Maria
Adele Garavaglia - Giuseppe Bonghi
Biografia
di
Dante
Alighieri
Di
antica nobiltà sono i suoi antenati,
discendenti addirittura dai Romani.
Cacciaguida, suo trisavolo, a Firenze
vive con le famiglie dei fratelli
Moronto ed Eliseo, nella zona del
Mercato Vecchio; armato cavaliere
dall'imperatore Corrado III, mentre era
al suo seguito durante la seconda
Crociata, muore in Terrasanta. La
moglie, una Alighiera forse di Ferrara,
gli dà dei figli, uno dei quali si
chiama come lei, Alighiero I, da cui
derivano i rami dei Bellincione e dei
Bello. Al primo appartiene Durante,
chiamato Dante, figlio di Alighiero II e
nipote di Bellincione.
Il
padre di Dante vivacchia facendo il
cambiavalute e forse anche l'usuraio, a
giudicare da alcune voci maligne. Abita
nel Sesto di Porta San Pietro, è di
tradizione guelfa, ma non si getta certo
nel vivo della lotte faziose; è figura
scialba che il poeta passa sotto
silenzio. Dante nasce in una casa posta
di fronte alla Torre della Castagna,
verso la fine del mese di maggio del
1265, sotto la costellazione dei Gemelli
da Alighiero Alighieri di Bellincione e
da donna Bella (Gabriella) di casato
ignoto e battezzato in San Giovanni.
Così
racconta Boccaccio:
Del
quale, come che alquanti figliuoli e
nepoti e de' nepoti figliuoli
discendessero, regnante Federico
secondo imperadore, uno ne nacque, il
cui nome fu Alighieri, il quale più
per la futura prole che per sé doveva
esser chiaro; la cui donna gravida,
non guari lontana al tempo del
partorire, per sogno vide quale doveva
essere il frutto del ventre suo; come
che ciò non fosse allora da lei
conosciuto né da altrui, e oggi, per
lo effetto seguìto, sia
manifestissimo a tutti.
Pareva
alla gentil donna nel suo sonno essere
sotto uno altissimo alloro, sopra uno
verde prato, allato ad una chiarissima
fonte, e quivi si sentia partorire
unofigliuolo, il quale in brevissimo
tempo, nutricandosi solo delle orbache,
le quali dello alloro cadevano, e
delle onde della chiara fonte, le
parea che divenisse un pastore, e
s'ingegnasse a suo potere d'avere
delle fronde dell'albero, il cui
frutto l'avea nudrito; e, a ciò
sforzandosi, le parea vederlo cadere,
e nel rilevarsi non uomo più, ma uno
paone il vedea divenuto. Della qual
cosa tanta ammirazione le giunse, che
ruppe il sonno; né guari di tempo
passò che il termine debito al suo
parto venne, e partorì uno figliuolo,
il quale di comune consentimento col
padre di lui per nome chiamaron Dante:
e meritamente, perciò che
ottimamente, sì come si vedrà
procedendo, seguì al nome l'effetto.
Questi
fu quel Dante, del quale è il
presente sermone; questi fu quel Dante
che a' nostri seculi fu conceduto di
speziale grazia da Dio; questi fu quel
Dante, il qual primo doveva al ritorno
delle Muse, sbandite d'Italia, aprir
la via. Per costui la chiarezza del
fiorentino idioma è dimostrata; per
costui ogni bellezza di volgar parlare
sotto debiti numeri è regolata; per
costui la morta poesì meritamente si
può dir suscitata: le quali cose,
debitamente guardate, lui niuno altro
nome che Dante poter degnamente avere
avuto dimostreranno.
La
madre muore ancor giovane, lasciando il
figlioletto in tenera età; subito dopo
il padre Alighiero si risposa con Lapa
di Chiarissimo Cialuffi che gli dà due
figli; Francesco e Tana (Gaetana). Prima
del 1283 Anche il padre muore, ma già
dal 1277 (Dante ha 12 anni) aveva
"provveduto al futuro coniugale del
figlio, stipulando l'instrumentum
dotis, una specie di fidanzamento
ufficiale garantito con atto notarile,
col quale Dante veniva promesso in
matrimonio a Gemma Donati".
