Da
un concetto storiografico e da un
assunto teorico ed una grande epopea il
cui protagonista è Dio.
Nella
figura di Dante confluisce la crisi
degli istituti e delle forme della
civiltà medievale, mentre in tutta la
sua opera, particolarmente nella Divina
Commedia, è presente l’estremo
tentativo di superare questa crisi per
poter restaurare l’equilibrio ormai
spezzato. Anche se oggi l’ideale
politico del poeta può sembrarci
un’Utopia, è necessario che lo si
comprenda, posto nel suo periodo, per
capire la genesi stessa della Divina
Commedia. Bisogna ricordare, prima di
tutto, il Convivio e la Monarchia: nel
primo, Dante si sofferma sulla necessità
dell’Impero e dei suoi limiti: da
Romolo ad Augusto, l’ascesa di Roma fu
voluta da Dio e perciò l’autorità
data da Dio all’Imperatore ha lo scopo
di raggiungere i beni temporali, che
preparano a quelli spirituali. Tale
argomento verrà meglio sviluppato nel
De Monarchia, in cui Dante vuole
dimostrare ancora la necessità
dell’Impero che, mediante un’autorità
universale, l’Imperatore, può
assicurare la pace universale,
essenziale affinché l’uomo possa
svolgere la sua opera in terra e
diventare perfetto nella vita
intellettuale. Anche qui è presente
l’interpretazione provvidenziale della
missione di Roma e dell’Impero romano
nella storia del mondo. Affrontando i
rapporti fra Impero e Papato, Dante
afferma che l’Imperatore, come la
luna, riceve, grazie alla benedizione
del Papa, non il proprio essere, ma la
luce della grazia che gli consente di
operare con giustizia e onestà. Il
poeta è anche convinto che la chiesa
non precede l’Impero, perchè per i
due fini assegnati da Dio all’uomo in
terra (la beatitudine di questa vita e
quella della vita eterna) sono
necessarie due guide per gli uomini: il
Papa, per guidare l’umanità alla vita
eterna e l’Imperatore per la felicità
temporale, due poteri autonomi.(Anche se
alla fine Dante ammette che ci può
essere una certa subordinazione del
Principe romano al romano Pontefice in
qualche cosa, dal momento che la felicità
terrena è ordinata verso la felicità
eterna).
Il
pensiero politico di Dante, con il
passare degli anni, sembra (anche se
questo è un problema molto dibattuto)
che abbia subito dei mutamenti: il
poeta, con la Divina Commedia pare aver
dato, rispetto alle opere precedenti,
maggior importanza al rinnovamento della
chiesa non solo per i fini ultra terreni
ma anche per quelli politici. Riguardo
al fondamentale concetto
dell’interpretazione provvidenziale la
Divina Commedia sarà meglio compresa,
ricordando l’interpretazione figurale
di Auerbach, secondo cui la Provvidenza
divina ha eletto, fin dagli inizi, Roma
a capitale del mondo, dando al popolo
romano grandi virtù per conquistare il
mondo e ridurlo in pace; dopo, sotto
Augusto, giunse finalmente il momento
del Redentore: per questo Roma terrena,
figura, anticipazione della Roma
celeste, specchio dell’ordine divino
nel mondo, diventa il centro del
Cristianesimo e sede del Papa. Così,
tutta la tradizione romana confluisce
nella storia della redenzione.
La
Divina Commedia è sicuramente
un’opera nel suo insieme politica e
autobiografia ma è particolarmente nei
canti sesti dell’Inferno, del
Purgatorio e del Paradiso, che queste
caratteristiche si evidenziano
maggiormente. Nella sua ascesa verso
Dio, Dante "pellegrino" non può
sminuire il valore della città terrena,
frutto della sua osservazione della
storia, la quale gli serve a dare
concretezza alla sua poesia, che
altrimenti diventerebbe astratta.
Per
questo, dopo la lode della volontà
assoluta dell’individuo ideale, vi è
la celebrazione, nel Canto VI del
Paradiso, dell’ideale sociale, affinché
l’ordine divino si possa realizzare
non solo nell’individuo e nel mondo
intero, ma anche nella "civitas".
Con
il Canto VI del Paradiso, ci troviamo
nel secondo Cielo di Mercurio dove
appaiono gli spiriti attivi per
desiderio di onore e di fama.
