Giuseppe
Bonghi
Introduzione
alle
Epistole
di
Dante
Alighieri
Introduzione
generale
Già
Giovanni Boccaccio nel Trecento e
Leonardo Bruni nel Quattrocento
testimoniano che Dante abbia scritto in
vita molte lettere, alcune delle quali i
due autori citati avevano visto con i
propri occhi e di cui parlano nella vita
di Dante da loro scritta. In particolare
Boccaccio scrive che Dante «fece ancora
molte epistole prosaiche in latino,
delle quali ancora appariscono assai».
Ma purtroppo poco ci è rimasto, se non
queste tredici che ora proponiamo
all'attenzione dei lettori della nostra
biblioteca.
Le
Epistole di Dante furono
pubblicate assai tardi; la prima
edizione è quella curata da Carlo Witte
nel 1827, con sette lettere, cui se ne
aggiunsero altre 4 pubblicate da
Alessandro Torri nel 1843. Per il resto
bisogna aspettare il secolo nostro perché
veda la luce il corpus di tredici
lettere così come lo conosciamo.
Per
quanto riguarda lo stile bisogna
considerare i tempi in cui sono state
scritte, tempi in cui la cultura stava
lentamente uscendo dalla sua condizione
di privilegio in dotazione di pochi. Così
ne scrive il Torri: «Le forme latine
non son diverse da quelle che crear
potea il tercento, quanto aureo nell'uso
moderno, altrettanto ferreo
nell'antico,; non essendo punto meglio
scritte le altre opere latine dello
stesso autore, le quali allo stile di
queste in tutto si conformano; e che il
fraseggiare vi è tutto scritturale e
sopraccarico d'induzioni filosofiche e
teologiche, se non in quanto vi
apparisce ad ora ad ora qualche qualche
fior virgiliano... Sotto la ruvida
corteccia esteriore corre un succo
interno di pensieri, che produce
bellissimi frutti di sapienza, e
talvolta nelle stesse parole
trasfondendosi le riempie di tal maestà
e grandezza, che vince le ruggini del
secolo, e cangia in oro il ferro come si
vede là dove il proscritto non
meritevole inveisce con impeto
d'eloquenza contro i Fiorentini».
Nella
seconda metà dell'Ottocento abbiamo
l'edizione di Pietro Fraticelli (Il
Convito di Dante Alighieri e le
epistole, con illustrazioni e note di
Pietro Fraticelli e d'altri, Firenze,
editore G. Barbera, VIII edizione 1900)
dalla quale abbiamo attinto molte delle
notizie qui riportate.
Scrive Angelo Jacomuzzi: «Delle
epistole dantesche pervenute fino a noi,
dodici possono essere sommariamente
raccolte in tre gruppi, conformemente
alle motivazioni e ai temi che le
caratterizzano.
Un primo
gruppo è costituito da lettere
di carattere strettamente occasionale,
legate a circostanze e convenzioni di
natura diplomatica o curiale; sono:
- la lettera di
condoglianza per la morte di Alessandro
da Romena, inviata ai nipoti Guido e
Oberto (la II);
- le tre brevi
lettere scritte da Dante per conto di
Gherardesca (moglie di Guido di
Battifolle conte Palatino) dal castello
di Poppi e indirizzate a Margherita di
Brabante, consorte di Arrigo VII, agli
inizi dell'impresa imperiale in Italia (VIII-IX-X).
Un
secondo gruppo,
di maggior rilievo, è costituito da
testi di corrispondenza direttamente
legati alla vicenda biografica e
intellettuale del poeta:
- le lettere a Cino
da Pistoia (III) e a Moroello Malaspina
(IV), che, accompagnatorie
rispettivamente di un sonetto e di una
canzone, ci riconducono alla
convenzione, qui arricchita e dilatata
nella prosa epistolare, della
corrispondenza poetica;
- la XII, indirizzata
all'ignoto amico fiorentino, dove
l'occasione dell'amnistia politica e il
rifiuto di piegarsi alle sue condizioni
offrono a Dante lo spunto per abbozzare
un ritratto di sé che è il più alto e
persuasivo, fuori della Commedia,
che egli ci abbia lasciato.
Un altro gruppo,
infine, raccoglie le epistole più
propriamente politiche (I, V, VI, VII,
XI) e rappresenta anche nell'ambito di
ciò che rimane dell'epistolario
dantesco, la sezione più ampia per
estensione materiale e per numero; tra
queste la quinta, la sesta e la settima
formano un blocco unico e compatto sia
per spazio di tempo (dal
settembre-ottobre 1310 all'aprile 1311)
sia per l'occasione e l'oggetto
convergenti sull'evento della discesa di
Arrigo VII in Italia. Dalla prima (un
breve intenso messaggio, ma tutto
redatto nei termini della convenzione
diplomatica) al cardinale Niccolò da
Prato, del 1304, alla undecima ai
cardinali italiani del 1314, le lettere
politiche abbracciano un decennio
decisivo per la storia esterna di quegli
anni e per la storia interiore del
poeta: dall'inizio del pontificato di
Clemente V e della cattività avignonese
della Chiesa alle ultime speranze nella
successione al soglio di Pietro di un
vescovo italiano e nel ristabilimento
della sede papale in Roma, subito
frustrate e deluse con la elezione del
caorsino Giovanni XXII; dalla
partecipazione ai tentativi dei Bianchi
per rientrare in Firenze (alla vigilia
dell'impresa della Lastra che, per
l'assenza di Dante, segnerà
l'allontanamento del poeta dalla sua
parte) al riaccendersi delle speranze,
del fiorentino e dell'italiano, per la
venuta di Arrigo VII sino al fallimento
dell'impresa imperiale che condurrà
Dante a fissare l'oggetto delle sue
attese sul piano espressamente
religioso, nell'auspicio corroborato da
una speranza teologale, del rinnovamento
e della purificazione della Chiesa». (Opere
minori di Dante
Alighieri, vol. II, p. 325 e
seguenti, U.T.E.T. Torino 1986)
Introduzione
Epistola
I
A Niccolò
Albertini da Prato
Nei manoscritti della
Biblioteca Vaticana Palatina, fra quelli
che Massimiliano di Baviera donò a papa
Gregorio XV, insieme al De Monarchia
e alle dodici egloghe di Petrarca, si
trovano nove epistole. Questa, che ormai
convenzionalmente tutti pongono come
prima nel corpus.