Poco
si sa dell'infanzia del poeta; studia
presso i francescani, poi ascolta le
lezioni di retorica di Brunetto Latini e
segue le lezioni di diritto, filosofia e
forse anche di medicina all'Università
di Bologna, fra l'estate del 1286 e la
primavera del 1287. Nel 1274 (all'età
di nove anni, come afferma nella Vita
nova) conosce Beatrice, figlia di
Folco Portinari, che andrà sposa a
Simone Bardi, e la rivede nove anni
dopo, nel 1283: è l'avvenimento amoroso
decisivo della sua vita, che durerà
anche dopo la morte della donna avvenuta
nel 1290.
Giovanissimo,
da vero autodidatta comincia a dire
parole per rima, assorbendo la
lezione dei numerosi poeti fiorentini,
di scuola guittoniana e stilnovista. La
sua curiosità e il desiderio di
sperimentare tecniche diverse, lo
inducono a tentare anche il genere
giocoso e forme poetiche di vario
genere, in componimenti raccolti nelle Rime.
I suoi primi tentativi sono opere
anonime come il Fiore, che
ripropone in 232 sonetti l'allegoria del
Roman de la Rose (dei francesi
Guillaume de Lorris e Jean de Meung),
completato intorno al 1280 e il Detto
d'Amore, poemetto allegorico che
segna il trapasso ai moduli
guinizelliani. Questi due componimenti,
comunque, solo da Gianfranco Contini e
pochi altri, con argomenti puramente
indiziari, sono attribuiti a Dante: i
dubbi restano molti.
Non
mancano le esperienze tipicamente
giovanili, di prammatica per un nobile
rampollo di un comune del Duecento; l'1
giugno del 1289 combatte nella battaglia
di Campaldino‚ contro Arezzo e i
ghibellini toscani, mentre nell'agosto
dello stesso anno partecipa all'assedio
del castello di Caprona, in Valdarno,
tenuto dai ghibellini. Ma la guerra non
fa per lui; meglio la letteratura e
anche la politica, intesa come dovere e
contributo al pubblico bene.
L'amore,
come abbiamo detto, si impersona
nell'austera e angelica Beatrice, moglie
di Simone dei Bardi e figlia di un
ricchissimo borghese che ha donato alla
città l'ospedale degli Innocenti, Folco
Portinari. L'ha conosciuta a nove anni,
la rivede e ne riceve il saluto a
diciotto; l'ama in silenzio, pago di
vederla, di ricevere la salute dello
spirito dal suo saluto per via, di
lodarla nelle sue liriche quando lei,
forse per le voci che circolano sul suo
conto, gli toglie anche questo esile
filo di comunicazione. Dante, infatti,
per evitare i pettegolezzi, finge di
corteggiare altre donne. La sua morte ha
il potere di prostrare Dante sino
all'abbrutimento, da cui esce con
l'aiuto di amici, conoscenti, forse
anche di fanciulle pietose, sogni
premonitori; decide, allora, di scrivere
per Beatrice qualcosa di straordinario e
inedito, qualcosa che nessun altro prima
d'allora, mai aveva pensato in onore di
una donna. E intanto pubblica nel
1292-93 un prosimetro (insieme di
poesie e prose), intitolato Vita
nuova in cui ricostruisce le fasi e
la storia del suo amore per la
fanciulla-angelo che gli sembra essere
scesa in terra a miracol mostrare,
tanto intensa è la bellezza e purezza
della sua immagine.
Beatrice,
guida di Dante nel Paradiso e
sollecitata dal Cielo a trarlo dalla
vita di traviamento in cui s'è lasciato
cadere dopo la sua morte, sembrerebbe
l'obiettivo della Commedia; ma il
poema, forse, al di là delle stesse
aspettative del poeta, diventerà qualcosa
di più che una semplice apologia
della donna amata.