L’Imperatore Giustiniano, dopo essersi
presentato e dopo aver affermato che,
sotto l’ispirazione divina, si dedicò
"all’alto lavoro" (Corpus
iuris) affidando il comando
dell’esercito al generale Belisario,
celebra l’Aquila, (simbolo
dell’Impero romano e poi cristiano),
che campeggia fin dall’inizio in primo
piano nelle vicende storiche, dominate
dai disegni provvidenziali di Dio; si sa
che in Dante pensiero politico e
religioso non vanno mai separati, anche
se il tema politico, in questo canto, è
trattato soprattutto con uno spirito
teologico, che permette di trascendere
le pure vicende della cronaca come
afferma il Sapegno. Infatti a Dante
interessa non tanto la storia di Roma
quanto la "translatio Imperii",
il trasferimento dell’Impero la sua
continuazione sia da Cesare a Tito, sia
da Tito a Giustiniano e da questi a
Carlo Magno e ai successori, fino a
Federico II e Arrigo settimo. Le varie
figure, mediante le quali opera il segno
dell’Aquila, prima dei re, poi degli
Imperatori (puris strumenti), Cesare,
che prende in mano l’insegna
dell’Aquila per volere del popolo
romano; Ottaviano, che portando
l’Aquila fino alle rive del Mar Rosso,
stabilì la pace nel mondo; Tiberio,
sotto il quale fu mandato a morte Gesù
ed ancora Tito, che fece giustizia di
questo fatto, con la distruzione di
Gerusalemme dove era avvenuta la
crocifissione.
A
questo punto, si ha la chiara denuncia
dei Guelfi e dei Ghibellini, con una
maggiore polemica verso i Guelfi per il
tono pauroso della profezia (la
giustizia divina punirà la malvagità
dei Guelfi); dopo aver detto che questi
spiriti sono felici perché riconoscono
in Dio l’esatta corrispondenza tra
merito e premio, Giustiniano presenta
l’anima di Romeo di Villanova, esempio
di giustizia contrapposto agli exempla
di ingiustizia (Guelfi e Ghibellini);
quest’uomo gusto, dopo aver
accresciuto il patrimonio del suo
signore, viene ingiustamente calunniato
e costretto a lasciare la corte, povero
e vecchio. Anche se Romeo appare
rassegnato mentre Dante reagisce sempre
fortemente alle sventure, i due
personaggi sono molto vicini. La vicenda
privata di Romeo, uomo giusto, si rivela
a Dante più vicina ad un ideale di
giustizia universale (dunque imperiale)
della politica partigianesca di Guelfi e
Ghibellini, che nei loro comportamenti
affermavano di seguire valori
universali. E’ giusto ribadire con il
Sapegno che "quello che nel
Convivio e nella Monarchia è un
concetto storiografico e un assunto
teorico" si trasforma,
soprattutto nel Canto VI del Paradiso in
"un motivo di grandiosa epopea,
dove il protagonista è Dio
stesso", ma bisogna puntualizzare
che in questo epos si ha la prevalenza
del figurante sul figurato, cioè del
"sacrosanto segno" incarnatosi
ne "li egregi / Romani"
(vv. 43-44) rispetto a Dio che li
trascende tutti. Basta un pronome
"lo" a rendere, nella sua
martellante ripetizione, l’idea di un
poema epico.
La
struttura narrativa del canto (nella
terza persona del passato) è veramente
tipica di un epos, particolarmente di un
poema epico, dove l’eroe è uno solo,
anche attraverso le azioni di figure
diverse: ecco i protagonisti positivi
dell’epos, dal progenitore Pallante
(v.36) agli Orazi e a Bruto, Torquato, i
Deci e i Fabi, Scipione e Pompeo, poi
Cesare; di contro gli anti eroi o
protagonisti negativi: Brenno, Pirro,
Annibale, Tolomeo, Bruto con Casso,
Cleopatra, i Longobardi, che servono ad
esaltare meglio gli eroi positivi, come
Ottaviano, Tito e Carlo Magno (si pensi
ai poemi epici a Gano contro Orlando).
