Qui su larida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual nullaltro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De tuoi steli abbellir lerme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E dafflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dellimpietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove sannida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito darmenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi laltero monte
Dallignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che desaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
Allamante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà delluman seme,
Cui la dura nutrice, ovei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dellumana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar glingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece
Vanno adulando, ancora
Cha ludibrio talora
Tabbian fra se. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben chio sappia che obblio
Preme chi troppo alletà propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dellaspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra
inferme
Che sia dellalma generoso ed alto,
Non chiama se nè stima
Ricco dor nè gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur questorbe, promettendo in terra
A popoli che unonda
Di mar commosso, un fiato
Daura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar sardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e lire
Fraterne, ancor più gravi
Dogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, luomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
Lumana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Delluomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto doste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Glinimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quellorror che primo
Contra lempia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, lonesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel chha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dallalto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vóto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Cha lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
Luomo non pur, ma questo
Globo ove luomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senzalcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Cha noi paion qual nebbia, a cui non luomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con laureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Delluomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol chio premo; e poi dallaltra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, delluniverse cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor massale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come darbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senzaltra forza atterra,
Dun popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e lopre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar lassidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così dalto piombando,
Dallutero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra lerba
Di liquefatti massi
E di metalli e dinfocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su lestremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dallaltra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
Larduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Delluom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nellaltra è la strage,
Non avvien ciò daltronde
Fuor che luom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dallignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dellostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dallinesausto grembo
Su larenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai lacqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan lusato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo lantica obblivion lestinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende allaperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nellorror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vóti palagi atra saggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per lombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, delluomo ignara e delletadi
Chei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E luom deternità sarroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà lavaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma delluom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali. |
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