Abbandonati
i divertimenti giovanili, Dante si
dedica agli studi di filosofia (Boezio,
Cicerone, Aristotele, Platone, san
Tommaso d'Aquino) e di teologia presso i
Domenicani di Santa Maria Novella e
presso i Francescani di Santa Croce; fra
l'estate del 1286 e l'agosto del 1287 lo
troviamo a Bologna, a seguire le lezioni
di diritto, filosofia e forse anche di
medicina.
Intanto,
probabilmente nel 1285, comunque prima
del 1290, Dante si sposa con Gemma di
Manetto Donati parente del fazioso
Corso; dalla moglie, sulla quale non
scriverà mai una riga, ha tre figli:
Iacopo, Pietro e Antonia (forse la suor
Beatrice del Convento di Santo Stefano
degli Olivi a Ravenna) e probabilmente
un Giovanni che premuore al padre, ma
risulta da un atto notarile del 1308.
Quale parte abbia avuto Gemma nella vita
di Dante, non sappiamo. "Fu la
madre de' suoi figli e la reggitrice
della casa. E paga di tanto ufizio,
ella, secondo ogni probabilità, più
oltre non ambì. Il marito era poeta, e
cercava la vita dove le consuetudini del
tempo gliela facevano trovare. Perciò
il matrimonio non gli impedì di
continuare a cantare la donna che aveva
fino allora servito... (Umberto Cosmo,
Vita di Dante, La nuova Italia,
Firenze 1965, III edizione).
A
trent'anni, nel 1295, Dante può
buttarsi in politica, dopo che sono
stati parzialmente rettificati gli Ordinamenti
di Giustizia di Giano della Bella
che, in origine (1293), impedivano ai
nobili di accedere alle cariche
pubbliche. Ora un nobile che sia
iscritto alla matricola di un'Arte, può
essere eletto nel Consigli del popolo e
al Priorato. Dante diviene membro
dell'Arte dei Medici e Speziali, la meno
lontana dalle sue attitudini di
intellettuale, poeta e scienziato. Non
gli è difficile venire eletto; a
Firenze tutti lo conoscono come uomo
accorto, colto, equilibrato. Nel
semestre novembre 1295-aprile 1296 è
membro del Consiglio speciale del
Capitano del Popolo: 36 cittadini, sei
per sestiere (i quartieri di Firenze):
Dante era stato eletto con altri cinque
compagni per il "sesto" di Por
San Pietro; nel dicembre 1296 viene
invitato, come uno de' Savi, nel
Consiglio delle Capitudini a dire il suo
parere sulla procedura, che si sarebbe
dovuta seguire per la nomina dei nuovi
Priori. "Nel Consiglio dei Capitani
- quale ne fosse la ragione - non
profferì verbo; in quello delle
Capitudini confortò della sua autorità
il parere di un altro Savio: Dantes
Alaghieri consuluit. (Cosmo, cit.).
Nel
maggio 1296 è nel Consiglio dei Cento,
che si occupa dell'amministrazione del
pubblico denaro, quattro anni, il 7
maggio, dopo viene inviato come
ambasciatore a san Gimignano per
rafforzare la lega Guelfa tra i comuni
della Toscana e serviva a Firenze per
esercitare la sua egemonia. Il 15
giugno, come continuatore della politica
di resistenza del Comune contro le
ingerenze e le sopraffazioni del
Pontefice, proprio mentre si trovava in
città il Cardinale d'Acquasparta
mandatovi in apparenza come paciere fra
le opposte fazioni, è chiamato a far
parte della Signoria: è il momento
della massima considerazione goduta il
patria. Ma ovunque volge lo sguardo vede
violenza e cupidigia che generano
scontri violenti di fazioni, la voglia
del Papa Bonifacio VIII di piegare
Firenze alla sua egemonia politica. Il
1300 è un anno cruciale per la città.