Il centro ideale di questa epopea divina
è la Redenzione, che dà significato
religioso al processo provvidenziale
della Storia, che viene vista così come
teologia della Storia, per Dante un
punto preciso di partenza per giungere,
alla fine, al Vero Supremo, a Dio,
diventando da storia, Metastoria. Il
Poeta riesce a comprendere la realtà
del suo tempo, grazie alla conoscenza
della storia che lo aiuta a fare luce su
tutte le miserie del suo periodo. Egli
scorge nelle oscure profondità del
Consiglio divino il processo del
manifestarsi storico: storia ebrea e
storia romana sono diretti verso un
medesimo fine, quello trascendentale; la
storia romana diventa anche storia
sacra. Dante vede Dio –vivere-
attraverso i fatti, per indirizzare
l’umanità verso uno scopo
determinato, diventando così Ispiratore
della storia, fatta dagli uomini
-strumenti-.
E’
il divino che, trasfuso nella
ricostruzione del passato, dà a
quest’ultima il motivo di esistere. In
questo modo, nel Canto VI del Paradiso,
si nota la storia rivestita di
trascendenza e vista nel suo insieme e
gli uomini che fanno la storia si
realizzano non tanto per la loro singola
opera ma perché fanno parte di Lei, che
si svolge e si manifesta per mezzo di
questi stessi uomini. Infatti il Poeta
raffigura la storia con un Simbolo: il
santo segno dell’Aquila, che opera e
manifesta le sue virtù, per mezzo degli
uomini: "Vedi quanta virtù
l’ha fatto degno / di
riverenza…" (Paradiso C. VI
vv.34-35).
Pur
partendo dalla figura concreta
dell’Imperatore Giustiniano, si giunge
subito alla figura ideale di Cesare, che
è diretto verso un ideale
"reggimento" perché è
<<Dio che lo ispira>>.
Dante, mosso da un profondo interesse
politico e religioso, trascende la verità
storica e fa operare Giustiniano sotto
l’ispirazione divina, per affermare
l’estrema verità, che è la santità
e la grandezza della storia imperiale,
la guida ideale, astratta, teorica per
la vita civile. Nella sua visione
terrena della storia, il poeta non bada
ad un racconto cronologico preciso e
lineare, ma sceglie, dalla storia
stessa, gli avvenimenti che riescano ad
evidenziare l’insieme, l’universalità,
in una parola il trascendente, il Divino
che traspare da essa.
E’
chiara la fusione del tema politico con
quello teologico, quando chi lotta per
la grandezza e l’affermazione
dell’Impero, lotta contemporaneamente
per la grandezza di Dio e così la
"missione" politica,
terrena, storica coincide con quella
religiosa, a costo del dolore, del
martirio politico come ben fa notare
Giustiniano quando parla dell’opera di
Romeo, un altro "pellegrino"
dell’ideale, che come Dante
"vaga." dalla selva terrena
verso la Roma Celeste, dalla storia
terrena a quella Divina, che è trasfusa
in quella terrena, per mezzo delle
imprese degli uomini, "baiuli",
strumenti e portatori di essa. Il Poeta,
partendo da un concetto storiografico e
da un assunto teorico, giunge così ad
una grande e maestosa epopea di Dio e
della sua opera che si svolge in terra
per poi, alla fine, elevarsi nel regno
dei cieli. Questo itinerario dantesco,
che inizia sempre dall’analisi attenta
dei fatti storici e da un assunto
teorico per poi giungere all’immensa
celebrazione di Dio, si riscontra anche
esaminando il VI Canto dell’Inferno:
siamo nel terzo cerchio, dove le anime
dei golosi giacciono prostrate nel
fango, sotto una pioggia, mista ad acqua
fetida, di neve, di grandine. Il custode
Cerbero, cane tricipite, latra sopra gli
spiriti che squarta con le sue unghie.
In tali dannati c’è solo bestialità
senza nessuna luce di intelligenza. Fra
i golosi, Dante riconosce un fiorentino,
Ciacco, che visse da parassita presso le
mense dei ricchi gentiluomini. Un tono
pesante ed angoscioso è presente in
questo canto politico e profetico di
Firenze, la cui vera situazione viene
rivelata proprio da un personaggio come
Ciacco che sul piano dell’eternità,
continua la stessa funzione che ebbe in
terra come parassita che, strisciando
nelle mense dei signori, ne osservava i
vizi.
