Giovanni Ipavec
Parafrasi ragionata

Giuseppe Bonghi
Analisi del canto

Giacomo Leopardi
LA GINESTRA

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[La ginestra qui appare simbolo del Leopardi stesso, e il profumo di essa simbolo della sua poesia: come osserva il Momigliano: "c'è tanta gentilezza, tanta dolcezza in quel fiore solitario, perchè il Leopardi sentiva che anche la sua poesia era come il profumo della sventura umana, chè anch’essa, come la ginestra, cresceva sull'arido suolo della vita e cercava con il suo profumo il cielo".]

P A R A F R A S I - Divisione dell'opera e temi:

Versi

Temi

1 - 36

Il paesaggio vesuviano; la ginestra.

37 - 51

Invettiva contro la Natura e contro il falso progressismo.

52 - 86

Invettiva contro il "secol superbo e sciocco" (polemica contro lo spiritualismo dell'Ottocento).

87-157

Stoltezza e nobiltà dell'uomo.

158-201

Piccolezza dell'uomo; polemica contro i miti pagani e le credenze religiose.

202-236

Precarietà della condizione umana e cecità della natura.

237-296

La costante minaccia del vulcano, simbolo della potenza e dell'insensibilità della Natura - L'orrore di Pompei dissepolta.

297-317

Umiltà e saggezza dell'uomo illuminato; morte dell'innocente.

 

Parafrasi

Epigrafe

Epigrafe

"E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce": nell'epigrafe evangelica (Giovanni, III, 19) è già annunciata l'esaltazione di quella età dei lumi, alla quale più polemicamente si rifarà il Leopardi per contrapporla all’età sua.

 

 I- Versi 1-36: il paesaggio vesuviano; la ginestra.

 

I

Versi

 

 

1-36

         La canzone si apre con uno squarcio di paesaggio, che traduce uno stato d'animo triste, duro e rude ad un tempo: il Poeta contempla le aride pendici del minaccioso ("formidabil") Vesuvio, vulcano che seminò morte e distruzione ("sterminator Vesevo") nel corso dei secoli.
         Il paesaggio colpisce per lo scheletrico squallore e la solitudine; il deserto non è rallegrato da alcuna pianta ("arbori": latinismo) nè da alcun fiore, ad eccezione dell'odorosa ginestra, che alligna persino nelle zone desertiche ("contenta dei deserti"), spargendovi qua e là i propri cespi.
         Il poeta ricorda di aver visto la ginestra abbellire con i suoi steli anche le solitarie ("erme") rovine della campagna intorno a Roma, la città che un tempo fu signora ("donna", dal latino "domina") del mondo; oggi i ruderi, col loro aspetto imponente e silenzioso (in quarto non risuona più tra essi la vita) si limitano a testimoniare e a ricordare al visitatore la gloria dell'antico, e per sempre tramontato, impero romano. Come nei dintorni di Roma, così anche qui, sul suolo vulcanico, la ginestra si rivela agli occhi del poeta fiore innamorato dei luoghi tristi e abbandonati dagli uomini, compagna fedele di sorti infelici [osserva la patina arcaica del linguaggio ("anco", "erme", "cittade", "donna" e il giro stesso del periodo), le immagini di una grandezza passata, l'insistenza su espressioni di desolazione ("un tempo", "perduto", "grave e taciturno")].
         I campi della zona vesuviana, cosparsi di sterile cenere e ricoperti di lava indurita che rimbomba sotto i passi del viaggiatore, ambiente inospitale, popolato solo di serpi, che vi si annidano e si contorcono al sole, e di conigli selvatici, che hanno la loro tana nelle grotte naturali, un tempo furono ricchi di fattorie e di campi coltivati, biondeggiarono di grano e risuonarono di muggiti di armenti; su di essi un tempo sorsero palazzi e giardini, gradita dimora ai potenti nei loro periodi di ozio (erano infatti i luoghi di villeggiatura preferiti dai maggiori cittadini romani); e vi sorsero città famose che l'altèro monte, lanciando fiamme ("fulminando") dalla sua bocca eruttante fuoco ("ignea"), schiacciò con i suoi torrenti di lava sterminandone gli abitanti.
         Ora, i luoghi dove cresce il fiore gentile (gentile perchè disposto ad abbellire con la sua presenza posti così solitari e tristi) sono tutti circondati da una vasta rovina e la pietosa pianticella, come se volesse commiserare le disgrazie altrui, esala al cielo un soavissimo profumo che addolcisce un poco la desolazione di quel deserto.






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[La ginestra qui appare simbolo del Leopardi stesso, e il profumo di essa simbolo della sua poesia: come osserva il Momigliano: "c'è tanta gentilezza, tanta dolcezza in quel fiore solitario, perchè il Leopardi sentiva che anche la sua poesia era come il profumo della sventura umana, chè anch’essa, come la ginestra, cresceva sull'arido suolo della vita e cercava con il suo profumo il cielo".]