A Calendimaggio nella piazza di Santa
Trinità scoppia una zuffa tra giovani
esponenti della fazione dei Guelfi neri
(capeggiata da Corso Donati, violento e
fazioso, e dei Guelfi bianchi (guidata
da Vieri dei Cerchi, commercianti
inurbatisi da poco).
La
tensione tra e Bonifacio VIII è
altissima e negli ultimi tempi si era
acuita per la condanna di tre cittadini
fiorentini, Guelfi Neri e banchieri
della Corte di Roma, per macchinazioni
contro la libertà di Firenze e della
Toscana. Il Papa si sente colpito dalla
condanna ed esige che vengano annullati
processo e condanna: ma la Signoria
resiste imperterrita, firma la sentenza
di condanna dei cospiratori, impedisce
con una provvisione dei Consigli ogni
intromissione pontificia nell'esercizio
della giurisdizione cittadina e frena le
facoltà stesse dell'inquisitore romano.
Il 15 giugno entra in carica la nuova
Signoria e il Notaio della Camera del
Comuni presenta nelle mani dei Nuovi
Priori la condanna inflitta ai tre
cittadini fiorentini residenti presso la
corte di Roma. Comincia così il primo
giorno del Priorato di Dante, eletto
Priore per il bimestre 15 giugno-15
agosto 1300, proprio quando più
insistenti si fanno i tentativi di papa
Bonifacio VIII di mettere le mani su
Firenze, attraverso gli intrallazzi del
suo legato, cardinal Matteo d'Acquasparta,
apparentemente incaricato di pacificare
le fazioni in lotta.
Il
23 giugno una nuova zuffa, ai danni dei
consoli delle Arti, che, come era
usanza, andavano in processione a San
Giovanni, insanguina le vie della città.
I priori decidono, pare proprio per
suggerimento di Dante, di espellere i
capi più sediziosi delle due parti. In
esilio andrà pure Guido Cavalcanti, il
migliore amico di Dante.
Finito
il suo priorato, Dante non rinuncia a
dar battaglia a Bonifacio VIII, mandando
a monte alcune sue iniziative
egemoniche. Nel 1302, per evitare una
rottura con il pontefice, Firenze invia
alla Corte romana tre ambasciatori:
Dante, Maso Minerbetti che aveva buone
conoscenze presso la Curia romana, e
Guido Ubaldini degli Aldobrandi detto il
Corazza, uomo 'guelfissimo', che era
stato Gonfaloniere della Signoria,
principale autore del processo contro i
tre fiorentini di cui abbiamo detto.
L'ambasceria
si presentava in atto di sottomissione,
confidando in un atto di resipiscenza
del Papa, di "quel peccatore di
grande animo. In Laterano il Pontefice
accolse l'ambasceria: "così Dante
si trovò finalmente di fronte all'uomo
che in nome del Dio ond'era sacerdote si
proclamava padrone del mondo: un uomo
dal corpo disfatto, cui non rimanevano
più che lingua e occhi; l'impressione
che da quel colloquio il poeta ritrasse
di quell'uomo, ironico, sarcastico,
satanicamente tentatore, è rimasta in
alcuni atteggiamenti di una scena famosa
del canto XXVII dell'Inferno."
(Cosmo, cit.). Il Papa chiede
agli ambasciatori di umiliarsi e
sottomettersi a lui e afferma che le sue
azioni erano dirette solo al bene della
città; rimanda indietro gli altri due e
trattiene Dante.
La situazione è
grave; sta scendendo in Italia, con
cinquecento cavalieri, il fratello del
re di Francia, Carlo di Valois, che
entra in Firenze il 1 novembre, con il
pretesto di pacificarla. In realtà i
Neri approfittano del cambiamento di
regime, intrallazzando con Carlo. Corso
Donati e i fuorusciti fanno ritorno,
vendicandosi crudelmente sui beni e sui
familiari, oltre che sulle persone dei
nemici. La casa di Dante viene
saccheggiata, mentre il nuovo podestà,
favorevole ormai ai Neri, bandisce i più
importanti esponenti dei Bianchi dalla
città. Dante, che si è sottratto in
tutta fretta dall'assillante protezione
di Bonifacio VIII, viene raggiunto a
Siena dalla condanna all'esilio per due
anni, il 27 gennaio 1302. È stato
accusato di baratteria, con l'ammenda di
5.000 fiorini. La pena viene trasformato
in condanna al rogo il 1° marzo
successivo, poiché il poeta non si è
presentato a discolparsi, per timore
della cattura.