La lettera è indirizzata al cardinale
d'Ostia Niccolò Albertini da Prato ed
è scritta a nome non solo del conte
Alessandro Guidi da Romena, Capitano del
Consiglio dei Dodici, ma anche dello
stesso Consiglio dei Dodici Ghibellini,
di cui Dante faceva parte, come narra
Leonardo Bruni: "Finalmente (i
fuorusciti) fermarono la sedia loro in
Arezzo, e quivi fecero campo grosso; e
crearono loro capitano il conte
Alessandro da Romena, e fecero dodici
consiglieri, del numero de' quali fu
Dante."
Il cardinale d'Ostia, persona accorta e
nemica degli eccessi di tutte e due le
parti politiche in lotta, fu dal papa Benedetto
XI, sul principio del 1304, inviato in
Toscana, con autorità di legato e messo
di pace, e giunse in Firenze il 10
marzo, guadagnandosi ben presto la
fiducia sia dei Guelfi che dei
Ghibellini; il cardinale si mostrò
benevolo anche verso i fuorusciti, ai
quali inviò un certo frate L***, colla
promessa scritta che sarebbero stati
reintegrati nei loro diritti e che la
patria sarebbe stata riordinata secondo
i loro desideri. I fuorusciti
replicarono al cardinale con questa
lettera, mostrando la loro più sincera
e viva gratitudine, affermando, tra
l'altro, di aver brandito le armi solo
per tentare di ricondurre i loro
avversari ai principi di buona
convivenza civile e politica e che la
loro intenzione mirava alla pace e alla
libertà del popolo fiorentino. E poiché
Frate L*** chiedeva loro di astenersi da
qualsiasi uso delle armi, conformemente
all'incarico ricevuto, i fuorusciti ne
facevano formale e solenne promessa,
rimettendo nelle mani del cardinale
completamente la ricomposizione della
questione e le condizioni di pace.
Ma le benevole intenzioni del cardinale
e i desideri dei fuorusciti non
portarono ad alcuna conclusione, tanto
che i Neri, che erano rimasti padroni di
Firenze, ebbero il sospetto che il
cardinale volesse favorire i Bianchi, e
lo persuasero l'8 di maggio a recarsi a
Prato e Pistoia. Mentre il cardinale si
trovava lontano da Firenze, i Neri, per
mezzo di lettere false, diffusero la
voce che si era messo d'accordo coi
Bianchi per mutare lo stato della
Repubblica con grave danno dei Neri. Per
questo, non appena tornato in Firenze,
vide che il favore del popolo era mutato
e che i capi del Comuni non gli davano
più ascolto; per questo, irritato,
abbandonò la città, lanciandole contro
l'interdetto.
Gli storici affermeranno in seguito che,
essendo il Cardinale di famiglia
Ghibellina, propendeva piuttosto per i
Neri che per i Bianchi, come afferma
anche il Villani, che pure era Guelfo,,
che mette in evidenza le rette
intenzioni del prelato (Villani,
Croniche, libro VIII, cap. 69).
Introduzione
Epistola
II
Ai conti
Guidi
La lettera è inviata
a Oberto e Guidi dei Conti Guidi, nipoti
del conte Alessandro da Romena e fu
pubblicata da Alessandro Torri. Dante
scrive per condolersi della morte dello
zio Alessandro, esortandoli a farsi
eredi delle sue virtù così come erano
eredi delle sue sostanze, scusandosi di
non poter partecipare ai funerali a
causa della povertà in cui versava dal
momento in cui era stato cacciato da
Firenze, privo com'era anche di cavalli
e di armi.
Dante era legato ad Alessandro da Romena
da vincoli sia di amicizia che di
politica, appartenendo entrambi alla
fazione dei Bianchi.
"I conti Guidi, nati del ceppo di
Guido il vecchio e della bella Gualdrapa,
figlia di Bellincion Berti,
moltiplicatisi in vari rami, e non
sempre fa lor concordi ne' principii
politici, erano di coloro che,, per
usare la frase del nostro poeta, mutavan
parte dalla state al verno. Nel
1304 con Alessandro alla testa li
abbiamo già veduti ghibellini; nel 1306
dopo che Alessandro era morto,
appariscono, dal documento delle
Riformagioni (Lib. Prov. num. 14, pag.
33), divenuti Guelfi; e Guelfi pure, e
nemici d'Arrigo, appariscono dal
documento del 7 luglio 1311 citato dal
Padre Ildefonso nelle Delizie degli
Eruditi Toscani, vol. VIII, pag.
182. Ghibellini li veggiamo tornati ben
presto, cioè nel 6 settembre dello
stesso anno 1311, essendoché sono
eccettuati dalla riforma o amnistia di
Baldo d'Aguglione, per cui vedi l'or
ricordato Padre Ildefonso, vol. XI, pag.
89: e Ghibellini manteneansi pure l'anno
appresso, poiché nelle Riformagioni e
nella Biblioteca Rinucciniana trovasi un
diploma, dato in Roma appresso le
milizie 7 giugno 1312, Ind. X col
quale Arrigo VII prende sotto la sua
protezione la persona e i beni d'Aghinolfo
da Romena conte Palatino di
Toscana".
Questa la storia dei Conti Guidi nel
frangente che ci interessa, narrata dal
Fraticelli (op. cit. pag. 420).
La morte di Alessandro da Romena
"era una sventura gravissima per
tutti, ma più che tutti, a Dante",
che in quel tempo si trovava in Arezzo.
Gli veniva a mancare non solo il
soccorso contro la povertà, ma
soprattutto la scomparsa di una guida
che spezza le speranze politiche di
rientrare in Firenze; e la povertà di
Dante quasi sparisce di fronte al danno
che colpisce i Guelfi.
Introduzione
Epistola
III
A Cino da
Pistoia
La lettera fa parte
del codice VIII,
Plut. XXIX della Biblioteca
Laurenziana e pur non esprimendo il nome
di Dante se non per mezzo della iniziale
D (Epistola D. de Florentia),
fu attribuita a Dante sia per per le
parole de Florentia, sia per il
contenuto..
