Dante Alighieri

LA DIVINA COMMEDIA

PURGATORIO

Canto XXXI

mercoledì 13 aprile, mattina Paradiso terrestre, sulle sponde del fiume Letè Matelda, Stazio Rimproveri di Beatrice e pentimento di Dante, che cade privo di sensi: quando rinviene si trova immerso nelle acque del Letè, che eliminano le tracce dei suoi peccati. Solo allora può vedere Beatrice. 
canto: Asperges me.
Comincia il canto vigesimoprimo del Purgatoro. Nel quale l'autore distesamente discrive la grave riprension fattagli da Beatrice, e il dolore che per quella sentì; e appresso come, fuor di sé essendo e risentendosi, si trovò tirato dalla donna, che prima trovata avea, nel fiume, e in quello da lei tuffato; e avendo dell'acqua bevuta, fu dalle quattro donne presentato a Beatrice, e come lei, levato dal viso il velo, apertamente vide.
      «O tu che se' di là dal fiume sacro», 
volgendo suo parlare a me per punta, 
che pur per taglio m'era paruto acro, 
      ricominciò, seguendo sanza cunta, 
«dì, dì se questo è vero: a tanta accusa 
tua confession conviene esser congiunta». 
      Era la mia virtù tanto confusa, 
che la voce si mosse, e pria si spense 
che da li organi suoi fosse dischiusa. 
      Poco sofferse; poi disse: «Che pense? 
Rispondi a me; ché le memorie triste 
in te non sono ancor da l'acqua offense». 
      Confusione e paura insieme miste 
mi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca, 
al quale intender fuor mestier le viste. 
      Come balestro frange, quando scocca 
da troppa tesa la sua corda e l'arco, 
e con men foga l'asta il segno tocca, 
      sì scoppia' io sottesso grave carco, 
fuori sgorgando lagrime e sospiri, 
e la voce allentò per lo suo varco. 
      Ond'ella a me: «Per entro i mie' disiri, 
che ti menavano ad amar lo bene 
di là dal qual non è a che s'aspiri, 
      quai fossi attraversati o quai catene 
trovasti, per che del passare innanzi 
dovessiti così spogliar la spene? 
      E quali agevolezze o quali avanzi 
ne la fronte de li altri si mostraro, 
per che dovessi lor passeggiare anzi?». 
      Dopo la tratta d'un sospiro amaro, 
a pena ebbi la voce che rispuose, 
e le labbra a fatica la formaro. 
      Piangendo dissi: «Le presenti cose 
col falso lor piacer volser miei passi, 
tosto che 'l vostro viso si nascose». 
      Ed ella: «Se tacessi o se negassi 
ciò che confessi, non fora men nota 
la colpa tua: da tal giudice sassi! 
      Ma quando scoppia de la propria gota 
l'accusa del peccato, in nostra corte 
rivolge sé contra 'l taglio la rota. 
      Tuttavia, perché mo vergogna porte 
del tuo errore, e perché altra volta, 
udendo le serene, sie più forte, 
      pon giù il seme del piangere e ascolta: 
sì udirai come in contraria parte 
mover dovieti mia carne sepolta. 
      Mai non t'appresentò natura o arte 
piacer, quanto le belle membra in ch'io 
rinchiusa fui, e che so' 'n terra sparte; 
      e se 'l sommo piacer sì ti fallio 
per la mia morte, qual cosa mortale 
dovea poi trarre te nel suo disio? 
      Ben ti dovevi, per lo primo strale 
de le cose fallaci, levar suso 
di retro a me che non era più tale. 
      Non ti dovea gravar le penne in giuso, 
ad aspettar più colpo, o pargoletta 
o altra vanità con sì breve uso. 
      Novo augelletto due o tre aspetta; 
ma dinanzi da li occhi d'i pennuti 
rete si spiega indarno o si saetta». 
      Quali fanciulli, vergognando, muti 
con li occhi a terra stannosi, ascoltando 
e sé riconoscendo e ripentuti, 
      tal mi stav'io; ed ella disse: «Quando 
per udir se' dolente, alza la barba, 
e prenderai più doglia riguardando». 
      Con men di resistenza si dibarba 
robusto cerro, o vero al nostral vento 
o vero a quel de la terra di Iarba, 
      ch'io non levai al suo comando il mento; 
e quando per la barba il viso chiese, 
ben conobbi il velen de l'argomento. 
      E come la mia faccia si distese, 
posarsi quelle prime creature 
da loro aspersion l'occhio comprese; 
