Giovanni Boccaccio
Decameron
Quarta Giornata
Novella quinta
I fratelli dell'Isabetta uccidon l'amante di lei; egli l'apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterrato. Ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo di bassilico; e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso.
Finita la novella d'Elissa, e alquanto dal re
commendata, a Filomena fu imposto che ragionasse; la quale, tutta piena di compassione del
misero Gerbino e della sua donna, dopo un pietoso sospiro incominciò:
La mia novella, graziose donne, non sarà di genti di sì
alta condizione, come costoro furono de'quali Elissa ha raccontato, ma ella per avventura
non sarà men pietosa; e a ricordarmi di quella mi tira Messina poco innanzi ricordata,
dove l'accidente avvenne.
Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti,
e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro, il qual fu da San Gimignano, e
avevano una lor sorella chiamata Lisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che
che se ne fosse cagione, ancora maritata non aveano. E avevano oltre a ciò questi tre
fratelli in uno lor fondaco un giovinetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti
guidava e faceva, il quale, essendo assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo
più volte l'Isabetta guatato, avvenne che egli le 'ncominciò stranamente a piacere. Di
che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti
di fuori, incominciò a porre l'animo a lei; e sì andò la bisogna che, piacendo l'uno
all'altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più
disiderava ciascuno.
E in questo continuando e avendo insieme assai di buon
tempo e di piacere, non seppero sì segretamente fare che una notte, andando l'Isabetta
là dove Lorenzo dormiva, che il maggior de'fratelli, senza accorgersene ella, non se ne
accorgesse. Il quale, per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a
ciò sapere, pur mosso da più onesto consiglio, senza far motto o dir cosa alcuna, varie
cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò.
Poi, venuto il giorno, a' suoi fratelli ciò che veduto avea la passata notte
dell'Isabetta e di Lorenzo raccontò, e con loro insieme, dopo lungo consiglio, diliberò
di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia ne seguisse, di
passarsene tacitamente e d'infignersi del tutto d'averne alcuna cosa veduta o saputa
infino a tanto che tempo venisse nel qua le essi, senza danno o sconcio di loro, questa
vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero torre dal viso.
E in tal disposizion dimorando, così cianciando e ridendo
con Lorenzo come usati erano avvenne che, sembianti faccendo d'andare fuori della città a
diletto tutti e tre, seco menarono Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e
rimoto, veggendosi il destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva, uccisono e
sotterrarono in guisa che niuna persona se ne accorse. E in Messina tornati dieder voce
d'averlo per lor bisogne mandato in alcun luogo; il che leggiermente creduto fu, per ciò
che spesse volte eran di mandarlo attorno usati. Non tornando Lorenzo, e l'Isabetta molto
spesso e sollicitamente i fratei domandandone, sì come colei a cui la dimora lunga
gravava, avvenne un giorno che, domandandone ella molto instantemente, che l'uno
de'fratelli le disse: - Che vuol dir questo? Che hai tu a fare di Lorenzo, ché tu ne
domandi così spesso? Se tu ne domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si
conviene. -
Per che la giovane dolente e trista, temendo e non
sappiendo che, senza più domandarne si stava, e assai volte la notte pietosamente il
chiamava e pregava che ne venisse, e alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora
si doleva e, senza punto rallegrarsi, sempre aspettando si stava.
Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo
che non tornava, ed essendosi alla fine piagnendo addormentata, Lorenzo l'apparve nel
sonno, pallido e tutto rabbuffato e con panni tutti stracciati e fracidi indosso, e
parvele che egli dicesse: - O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia
lunga dimora t'attristi, e me con le tue lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che
io non posso più ritornarci, per ciò che l'ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli
m'uccisono. E disegnatole il luogo dove sotterrato l'aveano, le disse che più nol
chiamasse né l'aspettasse, e disparve.
La giovane destatasi, e dando fede alla visione, amaramente
pianse. Poi la mattina levata, non avendo ardire di dire al cuna cosa a' fratelli, propose
di volere andare al mostrato luogo e di vedere se ciò fosse vero che nel sonno l'era
paruto. E avuta la licenza d'andare alquanto fuor della terra a diporto, in compagnia
d'una che altra volta con loro era stata e tutti i suoi fatti sapeva, quanto più tosto
potè là se n'andò; e tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le
parve la terra quivi cavò; né ebbe guari cavato, che ella trovò il corpo del suo misero
amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto; per che manifestamente conobbe essere
stata vera la sua visione. Di che più che altra femina dolorosa, conoscendo che quivi non
era da piagnere, se avesse potuto volentieri tutto il corpo n'avrebbe portato per dargli
più convenevole sepoltura; ma, veggendo che ciò esser non poteva, con un coltello il
meglio che potè gli spiccò dallo 'mbusto la testa, e quella in uno asciugatoio
inviluppata e la terra sopra l'altro corpo gittata, messala in grembo alla fante, senza
essere stata da alcun veduta, quindi si partì e tornossene a casa sua.
Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra
essa lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille
baci dandole in ogni parte. Poi prese un grande e un bel testo, di questi nei quali si
pianta la persa o il bassilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo, e poi
messovi su la terra, su vi piantò parecchi piedi di bellissimo bassilico salernetano, e
quegli di niuna altra acqua che o rosata o di fior d'aranci o delle sue lagrime non
inaffiava giammai; e per usanza avea preso di sedersi sempre a questo testo vicina, e
quello con tutto il suo disidero vagheggiare, sì come quello che il suo Lorenzo teneva
nascoso; e poi che molto vagheggiato l'avea, sopr'esso andatasene, cominciava a piagnere,
e per lungo spazio, tanto che tutto il bassilico bagnava, piagnea.
Il bassilico, sì per lo lungo e continuo studio, sì per
la grassezza della terra procedente dalla testa corrotta che dentro v'era, divenne
bellissimo e odorifero molto. E servando la giovane questa maniera del continuo, più
volte da'suoi vicini fu veduta. Li quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta
bellezza e di ciò che gli occhi le parevano della testa fuggiti, il disser loro: - Noi ci
siamo accorti, che ella ogni dì tiene la cotal maniera. -
Il che udendo i fratelli e accorgendosene, avendonela
alcuna volta ripresa e non giovando, nascosamente da lei fecer portar via questo testo. Il
quale, non ritrovandolo ella, con grandissima instanzia molte volte richiese; e non
essendole renduto, non cessando il pianto e le lagrime, infermò, né altro che il testo
suo nella infermità domandava. I giovani si maravigliavan forte di questo addimandare e
per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il drappo e in
quello la testa non ancor sì consumata che essi alla capellatura crespa non conoscessero
lei esser quella di Lorenzo. Di che essi si maravigliaron forte e temettero non questa
cosa si risapesse; e sotterrata quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e
ordinato come di quindi si ritraessono, se n'andarono a Napoli. La giovane non restando di
piagnere e pure il suo testo addimandando, piagnendo si morì; e così il suo
disavventurato amore ebbe termine. Ma poi a certo tempo divenuta questa cosa manifesta a
molti, fu alcuno che compuose quella canzone la quale ancora oggi si canta, cioè:
Quale esso fu lo malo cristiano, che mi furò la grasta, ecc. |
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Indice delle novelle della quarta giornata
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 08 febbraio 1998