 

 

 II- Versi 37-51: Invettiva contro la Natura e contro il falso progressismo

 

II

Versi

 

37-51

         Dal verso 37 fino al 157 la canzone si allontana dal tema iniziale e si apre un lungo tratto di carattere polemico ed ironico. Solo dal verso 158 il poeta tornerà alla ginestra, al paesaggio arido che ne è lo sfondo e all’amara contemplazione della sorte umana.
         Il poeta invita a visitare quei luoghi desolati colui che è solito esaltare la condizione umana, così che veda in quanta considerazione la natura tiene il genere umano ("amante" è detto naturalmente in senso ironico). Qui potrà valutare equamente ("con giusta misura") l'effettiva potenza del genere umano che la natura crudele ("dura nutrice"), proprio mentre esso meno che mai teme ciò, annulla parzialmente, in un solo istante e con un lieve movimento tellurico, mentre le sono sufficienti moti un po' meno lievi per annientarlo totalmente.
         La conclusione è fortemente ironica ed epigrafica: lì, sulle pendici del Vesuvio, è rappresentata chiaramente la sorte dell’umanità, una sorte che altri ha definito ottimisticamente "magnifica" e "progressiva" (l'autore della definizione è Terenzio Mamiani cugino del poeta; la citazione è contenuta nella Dedica dei suoi "Inni sacri", editi nel 1832).






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 III. Versi 52-86: Invettiva contro il "secol superbo e sciocco" (polemica contro lo spiritualismo) -

 

III.

Versi

 

 

52-86

         Con un "qui" insistito il Leopardi invita il suo secolo, che definisce "superbo" (per aver acquisito certezze filosofiche che agli occhi del poeta sono illusorie) e "sciocco" (perchè appunto tali illusioni considera come una realtà), a contemplare le pendici del vulcano e a specchiarsi in esse, in modo da capire quanto precaria sia la condizione umana (cfr. i vv. 212-230).
         Egli accusa il secolo XIX di aver abbandonato il sentiero ("calle") finora tracciato, verso un vero e continuo progresso ("innanti"), dalla filosofia del Rinascimento, risorta e riproposta dall'Illuminismo settecentesco, e, tornato indietro, si vanta di questo cammino a ritroso e lo chiama "progresso". [Il Leopardi, fedele al sensismo dei Settecento, che gli appariva una conclusiva affermazione della filosofia del Rinascimento, in quanto ne avrebbe compiuta l'opera di demolizione delle superstizioni medievali, considerava un regresso il risorto spiritualismo dell'Ottocento, quale si manifestava. soprattutto nelle teorie romantiche].
         Tutti gli ingegni (= gli uomini dotti), che per loro sventura ("sorte rea") sono sorti da quel secolo, come figli da un padre, vanno adulando il suo abbandonarsi a fanciullesche illusioni ("pargoleggiar": come di un vecchio che assuma atteggiamenti da bambino; cfr. il regresso di cui poco sopra), anche se, fra di loro, lo scherniscono (comportamento evidentemente ipocrita: l'esaltazione del secolo da parte degli uomini dotti sarebbe dunque, a giudizio del Leopardi, del tutto insincera). Ma lui, il poeta, non si abbasserà ad una simile meschinità, nè morirà con la vergogna di essersi piegato ad adulare gli sciocchi pargoleggiamenti del suo secolo; anzi, mostrerà il più apertamente possibile il disprezzo che di esso nutre nel proprio cuore, anche se è consapevole che chi è sgradito agli uomini del proprio tempo è destinato alla dimenticanza (la gloria, dunque, per il Leopardi, non è legata ai meriti effettivi, ma al favore dei contemporanei). Egli, però, si ride di quest’oblìo, che – ne è certo – coprirà lui, e con lui, anche il suo secolo ("teco mi fia comune"). [Di questo sentimento della vanità della gloria è spesso traccia nello "Zibaldone" e nelle "Operette"; cfr. Dante, "Purgatorio", XI].
         L’allocuzione rivolta al secolo continua con un’accusa al suo comportamento contraddittorio e incoerente: da un lato sogna la libertà (allusione alle lotte dei patrioti per la conquista della libertà, lotte che il Leopardi giudica vane), dall'altro rende vano il pensiero, cioè si oppone, con le nuove correnti filosofiche a quel pensiero del sensismo e del razionalismo a cui il poeta attribuisce il merito di aver redento gli uomini dalla "barbarie" medievale e che egli giudica il solo capace di suscitare maggior civiltà e di guidare al meglio le sorti della società ("i pubblici fati").
         Il motivo di tale assurdo e contraddittorio orientamento del pensiero ottocentesco risiedeva, per il Leopardi, nella vile rinuncia a guardare in faccia la verità, ad accettare cioè il duro destino e la bassa condizione ("aspra sorte" e "depresso loco") che la natura ha assegnato agli uomini. Per vigliaccheria, quindi, l’Ottocento ha voltato le spalle alla dottrina che aveva rischiarato la verità (= l’Illuminismo), e mentre fugge ("fuggitivo") chiama vili coloro che seguono il lume della vera filosofia, considerando invece magnanimi furbi o insensati che, intenti a illudere sè stessi e gli altri, innalzano con le loro lodi gli uomini ("il mortal grado") e li collocano al culmine della gerarchia degli esseri viventi (è chiara sia la polemica del Leopardi contro l’ottimismo romantico, che esaltava la grandezza dell'uomo, sia la difesa accorata del proprio pessimismo e in particolare delle teorie sensiste; l'intonazione dei versi è costantemente polemico-dimostrativa).