Sollevandosi
per un attimo dal fango (il fango della
sua anima) ritrova per un secondo la sua
umanità perduta solo nella condanna dei
vizi, di cui egli stesso si macchiò.
Ciacco, in una visione generale della
Commedia, esprime tutta la carica e la
tensione del tema politico della
giustizia e dell’esilio, che sarà uno
dei temi fondamentali del poema
dantesco. Dante, personaggio del suo
itinerario ultraterreno, illumina della
sua umanità e della sua drammatica
esperienza, molti personaggi
dell’Inferno come Ciacco, Filippo
Argenti, Farinata e anche del Paradiso
come Cacciaguida. Così il tema
dell’esilio, qui vagamente accennato,
sarà nella missione affidatagli da Dio,
il motivo da cui Dante partirà per
rivelare e condannare vizi e colpe
dell’umanità. Ciacco, infatti accenna
profeticamente all’esito delle
discordie civili a Firenze e alla rovina
della parte Bianca, in cui sarà
coinvolto anche Dante, soffermandosi
sulle cause di tali discordie, come la
superbia e la cupidigia. Alla fine a
Dante viene chiarita la condizione dei
dannati dopo il Giudizio universale,
condizione che si perfezionerà nel bene
e nel male. Le profezie di Ciacco
esprimono il giudizio e lo sdegno di
Dante che vede nelle lotte e nelle
divisioni politiche, un legame con la
degenerazione morale dell’umanità.
(In questo assunto si evidenzia sempre
come il cammino della storia sia legato
al cammino che porta o allontana da Dio
ed è chiara la fusione del tema
politico con quello teologico, del
momento che, in tale visione
moralistica, la morte delle cose terrene
serve ad affermare l’importanza e la
grandezza dell’assoluto e
dell’Eterno).
Lo
scopo di Dante è fondamentalmente
quello di condurre l’umanità dalle
lotte e dai dolori terreni verso la
pace, dalla città terrena alla città
celeste verso la purezza della luce
divina. Per questo trascendente scopo di
giustizia, Dante attraverso le parole
politiche di Ciacco, condanna l’uomo
che lotta contro l’uomo ed anche
l’uso della violenza, di cui è
imbevuta la storia. Nelle profezie di
Ciacco, gli avvenimenti di cronaca e di
storia politica diventano anche fatti di
metastoria e metapolitica, che
trascendono quindi la semplice storia e
la semplice politica di quei tempi, se
si riflette bene sull’assunto
teoretico, sulla concezione che ha Dante
della vita e sullo scopo ultimo del suo
poema: partire dal terreno per giungere
al celeste, in una visione cosmica, in
cui Dio illumina e vive nel Tutto. Il
tema delle lotte intestine che lacerano
le città d’Italia, realtà di quei
tempi, è pure presente nel Canto VI del
Purgatorio, con la medesima visione
altamente moralistica presente nel Canto
VI dell’Inferno, visione che rafforza
e stimola un bisogno di purificazione,
di ribellione a tanta corruzione
terrestre per giungere a godere del
nuovo ordine di pace e di giustizia che
regna nei cieli. (Ancora una volta, il
tema politico si fonde con quello
teologico). Nella pittoresca
similitudine di apertura del gioco
d’azzardo, Dante riflette sul Caso,
presente nelle vicende della vita; ma
per Dante "cristiano" il Caso
è la profonda e abissale volontà
divina, è Dio nella Storia e nella vita
degli uomini. Siamo
nell’Antipurgatorio, dove i negligenti
uccisi con violenza si accalcano attorno
a Dante per chiedere preghiere (a questo
riguardo, viene chiarito a Dante che
solo la preghiera degli uomini qui ha
valore). Un’anima solitaria attira
l’attenzione di Dante ed è quella di
Sordello da Goito, che al solo nome di
Mantova proferito da Virgilio, lo
abbraccia affettuosamente.