L'esule
Uno dei massimi
dantisti italiani, Michele Barbi (Dante,
Vita opere e fortuna, Firenze,
Sansoni, 1952), nota che l'esilio fa di
Dante un uomo sopra le parti, lo spoglia
del suo municipalismo, per renderlo
cittadino d'Italia. Il Foscolo
nell'Ottocento, sposa la tesi di un
ghibellinismo del poeta che, allontanato
dalla patria, si accosta al partito
avverso e rivaluta il ruolo
dell'imperatore. In effetti l'esilio
muta radicalmente la vita del poeta;
l'inizio è durissimo, come egli stesso
confessa nel Canto XVII del Paradiso.
Si tratta di lasciare le persone care, i
luoghi sicuri, i beni che danno
sostentamento. Si trova in balìa della
sorte e con la pessima etichetta di
bandito dalla patria, come funzionario
corrotto e ladro del pubblico denaro (in
questo consiste l'accusa di baratteria
con cui a Firenze i Neri giustificano il
bando del poeta).
Nei
primi tempi egli si unisce ai fuorusciti
bianchi per tentare di rientrare in città
con la forza: è presente a Gorgonza‚
e a San Godenzo, dove l'8 giugno 1302 i
guelfi Bianchi e i Ghibellini stringono
un'alleanza e si accordano con gli
Ubaldini di Mugello contro i Guelfi
neri. Ma l'impresa fallisce. La necessità
di sopravvivere trasforma Dante in uomo
di corte; lo troviamo come poeta,
segretario, ambasciatore, delegato dei
maggiori signori dell'Italia
settentrionale che gli offrono ospitalità,
accettata con buona grazia, ma vissuta
come una durissima umiliazione.
Nel
1303 è segretario presso il signore di
Forlì Scarpetta Ordelaffi, poi si
sposta a Verona, presso Bartolommeo
della Scala. L'anno successivo partecipa
alla delegazione di Parte Bianca che
tratta la pace con i Neri di Firenze,
attraverso la mediazione del legato
pontificio Niccolò da Prato. Intanto
Bonifacio VIII è morto e gli è
succeduto Benedetto XI. La trattativa
non va in porto, i Bianchi organizzano
una sortita violenta che si risolverà
nella sanguinosa e drammatica battaglia
della Lastra (1304). Tra polemiche,
accuse ingiuste, sospetti, Dante si
toglie dal gruppo e preferisce lottare
da solo per la propria vita, aspettando
una congiuntura politica più favorevole
per il ritorno in città. Già da un
anno la condanna comminatagli dai
magistrati fiorentini è stata estesa ai
suoi figli, quando raggiungeranno l'età
di quattordici anni; è giunto il
momento di rafforzare la sua posizione,
e, benché esule, acquisire fama,
prestigio, dignità che gli consentano
di vivere alla meno peggio lontano dalla
patria. Il problema maggiore è la
questione economica che il fratello
cerca di alleggerire con prestiti. Per
guadagnarsi buona fama, Dante inizia la
stesura di trattati e opere letterarie,
che rappresentino una sorta di biglietto
da visita per i suoi futuri ospiti.
Nel
1304 inizia il Convivio, un
banchetto di sapere che rimane
incompiuto e che, steso in volgare, si
indirizza ai nobili che vogliano
approfondire la propria cultura. Rimane
incompiuto al quarto libro: dopo il
trattato iniziale, gli altri chiosano
tre canzoni che saranno citate nella Commedia;
Voi che 'intendendo il terzo ciel movete
(sulle gerarchie angeliche), Amor che
nella mente mi ragiona sulla scienza
e la filosofia), Le dolci rime d'amor
ch''i solìa (sulla nobiltà come
conquista morale e intellettuale).