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 IV. Versi 87-157: Stoltezza e nobiltà dell'uomo.

 

IV.

Versi

 

 

87-157

         A dimostrazione del concetto segue l'esempio, che ha il carattere di un paragone nei confronti dell'immagine appena conclusa. Un uomo di misera condizione e di membra malate, ma che abbia un animo alto e generoso, non si vanta nè considera sè stesso ricco e gagliardo (= vigoroso, pieno d’energia), e non finge, in modo ridicolo, davanti alla gente, di condurre una vita agiata o di essere fisicamente forte; al contrario, senza vergogna, si fa vedere qual è, povero ("mendico") di forze e di beni, e così chiama sè stesso apertamente e giudica la sua condizione in modo corrispondente alla realtà.
         Il poeta non considera magnanimo, ma stolto, un essere che, destinato a scomparire del tutto ("perir") e allevato tra le sofferenze, afferma di essere nato per la felicità e il godimento, e riempie di stomachevole orgoglio i suoi scritti, promettendo ai popoli per l'avvenire, su questa terra, altissimi destini e felicità sempre nuove, tali che, non solo sono ignorate dalla terra (cioè che nessun essere umano ha mai provato), ma anche dall'universo intero. E promette la felicità a popoli che un maremoto ("onda di mar commosso"), una pestifera esalazione ("fiato d'aura maligna"), un terremoto ("sotterraneo crollo") possono distruggere in modo tale che di essi sopravvive a stento solo il ricordo.
         È veramente di animo nobile colui che ha il coraggio di guardare con i suoi occhi di uomo mortale il destino che attende sia lui sia tutti gli altri (il "comun fato", cioè la morte) e che riconosce apertamente, senza minimamente attenuare la verità, il male che ci è stato dato in sorte e la nostra fragile e bassa condizione (cfr.
Dialogo di Tristano e di un amico: "calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione, etc."); (è di animo nobile) colui che si rivela eroico ("grande e forte") nella sofferenza e non aggiunge alle sue miserie, aumentandole, l'odio e l'ira contro i propri simili, che sono un male più grave di ogni altro, e invece di incolpare l'uomo (= i suoi simili, i suoi fratelli) del proprio dolore, dà la colpa a colei che è veramente colpevole.
         Non sono quindi gli uomini i nostri nemici, bensì la natura, che ci ha generati come una madre ("è madre in parto") ma che dimostra verso di noi i sentimenti di una matrigna (cfr.
Zibaldone, VII, 361-62: "La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura" e il Dialogo della Natura e di un Islandese: "...sei carnefice della tua propria famiglia"). Chi ha l'animo nobile, dunque, chiama nemica costei; e pensando, a ragione, che la società umana all'inizio si sia unita e ordinata contro l'avversa natura (cfr. Cicerone), considera gli uomini tutti associati fra loro e li stringe a sè come fratelli, porgendo ad essi valido e sollecito aiuto nei pericoli e nelle sofferenze derivati da questa comune guerra, e attendendo da essi, a sua volta, un identico aiuto (i pericoli sono detti "alterni" perchè ora colpiscono gli uni ora gli altri).
         [Vari studiosi hanno intravisto, in questi versi, un ammonimento e un messaggio di valore sociale, con cui
Leopardi, superando l'aspetto negativo del suo pessimismo, avrebbe anticipato atteggiamenti e dottrine dell’allora imminente socialismo. È un'interpretazione suggestiva ma anacronistica: il pensiero del poeta è piuttosto da legare alla condizione cosmopolita della "fraternità" illuministica, concezione ispirata da Rousseau].
         Un uomo di nobile natura (il soggetto è sempre "nobil natura" del v. 111) crede che sia un'azione da stolti armare la propria destra per offendere gli altri uomini e ostacolare i propri vicini con catene ed inciampi, come sarebbe segno di stoltezza, in un accampamento circondato da eserciti nemici, dimenticare la loro presenza proprio mentre essi incalzano con i loro assalti e intraprendere invece lotte accanite contro i propri compagni, mettendo in fuga i commilitoni e facendone strage con la spada.
         Quando queste idee saranno fatte conoscere al popolo come già lo furono, e sarà di nuovo introdotto fra gli uomini per mezzo di una veritiera filosofia quell’orrore della spietata natura che anticamente li strinse in un civile sodalizio, allora gli onesti e retti rapporti tra i cittadini (il "conversar cittadino" = consorzio civile), la giustizia e la pietà avranno ben più solide basi che non quelle orgogliose favole ("superbe fole", cioè la falsità di una filosofia che presume di dare fondamento metafisico ai valori morali), sulle quali – se mai poggi su di esse la rettitudine del popolo si erge assai male, come tutto ciò che poggia sull’errore (cfr.
Zibaldone VII, 138-139; IV, 173, e cfr. le Operette morali in, numerosi passi).