La lettera è la risposta di Dante a
un'Epistola di Cino da Pistoia, nella
quale questi chiedeva se la nostra
anima possa passare di passione in
passione; la risposta di dante è
accompagnata da un componimento, che
secondo il Witte fu la canzone Voi
che intendendo, e che probabilmente
trattava di quell'amore allegorico che
da sensuale si tramuta in intellettuale
(come Dante testimonia nel Convivio) e
che accese l'animo di Dante dopo la
morte di Beatrice.
Che Cino da Pistoia, dopo la morte di
Selvaggia, la sua donna, passasse da un
amore all'altro e si dimostrasse molto
incostante, è cosa ormai certa secondo
la testimonianza di molti biografi e
dello stesso Dante che così scrive nel
sonetto XL delle sue Rime:
I'
ho veduto già senza radice
legno ch'è per omor tanto
gagliardo
che que' che vide nel fiume
lombardo
cader suo figlio, fronde fuor
n'elice;
ma
frutto no, però che 'l
contradice
natura, ch'al difetto fa
riguardo,
perché conosce che saria
bugiardo
sapor non fatto da vera
notrice.
Giovane
donna a cotal guisa verde
talor per gli occhi sì a
dentro è gita
che tardi poi è stata la
partita.
Periglio
è grande in donna sì
vestita:
però l'affronto de la gente
verde
parmi che la tua caccia non
seguer de'.
|
4
8
11
14 |
Nel finale
dell'Epistola troviamo alcune parole di
consolazione di Dante all'amico come lui
sventurato e bandito dalla patria.
L'esilio di Cino durò dall'anno 1307 al
1319, per cui possiamo affermare che
questa lettera fu scritta proprio in
questo lasso di tempo.
Introduzione
Epistola
IV
A Moroello
Malaspina
Cinque anni dopo il
suo esilio, Dante fu ospite dei Marchesi
Malaspina in Lunigiana, dove trattò, e
portò a compimento il 6 ottobre 1306,
la pace tra alcuni di essi e il Vescovo
di Luni. Dalla Lunigiana si pensa che
sia passato nel Casentino e dimorasse
per un po' nei castelli dei Conti Guidi.
In questa lettera, scritta molto
verosimilmente nel 1307, Dante si
rivolge a Moroello Malaspina e narra che
appena giunto sulle rive dell'Arno ( che
traversa per lungo tratto il Casentino),
gli era apparsa davanti agli occhi una
donna, e che, malgrado ogni suo sforzo,
Amore gli aveva cacciato via dalla mente
ogni proposito di tenersi lontano dalle
donne e dalla poesia amorosa e lo aveva
completamente sottomesso alla propria
signoria. E affinché meglio Moroello
comprendesse la forza di questo amore,
Dante univa alla lettera un componimento
poetico su tale argomento.
Che Dante si fosse innamorato di una
donna del Casentino, alcuni biografi lo
avevano scritto, ma né di lei né del
componimento conosciamo qualcosa.
Qualche critico ipotizza che si sia
trattato della canzone Amor, dacchè
convien pur ch'io mo doglia, nella
quale (stanza 5 e tutta la chiusa)
parlano di un nuovo innamoramento di
Dante e descrivono abbastanza
chiaramente il Casentino.
Riportiamo la canzone:
Amor,
da che convien pur ch'io mi
doglia
perché la gente m'oda,
e mostri me d'ogni vertute
spento,
dammi savere a pianger come
voglia,
sì che 'l duol che si snoda
portin le mie parole com'io 'l
sento.
Tu vo' ch'io muoia, e io ne
son contento:
ma chi mi scuserà, s'io non
so dire
ciò che mi fai sentire?
chi crederà ch'io sia omai sì
colto?
E se mi dài parlar quanto
tormento,
fa', signor mio, che innanzi
al mio morire
questa rea per me nol possa
udire:
ché, se intendesse ciò che
dentro ascolto,
pietà faria men bello il suo
bel volto.
Io
non posso fuggir ch'ella non
vegna
ne l'imagine mia,
se non come il pensier che la
vi mena.
L’anima folle , che al suo
mal s’ingegna,
com’ella è bella e ria,
così dipinge, e forma la sua
pena;
poi la riguarda, e quando ella
è ben piena
del gran disio che de li occhi
li tira,
incontro a sé s’adira,
c’ha fatto il foco ond’ella
trista incende.
Quale argomento di ragion
raffrena,
ove tanta tempesta in me si
gira?
L’angoscia, che non cape
dentro, spira
fuor de la bocca, sì
ch’ella s’intende,
e anche a li occhi lor merito
rende.
La
nimica figura, che rimane
vittorïosa e fera
e signoreggia la virtù che
vole,
vaga di se medesma andar mi
fane
colà dov’ella è vera,
come simile a simil correr sòle.
Ben conosco che va la neve al
sole,
ma più non posso: fo come
colui
che, nel podere altrui,
va co’ suoi piedi al loco
ov’egli è morto.
Quando son presso, parmi udir
parole
Dicer: "vie via vedrai
morir costui".
Allor mi volgo per vedere a
cui
Mi raccomandi; e ‘ntanto
sono scorto
Da li occhi che m’ancidono a
gran torto.
Qual
io divengo sì feruto, Amore,
sailo tu, e non io,
che rimani a veder me sanza
vita;
e se l’anima torna poscia al
core,
ignoranza ed oblio
stato è con lei, mentre
ch’ella è partita.
Com’io resurgo, e miro la
ferita
Che mi disfece quand’io fui
percosso,
confortar non mi posso
sì ch’io non triemi tutto
di paura.
E mostra poi la faccia
scolorita
Qual fu quel trono che mi
giunse a dosso;
che se con dolce riso è stato
mosso,
lunga fïata poi rimane
oscura,
perché lo spirto non si
rassicura.
Così
m’hai concio, Amore, in
mezzo l’alpi,
ne la valle del fiume
lungo il qual sempre sopra me
se’ forte:
qui vivo e morto, come vuoi,
mi palpi,
merzé del fiero lume
che sfolgorando fa via la
morte.
Lasso, non donne qui, non
genti accorte
Veggio, a cui mi lamenti del
mio male:
se a costei non ne cale,
non spero mai d’altrui aver
soccorso.
E questa sbandeggiata di tua
corte,
signor, non cura colpo di tuo
strale:
fatto ha d’orgoglio al petto
schermo tale
ch’ogni saetta lì spunta
suo corso;
per che l’armato cor da
nulla è morso.
