Giacomo Leopardi
Canti
XVI.
LA VITA SOLITARIA.
La mattutina pioggia, allor che lale Battendo esulta nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon saffaccia Labitator de campi, e il Sol che nasce I suoi tremuli rai fra le cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli augelli susurro, e laura fresca, E le ridenti piagge benedico: Poichè voi, cittadine infauste mura, Vidi e conobbi assai, là dove segue Odio al dolor compagno; e doloroso Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna Benchè scarsa pietà pur mi dimostra Natura in questi lochi, un giorno oh quanto Verso me più cortese! E tu pur volgi Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando Le sciagure e gli affanni, alla reina Felicità servi, o natura. In cielo, In terra amico aglinfelici alcuno E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor massido in solitaria parte, Amore, amore, assai lungi
volasti O cara luna, al cui
tranquillo raggio |
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XVII.
CONSALVO.
Presso
alla fin di sua dimora in terra, Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo Del suo destino; or già non più, che a mezzo Il quinto lustro, gli pendea sul capo Il sospirato obblio. Qual da gran tempo, Così giacea nel funeral suo giorno Dai più diletti amici abbandonato: Chamico in terra al lungo andar nessuno Resta a colui che della terra è schivo. Pur gli era al fianco, da pietà condotta A consolare il suo deserto stato, Quella che sola e sempre eragli a mente, Per divina beltà famosa Elvira; Conscia del suo poter, conscia che un guardo Suo lieto, un detto dalcun dolce asperso, Ben mille volte ripetuto e mille Nel costante pensier, sostegno e cibo Esser solea dellinfelice amante: Benchè nulla damor parola udita Avessella da lui. Sempre in quellalma Era del gran desio stato più forte Un sovrano timor. Così lavea Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.
Ma ruppe alfin la morte il nodo antico Stette sospesa e pensierosa
in atto Che divenisti allor? quali
appariro O Elvira, Elvira, oh lui felice,
oh sovra Or tu vivi beata, e il mondo
abbella, Tacque: nè molto andò, che
a lui col suono |
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XVIII.
ALLA SUA DONNA.
Cara
beltà che amore Lunge minspiri o nascondendo il viso, Fuor se nel sonno il core Ombra diva mi scuoti, O ne campi ove splenda Più vago il giorno e di natura il riso; Forse tu linnocente Secol beasti che dalloro ha nome, Or leve intra la gente Anima voli? o te la sorte avara Cha noi tasconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai Fra cotanto dolore Per le valli, ove suona Se delleterne idee |
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XIX.
AL CONTE CARLO PEPOLI.
Questo
affannoso e travagliato sonno Che noi vita nomiam, come sopporti, Pepoli mio? di che speranze il core Vai sostentando? in che pensieri, in quanto O gioconde o moleste opre dispensi Lozio che ti lasciàr gli avi remoti, Grave retaggio e faticoso? È tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quelloprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che allintento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. La schiera industre Cui franger glebe o curar piante e greggi Vede lalba tranquilla e vede il vespro, Se oziosa dirai, da che sua vita È per campar la vita, e per se sola La vita alluom non ha pregio nessuno, Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne Sudar nelle officine, ozio le vegghie Son de guerrieri e il perigliar nellarmi; E il mercatante avaro in ozio vive: Che non a se, non ad altrui, la bella Felicità, cui solo agogna e cerca La natura mortal, veruno acquista Per cura o per sudor, vegghia o periglio. Pure allaspro desire onde i mortali Già sempre infin dal dì che il mondo nacque Desser beati sospiraro indarno, Di medicina in loco apparecchiate Nella vita infelice avea natura Necessità diverse, a cui non senza Opra e pensier si provvedesse, e pieno, Poi che lieto non può, corresse il giorno Allumana famiglia; onde agitato E confuso il desio, men loco avesse Al travagliarne il cor. Così de bruti La progenie infinita, a cui pur solo, Nè men vano che a noi, vive nel petto Desio desser beati; a quello intenta Che a lor vita è mestier, di noi men tristo Condur si scopre e men gravoso il tempo, Nè la lentezza accagionar dellore. Ma noi, che il viver nostro allaltrui mano Provveder commettiamo, una più grave Necessità, cui provveder non puote Altri che noi, già senza tedio e pena Non adempiam: necessitate, io dico, Di consumar la vita: improba, invitta Necessità, cui non tesoro accolto, Non di greggi dovizia, o pingui campi, Non aula puote e non purpureo manto Sottrar lumana prole. Or saltri, a sdegno I vóti anni prendendo, e la superna Luce odiando, lomicida mano, I tardi fati a prevenir condotto, In se stesso non torce; al duro morso Della brama insanabile che invano Felicità richiede, esso da tutti Lati cercando, mille inefficaci Medicine procaccia, onde quelluna Cui natura apprestò, mal si compensa.
Lui delle vesti e delle chiome il culto Altri, quasi a fuggir volto
la trista Havvi chi le crudeli opre di
marte Te più mite desio, cura
più dolce In questo specolar gli ozi
traendo |
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XX.
IL RISORGIMENTO.
Credei
chal tutto fossero In me, sul fior degli anni, Mancati i dolci affanni Della mia prima età: I dolci affanni, i teneri Moti del cor profondo, Qualunque cosa al mondo Grato il sentir ci fa. Quante
querele e lacrime Piansi spogliata, esanime Pur di quel pianto origine Fra poco in me quellultimo Qual fui! quanto dissimile Non allautunno pallido E voi, pupille tenere, Dogni dolcezza vedovo, Qual delletà decrepita Chi dalla grave, immemore Siete pur voi quellunica Meco ritorna a vivere Forse la speme, o povero Non lannullàr: non
vinsela Che non del ben sollecita Che ignora il tristo secolo Nessuno ignoto ed intimo Pur sento in me rivivere Mancano, il sento, allanima |
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XXI.
A SILVIA.
Silvia,
rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete Io gli studi leggiadri Che pensieri soavi, Tu pria che lerbe
inaridisse il verno, Anche peria fra poco |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 18 luglio 1999