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 V. Versi 158-201: Piccolezza dell’uomo – Polemica contro i miti pagani e le credenze religiose.

 

V.

Versi

 

 

158-201

          Dopo il lungo ragionamento della parte precedente, ritornano le immagini liriche. Il poeta indugia spesso nella notte sulle "rive", cioè sui pianori che fanno da margine alle pendici del Vesuvio, terra desolata, rivestita di lava scura, indurita che conserva la forma contorta e ondulata acquisita nello scendere a valle in fiumare incandescenti. Lì egli, su uno sfondo di azzurro intenso, non offuscato da alcuna nube, osserva le stelle che fiammeggiano dall’alto del cielo e si specchiano nel mare lontano; e nella cavità del cielo ("voto seren") tutto il mondo all’intorno brilla di luci scintillanti (per la descrizione e le suggestioni di questo "notturno" cfr. il Canto notturno, vv. 79 e segg. e nota la reminiscenza petrarchesca del v. 163).
         Seguono due lunghissimi periodi (vv.
167-185 e 185-200), le cui proposizioni principali, entrambe interrogative retoriche, sono collocate in chiusura (rispettivamente nei vv. 183-185 e 197-200).
         Ambedue presentano un’architettura sintattica assai complessa, che giunge sino al 4° grado di subordinazione e comprende numerose proposizioni coordinate; perciò è stato detto giustamente che non si può respingere l’impressione di una certa pesantezza", anche se "ciò non annulla l’efficacia singola di alcune immagini del brano".
         Il poeta dirige lo sguardo alle stelle, che ai suoi occhi sembrano solo un punto e sono talmente immense che in confronto ad esse terra e mare sono senza dubbio ("veracemente") un punto; assorto in tale contemplazione, egli considera che non solo l’uomo, ma la terra stessa, rispetto alla quale l’uomo è di una piccolezza insignificante, sono del tutto ignoti a tali corpi celesti; osservando poi le nebulose ("nodi quasi di stelle"), infínitamente più lontane e simili a una nebbia cosmica (= Via Lattea), a cui, oltre alla terra e all'uomo, tutte le stelle nostre ("nostre" = a noi visibili), infinite di numero e di grandezza, messe assieme, e con esse anche il sole, sono ignote o appaiono come un punto di luce nebulosa, si domanda retoricamente quale impressione possa rendere al suo pensiero il genere umano. La risposta è implicita: l'uomo non è e non conta nulla.
         Il poeta si volge quindi a considerare la condizione dell'uomo sulla terra: il suolo coperto di lava indurita su cui egli sta è una prova della miseria degli uomini, così facilmente travolti e distrutti dalla natura; eppure l'uomo si è creduto spesso e si crede signore e fine ultimo dell'universo, al punto che gli è piaciuto immaginare che gli dei ("gli autori dell'universe cose") scendessero per lui sulla terra ("questo oscuro granel di sabbia") e conversassero piacevolmente con i mortali (l’allusione è rivolta ai miti pagani e forse anche alle molte narrazioni delle vite dei santi).
         E ricordando che la presente età, la quale sembra superare le altre epoche in civiltà e conoscenza, rinnovando i sogni e le fantasticherie (= credenze religiose) già, precedentemente derisi dalla filosofia degli illuministi, insulta i saggi, quale pensiero o quale sentimento pervade il cuore nei confronti dell'infelice stirpe umana? Non sa dire il poeta se prevalga il riso (per l'effetto ridicolo della stolta presunzione umana) o la pietà (per la compassione che la condizione degli uomini suscita).



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 VI - Versi 202-236: Precarietà della condizione umana e cecità della natura

 

VI

Versi

 

 

