scendere e 'l salir per l'altrui scale. 
       E quel che più ti graverà le spalle, 
sarà la compagnia malvagia e scempia 
con la qual tu cadrai in questa valle; 
       che tutta ingrata, tutta matta ed empia 
si farà contr'a te; ma, poco appresso, 
ella, non tu, n'avrà rossa la tempia. 
       Di sua bestialitate il suo processo 
farà la prova; sì ch'a te fia bello 
averti fatta parte per te stesso. 
       Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello 
sarà la cortesia del gran Lombardo 
che 'n su la scala porta il santo uccello; 
       ch'in te avrà sì benigno riguardo, 
che del fare e del chieder, tra voi due, 
fia primo quel che tra li altri è più tardo. 
       Con lui vedrai colui che 'mpresso fue, 
nascendo, sì da questa stella forte, 
che notabili fier l'opere sue. 
       Non se ne son le genti ancora accorte 
per la novella età, ché pur nove anni 
son queste rote intorno di lui torte; 
       ma pria che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni, 
parran faville de la sua virtute 
in non curar d'argento né d'affanni. 
       Le sue magnificenze conosciute 
saranno ancora, sì che ' suoi nemici 
non ne potran tener le lingue mute. 
       A lui t'aspetta e a' suoi benefici; 
per lui fia trasmutata molta gente, 
cambiando condizion ricchi e mendici; 
       e portera'ne scritto ne la mente 
di lui, e nol dirai»; e disse cose 
incredibili a quei che fier presente. 
       Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose 
di quel che ti fu detto; ecco le 'nsidie 
che dietro a pochi giri son nascose. 
       Non vo' però ch'a' tuoi vicini invidie, 
poscia che s'infutura la tua vita 
vie più là che 'l punir di lor perfidie». 
       Poi che, tacendo, si mostrò spedita 
l'anima santa di metter la trama 
in quella tela ch'io le porsi ordita, 
       io cominciai, come colui che brama, 
dubitando, consiglio da persona 
che vede e vuol dirittamente e ama: 
       «Ben veggio, padre mio, sì come sprona 
lo tempo verso me, per colpo darmi 
tal, ch'è più grave a chi più s'abbandona; 
       per che di provedenza è buon ch'io m'armi, 
sì che, se loco m'è tolto più caro, 
io non perdessi li altri per miei carmi. 
       Giù per lo mondo sanza fine amaro, 
e per lo monte del cui bel cacume 
li occhi de la mia donna mi levaro, 
       e poscia per lo ciel, di lume in lume, 
ho io appreso quel che s'io ridico, 
a molti fia sapor di forte agrume; 
       e s'io al vero son timido amico, 
temo di perder viver tra coloro 
che questo tempo chiameranno antico». 
       La luce in che rideva il mio tesoro 
ch'io trovai lì, si fé prima corusca, 
quale a raggio di sole specchio d'oro; 
       indi rispuose: «Coscienza fusca 
o de la propria o de l'altrui vergogna 
pur sentirà la tua parola brusca. 
       Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, 
tutta tua vision fa manifesta; 
e lascia pur grattar dov'è la rogna. 
       Ché se la voce tua sarà molesta 
nel primo gusto, vital nodrimento 
lascerà poi, quando sarà digesta. 
       Questo tuo grido farà come vento, 
che le più alte cime più percuote; 
e ciò non fa d'onor poco argomento. 
       Però ti son mostrate in queste rote, 
nel monte e ne la valle dolorosa 
pur l'anime che son di fama note, 
       che l'animo di quel ch'ode, non posa 
né ferma fede per essempro ch'aia 
la sua radice incognita e ascosa, 
       né per altro argomento che non paia».
 
 

 
 

 
 