Negli
stessi anni (1304-1309), mentre stende
l'Inferno, progetta un'altra
opera di argomento linguistico, il De
vulgari eloquentia in latino, in
difesa del volgare. Interrotto a metà
del secondo libro, esamina le origini
del linguaggio, i vari dialetti italiani
e definisce le caratteristiche di un
volgare privilegiato che dovrebbe essere
preso a modello degli intellettuali,
come lingua comune italiana. Sono anni
molto tristi; il poeta si sposta dalla
corte di Gherardo da Camino‚ signore
di Treviso, alla casa degli Scrovegni,
ricchi mercanti padovani. A Bologna
conosce Cino da Pistoia, giurista e
poeta stilnovista, poi si ferma in
Lunigiana, presso Moroello Malaspina‚
e a Lucca. Pare che tra il 1308 e il
1310 sia in Francia per frequentare la
facoltà di teologia a Parigi.
Sicuramente, se la notizia è vera,
ascolta, in vico degli strami le
lezioni di filosofia di Sigieri di
Brabante. Con l'elezione di Arrigo VII
di Lussemburgo a imperatore, Dante spera
vivamente che la pace e la giustizia
tornino a regnare in Italia.
Il
10 0ttobre 1310 invia una Epistola ai
Signori e Comuni e Popoli d'Italia affinché
accolgano con obbedienza e umiltà le
disposizioni dell'imperatore che sta
scendendo in Italia per l'incoronazione.
Papa Clemente V ha invitato le città
italiane a porsi a sua disposizione, ma
ben presto si palesa il suo voltafaccia.
Firenze per prima si oppone
all'imperatore seguita da altre città
timorose di perdere la propria
autonomia. L'imperatore mette Firenze al
bando dell'impero e l'assedia, ma
invano.
Le
speranze di Dante svaniscono; non tornerà
più in patria in un clima di giustizia.
Arrigo VII viene incoronato a Roma nel
giugno 1312, ma il Papa lo invita a
tornare in Germania, su istigazione
degli Angioini e del re di Francia;
Dante sente questo come un tradimento.
Sta scrivendo un trattato in latino, De
Monarchia in tre libri, in cui
rivaluta il ruolo dell'impero, dichiara
il potere imperiale e quello pontificio
indipendenti e sostiene che entrambi
derivano dalla volontà di Dio, che
vuole garantire agli uomini due mezzi
per ottenere la salvezza.
Il
24 agosto 1313 Arrigo VII muore a
Buonconvento, presso Siena, di febbri
malariche. Dante ha terminato la stesura
dell'Inferno e del Purgatorio.
Scrive
Boccaccio nel Trattatello in
onore di Dante: "Questo libro
della Comedia, secondo il ragionare
d'alcuno, intitolò egli a tre
solennissimi uomini italiani, secondo la
sua triplice divisione, a ciascuno la
sua, in questa guisa: la prima parte,
cioè lo 'Nferno, intitolò a Uguiccione
della Faggiuola, il quale allora in
Toscana signore di Pisa era mirabilmente
glorioso; la seconda parte, cioè il
Purgatoro, intitolò al marchese
Moruello Malespina; la terza parte, cioè
il Paradiso, a Federigo III re di
Cicilia. Alcuni vogliono dire lui averlo
intitolato tutto a messer Cane della
Scala; ma, quale si sia di queste due la
verità, niuna cosa altra n'abbiamo che
solamente il volontario ragionare di
diversi; né egli è sì gran fatto che
solenne investigazione ne bisogni."
Dante
ha perso definitivamente la speranza di
tornare a Firenze. Nel 1311, infatti, a
Firenze Baldo d'Aguglione ha varato una
riforma che consente il ritorno di molti
esuli, ma Dante ne è stato escluso;
troverà ospitalità presso Cangrande
della Scala, succeduto al fratello
Bartolommeo nella signoria su Verona.