202-236

         L’estesa similitudine (come ... così ... : versi 202-230) tra il popolo delle formiche e le stirpi umane serve a rendere manifesta la cecità delle forze naturali e il carattere fortuito dei loro più disastrosi effetti: l’incontro casuale, in un solo punto di tempo e di spazio, di due fatti di per sè ordinari e innocentissimi, come il cadere di un pomo maturo e la esistenza di un formicaio, ha per effetto la strage di tante creature viventi e la distruzione di tanto lavoro. Questo prova l’assoluta indifferenza della Natura per le sue creature, formiche o uomini che siano" (Levi).
         Come nel tardo autunno un piccolo pomo, cadendo dall'albero solo per effetto dell'essere maturo, schiaccia, stermina (lett. "diserta" = priva di vita, trasforma in deserto) copre in un istante un formicaio (lett.: le care amate case di un popolo di formiche), scavato con grande operosità in una zolla di terra tenera, e insieme con esso tutti i magazzini e le provviste che quella comunità laboriosa ha accumulato a gara con lunghe fatiche durante l'estate, pensando all’inverno ("provvidarnente"); così un'immensa mole di cenere, pomice e sassi, tale da ottenebrare il cielo ("notte e ruina", soggetti del costrutto) e mista di getti di lava bollente, che scende violenta ("furiosa") lungo la vegetazione delle pendici del monte, come una gigantesca fiumana di metalli, pietra e rena incandescente, eruttata con cupi boati dal ventre del Vesuvio ("utero tonante") verso l’alto del cielo, piombando giù a terra, in pochi istanti scompigliò ("confuse"), sgretolò ("infranse") e seppellì ("ricoperse") le città che sorgevano sulla costa del mare (= eruzione del Vesuvio del 79 d.C., che ebbe due aspetti, distinti anche dal Leopardi: lancio di cenere e lapilli che seppellirono Pompei, torrenti di lava che ricoprirono Ercolano); ora, sulla superficie di quello strato di lava che dall'altro lato ("banda") ricopre le sepolte città, pascolano greggi di capre e sorgono città nuove a cui quelle antiche fanno da piedistallo ("sgabello"), e il Vesuvio sembra calpestare con le sue estreme pendici le mura abbattute delle antiche città.
         Ciò dimostra come la natura non abbia per il genere umano ("seme dell'uom") più riguardi che per le formiche; e se le stragi da lei compiute sono più rare tra gli uomini che tra gli insetti, ciò è dovuto unicamente al fatto che gli uomini nascono in numero minore.











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 VII. Versi 237-296: La costante minaccia del vulcano, simbolo della potenza e dell’insensibilità della natura. L'orrore di Pompei dissepolta.

VII

 

Versi

 

 

237-296

      Sono trascorsi quasi 1800 anni da quando sparirono, schiacciate dalla violenza dell'ardente eruzione ("ignea forza"), le popolose città che sorgevano alle pendici del Vesuvio (il pensiero del poeta è sempre rivolto alla tremenda eruzione del 79 d.C., che seppellì Pompei, Ercolano e Stabia). Ora, su quel terreno ancora ricoperto dalla cenere dell'eruzione ("zolla morta e incenerita"), crescono a stento dei vigneti, curati da un contadino (il diminutivo "villanello", come più sotto "poverelli", ha la funzione di sottolineare il contrasto tra l'uomo, debole e minuscolo, e l'arduo e possente vulcano, che domina nella fantasia come una forza spietata e perenne: entrambi i diminutivi suonano pietà per gli esseri umani), il quale, nonostante tanto tempo sia passato ("ben mille ... ancor"), guarda ancora con timore la vetta portatrice di morte ("fatal"), che non è mai divenuta in nulla più mite, anzi si erge sempre tremenda e minaccia strage a lui, ai figli e ai loro poveri beni.
         [ Il paesaggio disegnato dal Leopardi è certo assai diverso da quello reale della zona vesuviana: appare triste, funebre, costantemente sotto l'incubo di una nuova distruzione; vi si proietta il sentimento leopardiano della nullità dell'uomo e della tremenda forza distruttrice della natura. E perciò la scena (dal v. 248 al 268) sarà notturna, in accordo con lo stato d'animo da cui sorge questa strofe, che è tra le maggiori della canzone ].
         E spesso il povero disgraziato se ne sta di guardia tutta la notte insonne, sul tetto della sua abitazione rustica, all'aria aperta, e balza in piedi più volte per spiare il cammino della temuta lava, che si riversa dal grembo inesauribile del vulcano sul declivio (= pendice della montagna) arenoso; ai riflessi del suo bollore ("a cui" è riferito a "bollor") luccica la marina dell'isola di Capri, il porto di Napoli e il lido di Mergellina. E se lo vede avvicinarsi, o se nel profondo del pozzo vicino alla sua casa sente l'acqua divenire calda e quasi bollire (è il segno dell'avanzarsi minaccioso della lava in quella direzione), sveglia in fretta i figli e la moglie e tutti insieme, dopo aver afferrato quanto hanno potuto delle loro cose, si danno ad una fuga precipitosa. Mentre fugge, il contadino vede da lontano la sua abituale dimora ("usato nido") e il campicello, che ha costituito per lui e per la sua famiglia l'unica difesa dalla fame (= l’unico mezzo di sostentamento), divenire preda della fiumana rovente, che sopraggiunge crepitando e si distende inesorabile su casa e campo, successivamente indurendosi, come sempre la lava dopo che si sia raffreddata.
         Superata la visione apocalittica dell'eruzione, il pensiero del poeta va alla città morta di Pompei, che dopo secolare abbandono ("antica oblivion") tornava lentamente alla luce con gli scavi iniziati nel 1748. Essa viene paragonata ad uno scheletro che, già sepolto, torni all'aperto perchè gli uomini, avidi di terra da coltivare ("avarizia") lo disseppelliscano o perchè intendano dargli, pietosamente ("pietà"), un'altra sepoltura.
         Immagini di desolazione e di morte dominano la strofe: ad uno scheletro è paragonata Pompei, riemersa senza più vita con i suoi ruderi, e "scheletrica è la visione notturna dei versi successivi. Il forestiero ("peregrino"), stando ritto tra le file di colonne smozzicate, osserva da lontano, dal foro deserto dell’antica (= piazza centrale della Pompei romana), il duplice giogo del vulcano (il Vesuvio si divide in due gioghi, che sembrano come due monti, uno dei quali detto Somma, recinge a semicerchio l'altro, che ha l’aspetto di un cono e costituisce il cratere vero e proprio) e la cresta fumante, la quale minaccia ancora le rovine qua e là sparse.
         Il bagliore della lava portatrice di morte, come una fiaccola lugubre, che si muova con la sua fosca luce mista fumo ("atra") per le sale deserte di un palazzo, corre nella profonda oscurità della notte, che desta terrore, lungo i ruderi scheletrici della dissepolta città: i teatri vuoti (ma in "vacui" si legge anche il senso della vanità delle costruzioni umane), i templi ormai deformati, le case rotte, dove i pipistrelli nascondono i loro nati (particolare lugubre, caro a certo romanticismo); e da lontano si vede rosseggiare nell’oscurità e illuminare di rossastri bagliori i luoghi circostanti.
         Dal ricordo di Pompei e dalla costante minaccia del vulcano il poeta trae la conclusione che la natura ignora l’uomo e la sua storia, il corso dei secoli e il succedersi delle nostre generazioni (il "seguir che fanno / dopo gli avi i nepoti"). Quelli che per noi sono due lunghissimi millenni per essa sono un attimo, poiché il suo procedere è così lento che sembra immutabile ("ognor verde") ed immota ("sembra star"). Intanto cadono regno ed imperi, tramontano lingue e nazioni: la natura è indifferente a tutto ciò e l’umanità si attribuisce il vanto di essere destinata a durare in eterno (cfr. il "Dialogo di un folletto e di uno gnomo"; cfr. anche il "Canto notturno" sia per le analogie tra l’indifferenza della natura e l’imperturbabile serenità della luna, sia per le considerazioni sulla vanità e sulla precarietà dell’esistenza umana). Tutto il passo finale (vv. 289-296) crea una "vigorosa e amara impressione dell’incessante fluire del tempo, della pochezza e miseria umana, dell’immensa potenza della natura, cadùca anch’essa, ma con ben diverso ritmo di fronte all’infinito trascorrere e trasformarsi dell’universo" (Cappuccio). Nel verso finale si nota una lieve ripresa dell’ironia polemica già presente nelle strofe precedenti.