O
montanina mia canzon, tu vai:
forse vedrai Fiorenza, la mia
terra,
che fuor di sé mi serra,
vota d’amore e nuda di
pietade;
se dentro v’entri, va’
dicendo: "Omai
non vi può far lo mio fattor
più guerra:
là ond’io vegno una catena
il serra
tal che, se piega vostra
crudeltate,
non ha di rotornar qui
libertate ".
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Il capostipite dei Malaspina, Currado I
l'antico, divise i possessi feudali con
Obizzino e lasciò cinque figli; di uno
di questi era figlio quel Corrado che
Dante incontra nel Purgatorio, il cui
secondogenito, Moroello, divise il
casato nelle quattro branche dei Mulazzo,
Giovagallo, Villafranca e Val di
Trebbia. Di Moroello Malaspina i critici
ne hanno individuato soprattutto due (di
un terzo evitiamo di parlare perché al
tempo dei fatti era un bambino e non era
ancora maggiorenne quando nel 1319 gli
morì il padre):
- Moroello III capitano di parte
Nera, marchese di Giovagallo, nominato
da Dante in Inferno, XXIV,145,
e chiamato vapor di Valdimagra,
il quale nel 1302 inflisse ai Bianchi la
nota sconfitta di Campo Piceno, cui
allude nei versi: E con
tempesta impetuosa ed agra / sopra Campo
Picen fia combattuto; fu figlio di
Manfredi I (quindi cugino di Currado II
e nipote di Currado I, ricordati nel
canto VIII del Purgatorio) e
sposò Alagia del Fiesco (vedi Purgatorio
XIX,142); Moroello, secondo Boccaccio,
ospitò Dante a Fosdinovo ingiungendogli
di scrivere la Commedia
- Moroello figlio di
Obizzino, marchese di Villafranca, che
il 6 ottobre 1306 insieme al fratello
Corradino e al cugino Franceschino
Malaspina di Mulazzo, affida a Dante il
compito di procuratore per trattare la
pacificazione con Antonio Vescovo di
Luni.
Molti ragionevolmente propendono per il
secondo, ma qualcuno, come il Witte, uno
dei primi studiosi, spostando la data
della scrittura della lettera al 1310,
propendono per il primo, ma è difficile
pensare che Dante potesse rivolgere una
tale lettera a un personaggio di parte
avversa, fiero e vecchio soldato, che,
oltre a battere i Bianchi a Campo Piceno
presso Serravalle, pose pure l'assedio a
Pistoia, ultimo rifugio dei Ghibellini
toscani, riducendola alla fame,
occupandola in nome di Lucca e Firenze e
quindi governandola col titolo di
Capitano del popolo: a un fiero
avversario e vecchio soldato non si può
scrivere una lettera in cui si parla
d'amore.
Introduzione
Epistola
V
Agli
Italiani
Si può datare questa
lettera, attraverso precisi riferimenti
interni, tra il settembre e l'ottobre
del 1310, perché contiene nel paragrafo
finale un riferimento alla lettera
enciclica di Clemente V (Exultet in
gloria) del 1° settembre 1310,
nella quale il papa invita ad accogliere
ed onorare coi debiti onori l'imperatore
che scenderà in Italia verso la fine di
Ottobre.
Alla notizia che Arrigo VII di
Lussemburgo, eletto in Francoforte re
dei Romani il 27 novembre 1308 e
incoronato nel gennaio
dell'anno seguente in Aquisgrana, stava
per scendere in Italia, in Dante si
accendono nuove speranze, e sognando il
trionfo dei Bianchi scrive questa
lettera ai due re di Sicilia (Federigo)
e di Napoli ( Roberto), ai senatori di
Roma, ai duchi, ai conti, ai marchesi,
ai popoli di tutta l'Italia. In essa il
Poeta esprime la sua gioia nel veder
sorgere segni di consolazione e di pace
e annuncia che il Re dei Romani giunge
"come restauratore della pace e del
diritto atteso da uomini di terre e
partiti diversi, Toscani e Lombardi,
Guelfi e Ghibellini", e che, come
dolce e umano signore, avrebbe concesso
a tutti il suo perdono. Dante esorta le
genti a dimostrarsi fedeli al Principe,
perché chi resiste alla potestà
imperiale, resiste agli ordinamenti di
Dio, e chi resiste agli ordinamenti di
Dio è simile all'impotente che
recalcitra.
E proprio perché il papa si dimostra
favorevole alla discesa di Arrigo, Dante
è disposto ad accantonare le antiche
accuse, soprattutto quella di simonia,
ritenendo che Clemente V avesse comprato
la sua altissima carica, come scrive
nell'Inferno (XIX, 82-84) e nel
Paradiso (XVII, 82 e XXX,
145-148), bollandolo come simoniaco e
ingannatore. Era giunta l'ora le Potestà
della Chiesa e dell'Impero avrebbero
potuto porre fine alle lacerazioni
dell'Italia e restituire agli esuli la
loro legittima patria.
Introduzione
Epistola
VI
Agli
scelleratissimi Fiorentini
L'Epistola porta la
data del 31 marzo 1311, scritta sulla
fonte dell'Arno sulle montagne del
casentino, probabilmente dal castello di
Porciano, nei giorni in cui Arrigo stava
per muovere il suo esercito contro
Cremona e Brescia.
"L'atteggiamento negativo dei
Fiorentini nei confronti di Ludovico di
Savoia nel luglio 1310, la loro assenza
dall'omaggio reso a Losanna e poi in
Torino all'imperatore da poco giunto in
Italia nell'ottobre dello stesso anno,
l'appoggio alla politica avve del re
Roberto d'Angiò, confortato anche
dall'atteggiamento ambiguo e preoccupato
del papa, le opere di rafforzamento
nelle difese della città e infine la
decisione, nel gennaio del 1311, di fare
lega col re di Napoli, con Lucca, Siena,
Perugia e Bologna per resistere
all'imperatore, costituiscono lo sfondo
storico e politico e gli eventi di
cronaca immediata che hanno motivato
l'epistola." (Jacomuzzi)
È una lettera piena di una fierezza
evidente già nell'intitolazione, in cui
i Fiorentini sono chiamati scelestissimi,
cioè scelleratissimi.