Presso di lui Dante si ferma sino al
1318-19.
Il
19 maggio 1315 il Comune di Firenze
approva un'amnistia a tutti gli
esiliati, e questa volta senza
limitazioni (dalla precedente, infatti,
Dante era stato volutamente e
dichiaratamente escluso); il 24 di
giugno, in occasione della festa del
Patrono della città. La cerimonia per
gli amnistiati prevedeva che partendo
dal carcere, avrebbero dovuto percorrere
il tragitto in processione a piedi
scalzi, vestiti d'un sacco, con una
mitra di carta con sopra scritto il nome
e il reato dei malfattori in capo, un
cero acceso in una mano e una borsa con
danaro nell'altra, fino al Battistero,
al "bel San San Giovanni",
dove venivano offerti in stato di
pentimento all'altare e al santo della
città. Compiuto questo rito sarebbero
stati reintegrati nei loro beni e in
ogni loro altro diritto. Se si trattava
di fuorusciti politici che, al momento
del provvedimento non erano in carcere,
l'oblatio consisteva nel toccare
simbolicamente col piede la soglia del
carcere e quindi presentarsi al tempio,
senza l'umiliazione della mitra né
altre condizioni degradanti.
Con
sdegno rifiuta l'umiliante proposta: mai
avrebbe accettato di stare a fianco di
malfattori, come Ciolo degli Abati, che,
condannato nel 1291, era stato poi
assolto proprio mediante una amnistia.
Come Dante si trovava tra gli esuli
contumaci, anche lui escluso dalla
riforma di Messer Baldo d'Aguglione del
settembre 1311.
All'amico
(anonimo, ma dalla lettera si ricava che
era un religioso, parente di Dante col
quale aveva in comune "un
nipote", forse Niccolò di Fusino
di Manetto Donati, figlio di un fratello
di Gemma) risponde con questa lettera,
dichiarandosi pronto a rientrare, ma con
tutto il rispetto dovuto alla sua
innocenza conclamata e a tutti manifesta
e al suo lavoro, per il quale in esilio
non gli manca il pane e può continuare
i suoi studi, a cercare le dolcissime
verità (Epistola XII):
[I]
Per mezzo delle
vostre lettere ricevute e con la
debita riverenza e affetto, ho con
animo grato e diligente attenzione
appreso, quanto vi stia a a cuore e
quanta cura abbiate per il mio
rimpatrio; e quindi tanto più
strettamente mi avete obbligato,
quanto più raramente agli esuli
accade di trovare amici. Per questo,
anche se non sarà quale la
pusillanimità di alcuni
desidererebbe, vi chiedo
affettuosamente che la risposta al
loro contenuto, prima di essere
giudicata, sia ponderata all'esame
della vostra saggezza.
[II]
Ecco dunque ciò che per mezzo delle
lettere vostre e di mio nipote e di
parecchi altri amici mi fu comunicato
riguardo al decreto da poco emanato in
Firenze sul proscioglimento dei
banditi che se volessi pagare una
certa quantità di denaro e volessi
patire l'onta dell'offerta, potrei sia
essere assolto che ritornare subito.
Ma ci sono, o padre, due cose degne di
riso e oggetto di cattivo consiglio
nelle lettere di quelli che mi hanno
comunicato tali cose; le vostre
lettere, infatti, formulate con
maggiore discrezione e saggezza, non
contenevano nulla di ciò.
[III]
È proprio questo il grazioso
proscioglimento con cui è richiamato
in patria Dante Alighieri, che per
quasi tre lustri ha sofferto l'esilio?
Questo ha meritato l'innocenza a tutti
manifesta? questo ha meritato il
sudore e l'assidua fatica nello
studio? Sia lontana da un uomo,
familiare con la filosofia, una così
avvilente bassezza d'animo da
sopportare di offrirsi come un
carcerato al modo di un Ciolo e di
altri infami! Sia lontano da un uomo
che predica la giustizia, che dopo
aver patito un ingiusto oltraggio,
paghi il suo denaro a quelli stessi
che l'hanno oltraggiato, come se lo
meritassero!