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VIII. Versi 297-317: Umiltà e saggezza dell'uomo illuminato. Morte dell'innocente.

 

VIII.

Versi

 

 

297-317

      Nella conclusione il poeta torna a volgersi alla ginestra e la confronta con l'uomo. Per questo fiore, che egli definisce "lento", cioè flessibile, e a cui attribuisce la delicata funzione di adornare le campagne desolate e di allietarle con la soavità del suo profumo (immagini simboliche, la prima della virile rassegnazione del poeta e la seconda del conforto che poeta e poesia arrecano nella deserta desolazione della vita) è previsto un destino di morte. Presto dovrà soccombere alla crudele prepotenza del vulcano, la cui lava ("sotterraneo foco") raggiungerà e ripercorrerà luoghi già noti, perchè da essa già seppelliti in epoche anteriori, e così stenderà il suo avido manto sulle tenere selve di ginestre. Ma il fiore si lascerà travolgere; non tenterà di resistere alla furia distruttrice, ma piegherà il suo capo innocente (nota la rima "renitente-innocente", che aggiunge una nota elegiaca di pietà al verso).
         Così il poeta (= ginestra), come qualsiasi uomo veramente eroico e virile, non tenterà neppure, inutilmente ("indarno") e vigliaccamente, di supplicare la morte (o, meglio, la natura, che assegna la morte a ciascuno); come la finestra piegherà quel capo che non ha mai inna1zato con insensato orgoglio né verso le stelle né sul deserto dove è nata e dove dimora per caso, non già per volontà sua o di altri, così l'uomo è sulla terra ospite fortuito, non già predestinato né oggetto di una particolare provvidenza (cfr. il "Dialogo della Natura e di un Islandese": "Ponghiamo caso ... degli altri animali e di ogni creatura").
         Ecco la saggezza per il Leopardi: tanto più saggia è la ginestra e tanto meno stolta ("inferma") dell’uomo in quanto non ha mai creduto che le sue fragili generazioni, le sue discendenze, fossero state rese immortali da una forza trascendente o dalla gloria conseguita con le sue opere.
         Il verso finale, che sintatticamente si riferisce alle stirpi della ginestra, praticamente è invece tutto rivolto all’uomo (c’è chi, come il Levi, v’intravvede determinate credenze filosofíche o a quelle religiose del Cristianesimo, ma ai più non pare il caso).