E’
proprio dal contrasto fra questo
abbraccio affettuoso tra compaesani e le
feroci divisioni e lotte fratricide
dell’Italia, che nasce l’apostrofe
dantesca all’Italia, al Papa,
all’Imperatore ed anche a Firenze. La
scelta del personaggio di Sordello è
motivata dal fatto che egli, un poeta
politico-civile del phanh (poema) per la
morte di Blacatz (cavaliere provenzale),
fu anche fustigatore della corruzione
civile del tempo. L’apostrofe
all’Italia "serva", cioè
priva di libertà in quanto prova
dell’ordine e delle leggi forniti da
l’autorità imperiale e quindi in
preda a regimi tirannici e a rovine come
la decadenza dei partiti politici, lo
squallore di Roma e l’odio feroce tra
la "gente" della penisola.
Dove manca l’autorità imperiale, non
c’è speranza di pace né di salvezza
eterna preparata in terra dalla stessa
autorità imperiale. L’Italia, in
questo canto, appare come il
"giardino" dell’Impero, il
fulcro, la sede legittima della
Monarchia voluta dalla Provvidenza. Il
messaggio di Dante si presenta in una
prospettiva etico-ideologica che
trascende gli stessi istituiti civili in
vista di un loro riscatto. Si desume
pure che il potere politico e quello
religioso, distinti nei loro rispettivi
campi ma subordinati alla volontà di
Dio, devono collaborare in armonia, allo
scopo di raggiungere i fini che la
provvidenza ha indicato per l’umanità,
quali la felicità terrena e la gioia
celeste. Solo guardando le tristezze
della storia da una prospettiva
ultraterrena, Dante può tendere ad un
ideale di armonia terrena fra gli
uomini, retta dalla leggi della
Provvidenza.
Il
poeta è teso sempre a cercare nella
Storia un destino, un disegno della
Provvidenza divina, un giudizio di Dio
nello scorrere del tempo storico, un
rapporto profondo fra il momento reale,
concreto e l’assoluto: quell’ideale
assoluto, che è la suprema e ultima
speranza al dolore degli uomini, si
ritrova nell’emozione del presente:
"perché foco d’amor compia in
un punto…". (Purgatorio C. VI
vv 38). Infatti per il Poeta, la
politica, la storia, è soprattutto e
fondamentalmente realizzazione
dell’Assoluto e l’ansia stessa del
rinnovamento e di purificazione di
Dante-uomo è ansia di Assoluto: tutto
è proiettato verso l’Infinito, in una
continua e trascendente tensione
sovrumana. Si pensi all’invocazione al
sommo Giove, crocefisso in terra per
noi, dove il fato viene cristianizzato e
l’Assoluto s’incarna e si prepara a
soffrire nell’umano; ancora, è
nell’Incarnazione il primo passo
concreto, reale, storico per la
redenzione finale. E’ quindi sempre
presente il concreto, il contingente, la
storia e l’assoluto, l’universalizzazione
dei richiami alla Bibbia, dei toni
profetici e l’attualizzazione, la
storia contemporanea dei Montecchi e
Cappelletti, e Monaldi e Filippeschi,
"attualizzazione" che permette
di presentare sempre gli assunti ideali,
universali e assoluti in modo non troppo
astratto. E’ appunto questa continua
tensione fra attualità e universalità,
tra storia concreta e tendenza verso
l’Assoluto, tra cronaca contemporanea
ed eternità, che dà alle invettive di
Dante un’impronta fortemente
realistica, plastica e nello stesso
tempo magnanima e grandiosa.
L’invettiva del Poeta all’Italia,
alla gente della chiesa,
all’Imperatore Alberto di Asburgo, poi
alla Divinità, poi di nuovo
all’Italia, diventa da imprecazione,
preghiera e fonde la visione gretta,
meschina della terra con la visione
maestosa, del cielo, giungendo così ad
una grandiosa epopea, il cui
protagonista è Dio.
Dante,
autore universale e di ogni tempo,
trasmette a noi l’importanza e
l’eterna attualità di un Valore, la
Fede in qualcosa che superi, trascenda
la triste corrotta realtà,
illuminandola della luce divina: infatti
è solo questa luce divina che può dare
un’ultima e suprema spiegazione a
quella che inizia come semplice e
contingente storia umana ma che sarebbe
incompleta, assurda ed imperfetta se non
tendesse verso una Metastoria, qualcosa
cha va al di là della stessa storia
terrena. Solo con questa speranza, con
questa tensione verso l’assoluto, come
scopo ultimo della vita terrena, si può
vivere ed accettare con dignità la
stessa vita terrena, in cui operiamo
secondo disegni imperscrutabili.