Dopo aver premesso che per il bene
dell'umana società e convivenza civile
è necessaria l'autorità della
monarchia (che noi storicamente
chiamiamo "Sacro Impero
d'Occidente"), autorità che
appartiene di diritto al Re dei Romani e
questo è comprovato sia dalle parole
divine che dalla stessa ragione in
quanto cade nel disordine l'Italia
quando la sede imperiale è vacante,
Dante, rivolgendosi ai Fiorentini, li
rimprovera di essersi ribellati contro
l'autorità di Cesare. Dante pone quindi
l'accento sul piano teologico e sacro,
rispetto a quello razionale e
filosofico, trattando del rapporto fra i
popoli d'Italia e l'imperatore,
chiarificando le basi del potere
politico regio e giustificando la
missione dell'imperatore in Italia.
Un concetto, infine, è da mettere in
evidenza, perchè è una considerazione
importante e classica, da far risalire
addirittura a Socrate e Platone: il
rispetto delle leggi, scrive verso la
fine del quinto paragrafo, non è servitù
ma "summa libertas", la
massima libertà, perché la libertà
non è altro che il libero passaggio
della volontà all'azione, passaggio
facilitato proprio dall'esistenza delle
leggi.
Ventinove anni dopo questa epistola e le
rampogne di Dante agli scelleratissimi
Fiorentini, Arrigo VII di Lussemburgo
moriva a Buonconvento, sui confini della
provincia senese, a cinquantanni d'età,
senza che la sua comparsa sotto Firenze
avesse in qualche modo giovato alla
causa dei ghibellini.
Introduzione
Epistola
VII
Ad Arrigo
VII
L'Epistola è stata scritta il 17 aprile
1311 in Toscana presso le sorgenti
dell'Arno, che si trovano sul Monte
Falterona, montagna dell'Appennino che
divide il Casentino dalla Romagna, per
cui qualche critico ha ipotizzato che
fosse stata scritta dal castello di
Porciano, che si trovava a 5 miglia
dalle sorgenti e era un possesso dei
conti Guidi. L'imperatore si trovava
ancora in Milano in procinto di recarsi
con l'esercito ad assediare Brescia, ed
è una delle tre ricordate da Giovanni
Villani nella sua Cronica (la
prima non ci è percenuta): "e
in tra·ll'altre fece tre nobili
pistole; l'una mandò al reggimento di
Firenze dogliendosi del suo esilio sanza
colpa; l'altra mandò a lo 'mperadore
Arrigo quand'era a l'assedio di Brescia,
riprendendolo della sua stanza, quasi
profetezzando; la terza a' cardinali
italiani, quand'era la vacazione dopo la
morte di papa Chimento, acciò che s'accordassono
a eleggere papa italiano; tutte in
latino con alto dittato, e con
eccellenti sentenzie e autoritadi, le
quali furono molto commendate da' savi
intenditori."
"Essa ci
appare non solo come l'ultima di quelle
dedicate all'impresa di Arrigo, ma anche
la suprema, per ricchezza e concretezza
tematica e per altezza oratoria. La
lettera è motivata da pecise
circostanze storiche: la lunga sosta in
Lombardia dell'imperatore occupato a
sedare le discordie milanesi seguite
alla cacciata dei guelfi Torriani
per mano dei Visconti ghibellini e già
preoccupato delle ribellioni di altri
comuni minori (Lodi, Crema, Brescia,
Bergamo, Mantova, Padova, Cremona).
Scritta due giorni prima che Arrigo
lasci Milano per marciare su Cremona,
essa manifesta la lucidissima intuizione
che altrove è il centro effettivo della
opposizione all'impresa imperiale, e
precisamente nella lega che si era
stabilita tra re Roberto e altre città
dell'Italia centrale, e fra queste
soprattutto Firenze, verso la quale
l'imperatore deve muovere senza
indugi." (Jacomuzzi).
Nell'ottobre 1310 Arrigo discende in
Italia e si ferma prima in Torino e poi
in Asti per comporre le discordie fra
guelfi e ghibellini e sedare gli odi di
parte che duravano ormai da molti anni.
Verso la fine di dicembre si trasferisce
in Milano, sempre cercando di metter
pace, mandando un Vicario laddove di
persona non avrebbe potuto andare e
mostrandosi mite e benevolo. In Milano,
nonostante qualche opposizione dei
Torriani, fu incoronato con la corona di
ferro il giorno dell'Epifania del 1311,
ricevendo il giuramento di fedeltà
(vassallaggio) di quasi tutte le città
italiane, tranne Genova, Firenze e
Venezia. Credeva di aver sostanzialmente
pacificato l'Italia settentrionale, dopo
aver mandato Vicari a Como, Mantova
Brescia e Piacenza, e in altre città
meno importanti, tranne a Verona che già
si era mostrata fedele all'impero. Per
potersi assicurare la fedeltà della
Lombardia decise di portare con sè nel
suo viaggio a Roma, un gruppo di
rappresentanti dei Guelfi e dei
Ghibellini, venticinque per parte,
nominati appositamente dal partito
avversario, e creando un Vicario
generale per la Lombardia nella persona
del Conte di Savoia.
Le nomine generarono
comunque dispute e accuse reciproche
insieme alle difficoltà per recuperare
i soldi per pagare il Vicario generale,
tanto che le due parti, ghibellini
capitanati dai Visconti e guelfi
capitanati dai Torriani cominciarono a
nutrire sospetti reciproci. Cominciarono
gli scontri fra le due fazioni e i
Torriani furono sconfitti e cacciati da
Milano, nella quale avevano fino a quel
momento mantenuto un largo predominio, e
fu fatto in modo che mai più potessero
rimettere piede nella città.
Questa cacciata originò a sua volta un
fuovco di ribellione, che esplose il 20
febbraio, quando Mantova, Padova, Lodi,
Crema, Bergamp, Brescia e Cremona
dichiararono di non voler più ubbidire
all'autorità imperiale. Arrigo rimase
incerto, se dovesse procedere verso
Firenze, e castigarla, e Roma per
prendere la corona imperiale, o prima
castigare le città ribelli. Su
consiglio di Frate Gualdrano, rivolse le
armi innanzitutto contro Cremona, con le
lamentele di tutti i ghibellini che
aspettavano l'imperatore in Toscana e
speravano di rientrare in Firenze.