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Giuseppe Bonghi

Analisi del canto

Creazione: La ginestra fu composta nella Villa Ferrigni, su un colle "a cavaliere di Torre del Greco e di Torre dell'Annunziata", di proprietà del cognato di Antonio Ranieri, "una villetta sulle falde proprio del Vesuvio, non lungi da quel delizioso colle che insino a Napoli si vede, quasi un bernoccolo, sull'estrema coda meridionale del monte". Qui Ranieri nella primavera del 1836 insieme "col bravo Pasquale, e, per giunta, con la compagnia di un'antica, savia e fidatissima familiare di casa Ferrigni, a nome Costanza" portò il Leopardi e qui il poeta ascoltava "con piacevole attenzione, i racconti e le leggende vulcaniche del fattore Giuseppe, della moglie, Angiola Rosa, dei figliuoli e delle figliuole, gente patriarcale ed antica di quei luoghi e di quel podere"; nel pieno dell'estate si spostarono verso l'aria più fresca di Capodimonte, ma, anche su consiglio dei medici, verso l'autunno tornarono a villa Ferrigni. In questo soggiorno si verificò un discreto miglioramento delle condizioni generali fisiche del poeta; e in questo miglioramento, secondo la testimonianza sempre di Antonio Ranieri, scrisse questo canto, insieme a Il tramonto della luna e i Paralipomeni e quella raccolta di frammenti o pensieri che non hanno avuto da parte del Leopardi una sistemazione definitiva.
         La ginestra viene quindi composta nel 1836, sicuramente dopo l'edizione Starita di Napoli del 1835; di essa si conservano tre copie manoscritte, tutte di mano di Antonio Ranieri, perché ormai negli ultimi due anni della sua vita Leopardi non riusciva più a leggere e scrivere; le copie non sono identiche, perché verosimilmente rispecchiano tre diversi momenti del corso della scrittura della canzone. Fu pubblicata postuma per la prima volta nell’edizione fiorentina della Lemonnier del 1845 curata dal Ranieri e posta a conclusione dei Canti, conformemente alla volontà del poeta.

Metro: Sette strofe di versi endecasillabi e versi settenari, di varia lunghezza; varie le rime (quattro volte "baciate" in fine di strofa); presenti anche le rimalmezzo, ora insistenti e ripetute, ora distanti decine di versi. Endecasillabi 183, settenari 134.

Tema centrale

         Leopardi in questo canto mette in contrapposizione la smisurata potenza della Natura con la debolezza e fragilità, e direi quasi impotenza, del genere umano: da un lato la Natura che tutto può e dall'altro l'uomo che deve subire ciò che la divinità superiore con i suoi "decreti" ha stabilito per lui; l'insesorabile inimicizia della Natura nei confronti degli uomini in contrasto con la ridicola superbia degli uomini che, pur non essendo nulla, si credono padroni e signori della terra e dell'universo.
         Il canto, nella sua forma aparentemente calma, presenta una forza terribilmente tragica, come tragica è stata per gli uomini la potenza distruttrice del Vesuvio; ma la tragedia immane e mortale è in qualche modo mitigata dalla presenza della ginestra che apre e chiude il canto. Il tema di fondo è questa titanica lotta

struttura

         Dividiamo il canto in tre grandi movimenti, secondo lo schema seguente, tenendo presente che A e B contengono la presenza della ginestra:

A

I

II

III

B

1-16

17-86

87-201

202-296

297-317

la ginestra

invettive contro la natura e la cultura dominante; stoltezza della cultura del secolo e delle vacue ideologie cui si contrappone la propria eroica anche se tragica certezza del doloroso vivere quotidiano

- piccolezza dell'uomo nel presente

- precarietà della condizione umana

cecità, potenza e insensibilità della natura

-la ginestra

- umiltà e saggezza dell'uomo illuminato

Queste le caratteristiche fondamentali delle otto strofe:

strofa

versi

tema

1

1-16

La ginestra

2

17-51

invettiva contro la natura - ginestra simbolo della poesia

3

52-86

invettiva contro a cultura dominante

4

86-157

stoltezza e nobiltà dell'uomo - 111-135: la più alta affermazione della propria dignità morale che Leopardi abbia lasciato, espressione definitiva dell'ideale di eroica lotta contro il destino; la magnanima grandezza, unico possibile riscatto dalla miseria della condizione umana, è unita a un ideale di fraternità con gli altri uomini

5

158-201

piccolezza dell'uomo, precarietà della condizione umana - visione di spazi cosmici sterminati, immensità gelida incomprensibile e arcana - lo spazio smisurato coincide col nulla

6

202-236

cecità della natura cieche e inesorabili sono le forze naturali che casualmente distruggono i viventi nella morte: in ogni caso la Natura segue impassibile il suo eterno corso

7

237-296

potenza e insensibilità della natura: non solo sul nuovo, ma anche sulle rovine incombe minacciosa la Natura