[IV]
Non è questa, padre mio, la via del
ritorno in patria; ma se un'altra via
prima o poi da voi o da altri verrà
trovata, che non deroghi alla fama e
all'onore di Dante, l'accetterò a
passi non lenti; ma se per nessuna
onorevole via s'entra a Firenze, a
Firenze non entrerò mai. E che? forse
che non potrò vedere dovunque la luce
del sole o degli astri? o forse che
dovunque non potrò sotto il cielo
indagare le dolcissime verità, senza
prima restituirmi abietto e
ignominioso al popolo e alla città di
Firenze? E certamente non mi mancherà
il pane.
Negli
anni del soggiorno veronese scrive la
famosa Epistola a Cangrande in
cui gli dedica il Paradiso. Nel 1319
Dante si trasferisce presso Guido
Novello da Polenta con i figli. Mentre
compone il Paradiso risponde con
due Ecloghe a Giovanni del
Virgilio che vorrebbe rielaborasse la Commedia
in latino. Poi scrive il trattatello
scientificoQuaestio de aqua et terra
che presenta a Verona in una
dissertazione del 20 gennaio 1320.
Muore
di ritorno da un'ambasceria a Venezia
per conto del signore di Ravenna, dopo
aver contratto le febbri malariche; il
22 agosto vennero firmati i patti
dell'alleanza tra Forlì e Venezia e
Dante chiese di poter tornare a Ravenna.
"L'uomo era stanco, malazzato.
Probabilmente chiese e ottenne licenza
per il ritorno. Mai, in tanto
peregrinare fece viaggio più triste.
Attraverso la laguna, lungo il cordone
litorale: le terre deserte... La sera
del secondo giorno sostò secondo il
costume, a Pomposa... Arrivò a Ravenna
per riposare sul letto di morte. Il
corpo bruciante per febbre, lo spirito
immerso in Dio. Intorno i figli
piangenti, gli amici, il Signore stesso
nelle ore che consentiva l'aggravarsi
della situazione politica. ... Il mondo
veniva dinanzi a lui: tra lui e Dio non
c'era più alcuno. E sentì che Egli
giungeva. Era la notte fra il 14 e il 15
settembre 1321.Mentre il grande mistero
si compiva, Beatrice, levata con le
sorelle per il mattutino, pregava nella
piccola cappella dell'Uliva. Il cielo
incominciava a imbianchire, e Beatrice
sollevò gli occhi umidi di pianto verso
quella luce: pareva il cielo si aprisse
ad accogliere il padre suo." (Bosco,
cit., pag. 261-2).
Secondo
l'Altomonte "È una notte di
settembre, tra il 13 e il 14, quando
entra nel suo «maggior sonno», dopo
che il medico Fiducio de' Milotti aveva
usato tutta la sua scienza per salvarlo.
"Guido Novello aveva predisposto
una cerimonia pubblica. Subito dopo il
cadavere veniva «seppellito a grande
onore in abito di poeta e di grande
filosofo». Lo annotava un cronista,
confermato poi da Boccaccio, il quale
aggiungeva che Guido aveva «adornare il
morto corpo di ornamenti poetici sopra
un funebre letto». La chiesa della
tumulazione - «in un'arca lapidea» -
era quella di San Pietro Maggiore.
Usciti dalla chiesa, quanto avevano
partecipato al rito tornarono alla casa
in cui Dante aveva abitato. Guido vi
tenne «uno ornato e lungo sermone»."
In
quella casa erano conservati gli ultimi
13 canti del Paradiso; li troverà
il figlio Jacopo, dopo un sogno nel
quale il padre gli era apparso
indicandogli il luogo nel quale aveva
nascosto la parte conclusiva del suo
lavoro. Intanto la figlia Antonia
entrava in convento (o forse vi era già)
assumendo il nome di Beatrice.
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