Mentre l'imperatore era accampato sulle
rive del Po, intento all'assedio, Dante,
impaziente per il tempo che si stava
consumando inutilmente nell'attesa
scrisse questa lettera a nome anche
degli altri fuorusciti toscani. In essa
in Poeta scrive che i suoi fedeli
toscani si meravigliano del ritardo
della sua venuta e che la vittoria
finale non poteva essere ottenuta contro
le città lombarde, ma contro la Toscana
e Firenze, e che sarebbe stato dannoso
il differire ulteriormente l'assalto. La
lettera si chiude con un invito a
rompere gli indugi, predicendogli un
sicuro trionfo che porterà la pace non
solo alla Toscana, ma a tutta l'Italia.
La lettera, scrive ancora Jacomuzzi,
" è la più ricca e distesa nelle
citazioni classiche e scritturali, e per
le seconde, la più ardita nella
caratterizzazione sacrale
dell'imperatore; ma la sua originalità
che preme all'interno dei moduli della
tradizione retorica, sta nella
compresenza di una attenzione concreta
ai dati particolari della
situazione."
Introduzione
Epistola
VIII
La lettera, che non è
esplicitamente attribuita a Dante, è
contenuta nel Vaticano-Palatino
1729, uno dei codici che, come afferma
il Fraticelli, Massimiliano di Baviera
donò a papa Gregorio XV. Il codice
contiene, insieme al De
Monarchia e alle dodici egloghe di
Petrarca, nove epistole di Dante, tra le
quali quelle comunemente contrassegnate
coi numeri VIII-IX-X, ed occupano il
posto il posto tra la lettera che viene
indicata nelle varie raccolte raccolte a
stampa col numero VI (Epistola ai
fiorentini) e quella che verrà indicata
col n. II (Epistola ai conti Guido e
Oberto da Romena). Non tutti sono
d'accordo nell'attribuire queste tre
epistole a Dante, perché manca
qualsiasi logico riferimento a una loro
autentica composizione di mano del
Poeta; ma ciononostante, il fatto che
fossero state trascritte tra le epistole
di Dante, le convergenze con altri
luoghi danteschi, l'atteggiamento nei
confronti dell'Impero e che Dante
conosceva Caterina di Battifolle, della
quale era stato anche ospite ben
accolto, fa propendere molti critici a
pensare che Dante le avesse scritte a
nome della contessa.
Scrive
il Fraticelli, fra coloro che negano
l'attribuzione a Dante: "Le tre
lettere appartengono alla contessa
Caterina di Battifolle, moglie del conte
Guido Salvatico, signore di Poppi.
Perciocché queste si veggono unite nel
codice Vaticano a sei di Dante, suppose
il Torri, e supposero altri, che fossero
alla contessa state dettate da Dante,
quasi come di lei segretario. Ma volendo
pur dare a questa ardita ipotesi il
valore d'un fatto vero o reale, consegue
forse che le tre lettere all'Alighieri
appartengano? Qual relazione a Dante
possano avere le proteste di fede e
augurii di felicità, che la contessa
Caterina fa a Margherita di Brabante,
moglie d'Arrigo VII? E quelle lettere
contengon elle almeno una qualche
notizia storica d'importanza, sì che,
illustrando i tempi di Dante, non
demeritino di far corredo agli scritti
di lui; quando, secondochè dice lo
stesso Torri, Caterina non fa in esse
che ringraziare la cortesia della
imperatrice, e darle nuove di sè e
della sua famiglia? Con ragione io credo
adunque di poterle escludere
dall'epistolario di Dante."
Sul piano
storico le lettere confermano la
permanenza di Dante nel castello di
Poppi, nel Casentino, nel feudo dei
Conti Guidi, al confine del territorio
fiorentino in un momento in cui
l'impresa di Arrigo VII avrebbe potuto
veramente decidere i destini da una
parte dell'Italia divisa e disordinata
dagli appetiti di molti e dall'altra dei
fuorusciti ghibellini fiorentini.
L'epistola fu scritta presumibilmente
tra l'estate 1310 (v. Fraticelli) e
l'aprile del 1311 (v. Jacomuzzi), in
concomitanza con la prima fase
settentrionale della discesa di Arrigo
VII di Lussemburgo in Italia, mentre gli
emissari dell'imperatore visitavano le
varie importanti città dell'Italia
settentrionale per guadagnare alla causa
imperiale gli indecisi e per
incoraggiare gli altri che già erano
fedeli. La lettera contiene grandi
ringraziamenti da parte di Gherardesca
di Donoratico, figlia del Conte Ugolino
della Gherardesca e moglie di Guido
Simone di Battifolle, dei Conti Guidi,
per la particolare prova d'affetto che
l'imperatrice Margherita di Brabante
(che morirà a Genova, dove verrà
sepolta il 14 dicembre 1311) ha voluto
darle mandandole notizie di se stessa e
del marito e augurandole che l'Impero
possa essere restaurato dalle gloriose
imprese del Principe Enrico in un'epoca
che si presenta delirante.
Introduzione
Epistola
IX
(per la parte generale vedi
l'introduzione alla lettera VIII)
Questa seconda lettera esprime quanto
Gherardesca di Donoratico, figlia del
Conte Ugolino della Gherardesca e moglie
di Guido Simone di Battifolle, dei Conti
Guidi, prenda parte alla gioia
dell'imperatrice Margherita di Brabante
(che morirà a Genova, dove verrà
sepolta il 14 dicembre 1311) consorte di
Arrigo VII di Lussemburgo per i felici
avvenimenti che le aveva comunicato per
lettera, forse quelli di Asti del
novembre 1310 (che porterebbero a una
approssimativa datazione di questa
lettera al periodo prenatalizio di
quello stesso anno, secondo il
Fraticelli), oppure alla pacificazione
di Lodi conseguita dall'imperatore dopo
la sua partenza da Milano del 19 aprile
e ai progressi della sua azione contro
Cremona. Noi propendiamo per l'ipotesi
Fraticelli, perché il 17 aprile Dante
aveva scritto all'imperatore una lettera
addirittura furente in qualche punto,
invitandolo a rompere gli indugi, a non
perdere tempo in Lombardia, perché il
male da estirpare si trovava in Toscana.