8

297-317

umiltà e saggezza dell'uomo illuminato

La ginestra

         Il canto si apre e si chiude con la figura simbolica della ginestra. La pianta, che muore e rinasce sulla devastazione, ha un duplice significato metaforico: da un lato simboleggia la nullità delgli esseri umani nel ciclo perenne della natura di distruzione e ricostruzione in quanto ogni cosa avviene al di fuori della loro volontà, e dall'altro il valore positivo della rinascita che non è sopravvivenza a una catastrofe per cui alla fine non resta che curare le ferite (la sopravvivenza testimonierebbe tra l'altro una profonda e autonoma capacità di resistenza negli esseri umani, una resistenza che in effetti, come abbiamo detto all'inizio, non c'è. La ginestra consola col suo profumo il deserto creato dalla distruzione, un profumo non forte e pungente come non appariscente è la sua figura che presenta dei fiori dalla forma umile e semplice; proprio per questo diventa l'immagine dell'anima nobile e grande, capace di rinascere e rifiorire dopo la catastrofe.
         Più che il valore della sopravvivenza, quindi, mi sembra che questo fiore metta in evidenza la grande capacità di rinascita che è insita in ogni essere umano; ma anche questa capacità non è un merito che appartiene a noi uomini; anzi, è una capacità che ci viene proprio dalla Natura. L'immagine del fiore è caratterizzata da tre elementi, "che sono di umiltà, di resistenza, di consolazione", ed è un'immagne che porta il poeta a "un'ampia riflessione incentrata sul confronto tra i tempi lunghissimi dell'evoluzione naturale e i tempi brevi della storia; tra la vastità dell'universo fisico e la marginalità della terra; tra la grandiosità delle energie naturali e la precarietà delle costruzioni umane.
         La ginestra, infine, può essere assunta come simbolo della poesia come più alta espressione dell'uomo e unico conforto del vivere. Complessivamente nel canto diventa il simbolo della poesia dell'ultimo Leopardi e della sua consapevolezza virile e pietosa e del'accettazione eroica della dolorosità in cui il destino ha immerso la vita quotidiana.

Commento

         Connessa ai temi trattati sopra è l'aspra polemica col "secol superbo e sciocco", cioè le tendenze ottimistiche del Romanticismo cattolico e liberale che si fonda sulla fede nell'inevitabile progresso della civiltà umana fondata sulla concezione di un Dio imperscrutabile che è ordine e Provvidenza in contrapposizione con la Natura che persegue fini inconoscibili in contrasto con la fiducia illuministica nella Ragione.
         Nella Ginestra abbiamo il ripudio di ogni mito in nome del vero, di una filosofia dolorosa ma vera e reale, che "procura agli uomini forti la fiera compiacenza di veder strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano" (Pazzaglia, Ottocento, 370):
        Il tema è la lotta dell'uomo contro la «natura». Ed è la lotta del poeta, in primo luogo, dato che la sua persona e la sua vicenda sono fondamentalmente al centro della poesia; ma qui più che altrove la sua esperienza tende ad assumere un significato universale ed esemplare. Allo stesso modo, il paesaggio vesuviano, che parla di squallore e di morte, il cielo che si stende infinito e lontano, inaccessibile e indifferente divengono un paesaggio reale e insieme metafisico: il simbolo della condizione umana nel mondo.
         Su questa prima intuizione si snoda il tessuto meditativo del canto. La natura "matrigna" è intesa soltanto alla distruzione dell'uomo, alla perenne metamorfosi di una vita meccanica e assurda del cosmo, nessuna voce risponde al grido di dolore che si perde negli spazi sterminati di un tutto incomprensibile che assume, per questo, l'aspetto d'un solido nulla. E tuttavia nel rendersi pienamente conto di questa amarissima verità, nella virile, impavida accettazione della morte e della sofferenza fatale, nella denuncia del mal che ci fu dato in sorte, l'uomo rivela la sua nobiltà.
         Questa tensione eroica non si esaurisce in un ambito soggettivo: il Leopardi esce dalla sua solitudine, afferma le proprie concezioni nel mondo, ritrova una presenza fraterna nel desolato universo. Nasce di qui il messaggio della Ginestra: gli uomini devono guardare in faccia il destino, con magnanima consapevolezza, opporsi ad esso costruendo un mondo veramente umano, fondato sulla solidarietà nel dolore, la compassione, la fraternità, e combattere uniti contro la natura matrigna.
        I versi 111-135 rappresentano forse il fulcro dell'intero canto, al di là delle invettive contro la natura e contro la cultura dominante del secolo "superbo e sciocco": sono la più alta affermazione della propria dignità morale che Leopardi abbia lasciato e l'espressione definitiva dell'ideale di eroica lotta contro il destino; la magnanima grandezza, unico possibile riscatto dalla miseria della condizione umana, è unita a un ideale di fraternità con gli altri uominie all'esigenza di costruire un mondo fondato sull'amore e sulla solidarietà da contrapporre a quello cieco e meccanico della natura. L'accettazione coraggiosa ed eroica del vero e del destino umano sono la sfida suprema dell'uomo che proprio nella ritrovata fraternità e nella pietà dolorosa riscatta la propria dignità dal nulla in cui la Natura quotidianamente lo spinge.


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© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 05 aprile 1999