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Canto XVIII

mercoledì 13 aprile Cielo V: Marte 
Intelligenze motrici: Virtù 
 
Cielo VI: Giove 
Intelligenze motrici: Dominazioni
Cacciaguida, Giosuè, Giuda Maccabeo, Carlo Magno, Orlando, Guglielmo d'Orange, Rinoardo, Goffredo di Buglione, Roberto il Guiscardo. Spiriti militanti: scorrono cantando come gemme luminose lungo i bracci di una croce su cui lampeggia la figura di Cristo. 
Spiriti giusti: cantano e volano disponendosi in modo da formare lettere che compongono la frase Diligite iustitiam qui iudicatis terram, di cui l'M finale prende figura d'aquila. 
Apostrofi: 1) a Giove, 2) alla schiera dei beati, 3) a papa Giovanni XXII: aspra accusa contro la corruzione della Chiesa.
Comincia il canto decimottavo del Paradiso. Nel quale messer Cacciaguida nomina più famosi spiriti che in quello cielo son gloriosi. E appresso l'autore, mostrato come nel sesto cielo salito sia, discrive molti santi spiriti ne' loro movimenti fare diverse figure di lettere, e quelle finire in una M, e di quella farsi una aquila.
       Già si godeva solo del suo verbo 
quello specchio beato, e io gustava 
lo mio, temprando col dolce l'acerbo; 
       e quella donna ch'a Dio mi menava 
disse: «Muta pensier; pensa ch'i' sono 
presso a colui ch'ogne torto disgrava». 
       Io mi rivolsi a l'amoroso suono 
del mio conforto; e qual io allor vidi 
ne li occhi santi amor, qui l'abbandono: 
       non perch'io pur del mio parlar diffidi, 
ma per la mente che non può redire 
sovra sé tanto, s'altri non la guidi. 
       Tanto poss'io di quel punto ridire, 
che, rimirando lei, lo mio affetto 
libero fu da ogne altro disire, 
       fin che 'l piacere etterno, che diretto 
raggiava in Beatrice, dal bel viso 
mi contentava col secondo aspetto. 
       Vincendo me col lume d'un sorriso, 
ella mi disse: «Volgiti e ascolta; 
ché non pur ne' miei occhi è paradiso». 
       Come si vede qui alcuna volta 
l'affetto ne la vista, s'elli è tanto, 
che da lui sia tutta l'anima tolta, 
       così nel fiammeggiar del folgór santo, 
a ch'io mi volsi, conobbi la voglia 
in lui di ragionarmi ancora alquanto. 
       El cominciò: «In questa quinta soglia 
de l'albero che vive de la cima 
e frutta sempre e mai non perde foglia, 
       spiriti son beati, che giù, prima 
che venissero al ciel, fuor di gran voce, 
sì ch'ogne musa ne sarebbe opima. 
       Però mira ne' corni de la croce: 
quello ch'io nomerò, lì farà l'atto 
che fa in nube il suo foco veloce». 
       Io vidi per la croce un lume tratto 
dal nomar Iosuè, com'el si feo; 
né mi fu noto il dir prima che 'l fatto. 
       E al nome de l'alto Macabeo 
vidi moversi un altro roteando, 
e letizia era ferza del paleo. 
       Così per Carlo Magno e per Orlando 
due ne seguì lo mio attento sguardo, 
com'occhio segue suo falcon volando. 
       Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo 
e 'l duca Gottifredi la mia vista 
per quella croce, e Ruberto Guiscardo. 
       Indi, tra l'altre luci mota e mista, 
mostrommi l'alma che m'avea parlato 
qual era tra i cantor del cielo artista. 
       Io mi rivolsi dal mio destro lato 
per vedere in Beatrice il mio dovere, 
o per parlare o per atto, segnato; 
       e vidi le sue luci tanto mere, 
tanto gioconde, che la sua sembianza 
vinceva li altri e l'ultimo solere. 
       E come, per sentir più dilettanza 
bene operando, l'uom di giorno in giorno 
s'accorge che la sua virtute avanza, 
       sì m'accors'io che 'l mio girare intorno 
col cielo insieme avea cresciuto l'arco, 
veggendo quel miracol più addorno. 
       E qual è 'l trasmutare in picciol varco 
di tempo in bianca donna, quando 'l volto 
suo si discarchi di vergogna il carco, 
       tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto, 
per lo candor de la temprata stella 
sesta, che dentro a sé m'avea ricolto. 
       Io vidi in quella giovial facella 
lo sfavillar de l'amor che lì era, 
segnare a li occhi miei nostra favella. 
       E come augelli surti di rivera, 
quasi congratulando a lor pasture, 
fanno di sé or tonda or altra schiera, 
       sì dentro ai lumi sante creature 
volitando cantavano, e faciensi 
or D, or I, or L in sue figure. 
       Prima, cantando, a sua nota moviensi; 
poi, diventando l'un di questi segni, 
un poco s'arrestavano e taciensi. 
       O diva Pegasëa che li 'ngegni 
fai gloriosi e rendili longevi, 
ed essi teco le cittadi e ' regni, 
       illustrami di te, sì ch'io rilevi 
le lor figure com'io l'ho concette: 
paia tua possa in questi versi brevi! 
       Mostrarsi dunque in cinque volte sette 
vocali e consonanti; e io notai 
le parti sì, come mi parver dette. 
       'DILIGITE IUSTITIAM', primai 
fur verbo e nome di tutto 'l dipinto; 
'QUI IUDICATIS TERRAM', fur sezzai. 
       Poscia ne l'emme del vocabol quinto 
rimasero ordinate; sì che Giove 
pareva argento lì d'oro distinto. 
       E vidi scendere altre luci dove 
era il colmo de l'emme, e lì quetarsi 
cantando, credo, il ben ch'a sé le move. 
       Poi, come nel percuoter d'i ciocchi arsi 
surgono innumerabili faville, 
onde li stolti sogliono agurarsi, 
       resurger parver quindi più di mille 
luci e salir, qual assai e qual poco, 
sì come 'l sol che l'accende sortille; 
       e quietata ciascuna in suo loco, 
la testa e 'l collo d'un'aguglia vidi 
rappresentare a quel distinto foco. 
       Quei che dipinge lì, non ha chi 'l guidi; 
ma esso guida, e da lui si rammenta 
quella virtù ch'è forma per li nidi. 
       L'altra beatitudo, che contenta 
pareva prima d'ingigliarsi a l'emme, 
con poco moto seguitò la 'mprenta. 
       O dolce stella, quali e quante gemme 
mi dimostraro che nostra giustizia 
effetto sia del ciel che tu ingemme! 
       Per ch'io prego la mente in che s'inizia 
tuo moto e tua virtute, che rimiri 
ond'esce il fummo che 'l tuo raggio vizia; 
       sì ch'un'altra fiata omai s'adiri 
del comperare e vender dentro al templo 
che si murò di segni e di martìri. 
       O milizia del ciel cu' io contemplo, 
adora per color che sono in terra 
tutti sviati dietro al malo essemplo! 
       Già si solea con le spade far guerra; 
ma or si fa togliendo or qui or quivi 
lo pan che 'l pio Padre a nessun serra. 
       Ma tu che sol per cancellare scrivi, 
pensa che Pietro e Paulo, che moriro 
per la vigna che guasti, ancor son vivi. 
       Ben puoi tu dire: «I' ho fermo 'l disiro 
sì a colui che volle viver solo 
e che per salti fu tratto al martiro, 
       ch'io non conosco il pescator né Polo».
 
 

 
 

 
 
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998