Introduzione
Epistola
X
(per la parte
generale vedi l'introduzione
all'Epistola VIII)
Questa terza lettera, scritta da
Gherardesca di Donoratico, figlia del
Conte Ugolino della Gherardesca e moglie
di Guido Simone di Battifolle, dei Conti
Guidi, all'imperatrice Margherita di
Brabante (che morirà a Genova, dove
verrà sepolta il 14 dicembre 1311), è
l'unica datata: scritta a Poppi, val
d'Arno superiore il 18 maggio 1311, e
"contiene nuove proteste di
congratulazione; alle quali
sull'espressa domanda dell'imperatrice
ella aggiunge alcune parole sullo stato
di sua salute, di quella del suo marito,
e de' figli (Fraticelli).
Introduzione
Epistola
XI
Ai
cardinali italiani
Dopo la morte di Clemente V, 24
cardinali si radunarono in conclave a
Carpentras, cittadina della Provenza,
sei italiani e 18 francesi o devoti alla
parte francese; i primi volevano un papa
italiano che riportasse la sede
pontificia in Roma, por porre fine ai
mali che laceravano la Chiesa e
l'Italia, ma troppo forte era il partito
francese, da cui già era uscito il
precedente papa, per lasciarsi sfuggire
una elezione che ritenevano molto
importante.
Dante scriva quindi
questa lettera, indirizzata ai cardinali
italiani che già stavano partecipando
al conclave, affermando il suo
attaccamento alla religione cattolica e
il suo profondo dolore nel vedere Roma e
la sede pontificia abbandonata e deserta
e il diffondersi della piaga delle
eresie, fino a rimproverare aspramente i
prelati a non condurre il gregge dei
fedeli a Cristo per false vie e a non
far mercato delle cose sacre. Infine
volge la parola ai cardinali Napoleone
Orsini e Francesco Gaetani (gli altri
quattro erano Iacopo e Pietro Colonna,
Guglielmo Longo e Niccolò da Prato) per
esortarli a tener presente la misera
Roma sola e vedova delle sue due luci,
il papa e l'imperatore. Ma vani furono i
voti di Dante e gli sforzi dei cardinali
italiani, perché troppo potente e
prepotente era il partito dei Guasconi,
reso più forte dall'ambizione del re di
Francia.
L'asprezza di Dante è giustificata
dallo svolgersi degli eventi: già il
papa guascone Clemente V, così
riportano concordemente gli storici
dell'epoca, era stato eletto con
"uno sconvenevole e vergognoso
accordo" con Filippo IV il Bello
(il Continuatore del Baronio, Giovanni
Villani, Martino Polono, lo stesso
biografo del pontefice); nel corso del
suo pontificato la Chiesa, afferma lo
stesso Napoleone Orsini che partecipò
al conclave per eleggere il successore,
cade in una estrema rovina, spogliata e
confusa, tutta l'Italia lasciata sola e
abbandonata, porta la sede papale in un
angolo lontano della Guascogna e queste
cose le aveva concepite sin dai primi
momenti del suo pontificato.
Durante il conclave i cardinali italiani
appoggiarono l'elezione di Guglielmo
vescovo di Preneste, di conosciuta onestà,
che avrebbe portato a Roma la sede
papale: ma difficile era raggiungere un
accordo. Il 14 luglio, i cardinali
francesi, appoggiati da bande guasconi
guidate da Bertrand de Born, nipote del
defunto pontefice Clemente V, irruppero
colle spade in mano nel conclave
minacciando i cardinali italiani che
furono costretti a sgombrare il salone e
a fuggire. Dopo due anni di trattative,
le due fazioni tornarono a riunirsi,
senza che Luigi X, primogenito di
Filippo il Bello e suo successore al
trono, riuscisse a metterle d'accordo.
Ma il 28 giugno 1316 Filippo V, fratello
di Filippo IV, succedutogli nel
frattempo aul trono, si impose con la
forza e rinchiuse i cardinali presenti a
Lione nel convento dei Domenicani: il 7
agosto venne nominato il nuovo papa , il
guascone Jacques-Arnaud d'Euse, nativo
di Cahors che assunse il nome di
Giovanni XXII, che fissò la sua
residenza ad Avignone di cui era
vescovo.
Introduzione
Epistola
XII
All'amico
fiorentino
L'abate
Mehus studiando il manoscritto della
Biblioteca Laurenziana contrassegnato
come VIII, Plut.
XXIX, capì che la lettera era di
Dante, e di
questa sua scoperta fece partecipe il
Canonico Dionisi, che se ne valse subito
pubblicando la lettera nel quinto Libro
dei suoi Aneddoti (Verona 1790). Anche
il Foscolo la stampò nel suo volume di Saggi
sul Petrarca; la prima
edizione che può definirsi criticamente
corretta è ad opera dello studioso
Witte nel 1827.
L'Epistola
fu scritta nel maggio 1315 (secondo
Jacomuzzi, Dionisi nella sua Vita
di Dante e altri) e
indirizzata a un amico, che Dante chiama
due volte "pater" che, insieme
al richiamo a un comune nipote, fa
pensare a un rapporto di parentela e
allo status di religioso
dell'amico-parente. Il nipote potrebbe
essere Niccolò di Fusino di Manetto
Donati, figlio di un fratello di Gemma,
del quale si ha notizia che partecipò,
nel tempo appunto di questa lettera,
alla battaglia di Montecatini (29 agosto
1315) e che fu in stretta relazione con
la famiglia di Dante, restando al fianco
dei suoi figli.
Il
19 maggio 1315 il Comune di Firenze
approvò un'amnistia a tutti gli
esiliati, e questa volta senza
limitazioni (dalla precedente, infatti,
Dante era stato volutamente e
dichiaratamente escluso), che sarebbero
rientrati in Firenze, o liberati dal
carcere, il 24 di giugno, in occasione
della festa del Patrono della città. La
cerimonia per gli amnistiati prevedeva
che partendo dal carcere, avrebbero
dovuto percorrere il tragitto in
processione a piedi scalzi, vestiti d'un
sacco, con una mitra di carta con sopra
scritto il nome e il reato dei
malfattori in capo, un cero acceso in
una mano e una borsa con danaro
nell'altra, fino al Battistero, al
"bel San San Giovanni", dove
venivano offerti in stato di pentimento
all'altare e al santo della città.
Compiuto questo rito sarebbero stati
reintegrati nei loro beni e in ogni loro
altro diritto. Se si trattava di
fuorusciti politici che, al momento del
provvedimento non erano in carcere, l'oblatio
consisteva nel toccare simbolicamente
col piede la soglia del carcere e quindi
presentarsi al tempio, senza
l'umiliazione della mitra né altre
condizioni degradanti.
Secondo Altri (Foscolo, Fraticelli)
l'epistola fu scritta alla fine di
dicembre del 1316 o, più
verosimilmente, al principio di gennaio
del 1317 (che per i fiorentini era
ancora il 1316 in quanto il loro anno
cominciava il 25 marzo). Queste date
sono state ricostruite dal Fraticelli
attraverso i documenti conservati
nell'Archivio delle Riformagioni, che
nel 1316 riporta tre provisioni
o stanziamenti per riammettere
in città ribelli e banditi:
- 2 giugno - Libro n.
15, classe 2, Dist. 2, pag. 181;
- 3 settembre -
Libro n. 16, classe 2, Dist. 2, pag. 10;
- 11 dicembre - Libro
16, classe 2, Dist. 2, pag. 36.
Proprio a quest'ultimo provvedimento si
riferisce il Fraticelli
Nel 1316, caduto in basso Uguccione
della Faggiuola, che fino a quel momento
era stato il principale sostenitore dei
ghibellini, i fiorentini nel mese di
ottobre, elessero il conte Guido da
Battifolle all'ufficio di Potestà,
rimuovendo dall'incarico il feroce Lando
da Gubbio, e due mesi dopo a tutti i
fuorusciti e banditi dalla città di
poter rientrare a certe condizioni in
Firenze, con una solenne cerimonia che
si sarebbe dovuta tenere, come abbiamo
visto, il 24 giugno, giorno di San
Giovanni.
Ma le condizioni del ritorno erano per Dante
troppo umilianti e gravose (avrebbe
dovuto pagare anche una certa quantità
di denaro. Con sdegno rifiuta
l'umiliante proposta: mai avrebbe
accettato di stare a fianco di
malfattori, come Ciolo degli Abati, che,
condannato nel 1291, era stato poi
assolto proprio mediante una amnistia.
Come Dante si trovava tra gli esuli
contumaci, anche lui escluso dalla
riforma di Messer Baldo d'Aguglione del
settembre 1311.
All'amico risponde con questa lettera,
dichiarandosi pronto a rientrare, ma con
tutto il rispetto dovuto alla sua
innocenza conclamata e a tutti manifesta
e al suo lavoro, per il quale in esilio
non gli manca il pane e può continuare
i suoi studi, a cercare le dolcissime
verità.
Introduzione
Epistola
XIII
A
Cangrande
L'opinione generale vuole che Dante si
trovasse a Verona, alla corte di Can
Grande della Scala, verso la fine del
1316 o all'inizio dell'anno seguente,
quando Uguccione della Faggiuola, capo
riconosciuto e sostenitore dei
ghibellini toscani, perduta la signoria
di Pisa e di Lucca, riparò alla corte
di Verona, ricevendo da Can Grande
l'invito a prendere il comando delle sue
truppe.
La lettera, considerata come
l'introduzione alla terza cantica della Commedia,
contiene l'esposizione del primo canto
del Paradiso, che Dante,
possiamo arguire, aveva appena
cominciato a scrivere e che dedicava
allo Scaligero. Di essa abbiamo una
tradizione manoscritta indubbiamente più
ricca di tutte le altre lettere e
frequenti testimonianze nei commenti più
antichi (Jacopo della Lana, l'Ottimo,
Guido da Pisa, Giovanni Boccaccio nel
suo commento del 1373, Filippo Villani
che, adempiendo nel 1391 all'ufficio di
pubblico lettore della Commedia,
cominciò la sua esposizione appunto con
questa lettera, che egli chiama
introduzione sopra il primo canto del Paradiso,
citandone testialmente le parole).
La lettera, scrive
Jacomuzzi, "si presenta distinta in
due parti:
- la prima
dal primo paragrafo a quasi tutto il
quarto (fino alle parole «itaque,
formula consumata epistole»), si
configura come una lettera dedicatoria
nella quale l'autore, dopo aver tessuto
l'elogio di cangrande, e manifestato la
propria gratitudine, offre la dedica
della terza cantica della Commedia,
«que decoratur titulo Paradisi», al
signore scaligero, come il dono più
degno e conveniente a contraccambiare e
conservare la sua amicizia;
- la seconda è condotta
come un compendioso trattato
introduttivo al Paradiso,
illustrato negli elementi - soggetto,
forma e titolo - nei
quali la cantica differisce dal poema
nella sua totalità e in quelli - autori,
fine e genere di filosofia
- che essa ha in comune col tutto;
conclude questa parte un commento
particolareggiato al prologo della
cantica, che bruscamente viene
interrotto e rinviato per le difficoltà
materiali che in quel momento
opprimevano il Poeta."
La seconda parte, indubbiamente, è la
più importante, perchè la sua opera è
di natura polisensa,
racchiudendo più sensi:
1 - il letterale,
che è quello che si ottiene alla
semplice lettura e si identifica col
senso storico; tutto il racconto della
Commedia si propone come evento reale, e
quindi storico;
2 - l'allegorico,
(allegoria deriva da 'alloios', una
parola greca che significa 'diverso')
che racchiude il significato nascosto
nel significato letterale e diverso
da questo, che può essere riassunto
nella nostra redenzione operata da
Cristo; e questo racchiude due ulteriori
significati:
2-a
- il significato morale,
che porta a comprendere la conversione
dell'anima dal pianto e dalla miseria
del peccato allo stato di grazia;
2-b
- il significato anagogico,
che porta a comprendere, nei fatti e nei
personaggi narrati, il passaggio
dell'anima santa dalla schiavitù della
corruzione contingente dell'esistenza
alla libertà dell'anima nell'eternba
gloria della Salvezza.
Dante passa quindi a trattare la
spiegazione del titolo della sua opera,
del significato di Commedia
distinguendolo da quello di Tragedia,
che differiscono sia per per le cose
trattate (i contenuti) che per il modo
in cui sono trattate (la lingua), e
infine tratta la spiegazione del
soggetto.
http://www.fausernet.novara.it/fauser/biblio/bios/bio048.htm
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