      e le mie luci, ancor poco sicure, 
vider Beatrice volta in su la fiera 
ch'è sola una persona in due nature. 
      Sotto 'l suo velo e oltre la rivera 
vincer pariemi più sé stessa antica, 
vincer che l'altre qui, quand'ella c'era. 
      Di penter sì mi punse ivi l'ortica 
che di tutte altre cose qual mi torse 
più nel suo amor, più mi si fé nemica. 
      Tanta riconoscenza il cor mi morse, 
ch'io caddi vinto; e quale allora femmi, 
salsi colei che la cagion mi porse. 
      Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi, 
la donna ch'io avea trovata sola 
sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!». 
      Tratto m'avea nel fiume infin la gola, 
e tirandosi me dietro sen giva 
sovresso l'acqua lieve come scola. 
      Quando fui presso a la beata riva, 
'Asperges me' sì dolcemente udissi, 
che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva. 
      La bella donna ne le braccia aprissi; 
abbracciommi la testa e mi sommerse 
ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi. 
      Indi mi tolse, e bagnato m'offerse 
dentro a la danza de le quattro belle; 
e ciascuna del braccio mi coperse. 
      «Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle: 
pria che Beatrice discendesse al mondo, 
fummo ordinate a lei per sue ancelle. 
      Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo 
lume ch'è dentro aguzzeranno i tuoi 
le tre di là, che miran più profondo». 
      Così cantando cominciaro; e poi 
al petto del grifon seco menarmi, 
ove Beatrice stava volta a noi. 
      Disser: «Fa che le viste non risparmi; 
posto t'avem dinanzi a li smeraldi 
ond'Amor già ti trasse le sue armi». 
      Mille disiri più che fiamma caldi 
strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, 
che pur sopra 'l grifone stavan saldi. 
      Come in lo specchio il sol, non altrimenti 
la doppia fiera dentro vi raggiava, 
or con altri, or con altri reggimenti. 
      Pensa, lettor, s'io mi maravigliava, 
quando vedea la cosa in sé star queta, 
e ne l'idolo suo si trasmutava. 
      Mentre che piena di stupore e lieta 
l'anima mia gustava di quel cibo 
che, saziando di sé, di sé asseta, 
      sé dimostrando di più alto tribo 
ne li atti, l'altre tre si fero avanti, 
danzando al loro angelico caribo. 
      «Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi», 
era la sua canzone, «al tuo fedele 
che, per vederti, ha mossi passi tanti! 
      Per grazia fa noi grazia che disvele 
a lui la bocca tua, sì che discerna 
la seconda bellezza che tu cele». 
      O isplendor di viva luce etterna, 
chi palido si fece sotto l'ombra 
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna, 
      che non paresse aver la mente ingombra, 
tentando a render te qual tu paresti 
là dove armonizzando il ciel t'adombra, 
      quando ne l'aere aperto ti solvesti?
 
 

 
 

 
 
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Canto XXXII

mercoledì 13 aprile, circa un'ora prima di mezzogiorno foresta del Paradiso terrestre Matelda, Stazio Agli occhi di Dante si presenta lo spettacolo allegorico della storia della Chiesa in sette quadri
Comincia il canto trigesimosecondo del Purgatoro. Nel quale l'autore discrive come il triunfo celeste si volse a tornare indietro, e come, ad un albero senza foglie smontata Beatrice del carro, esso fu legato dal grifone; e appresso come s'addormentò, e, svegliato, vide il grifone esser partito e Beatrice rimasa, la quale gli fa rimirare il carro, sopra 'l quale per figura vede certe cose alla Chiesa di dio avvenute e che doveano avvenire.
      Tant'eran li occhi miei fissi e attenti 
a disbramarsi la decenne sete, 
che li altri sensi m'eran tutti spenti. 
      Ed essi quinci e quindi avien parete 
di non caler - così lo santo riso 
a sé traéli con l'antica rete! -; 
      quando per forza mi fu vòlto il viso 
ver' la sinistra mia da quelle dee, 
perch'io udi' da loro un «Troppo fiso!»; 
      e la disposizion ch'a veder èe 
ne li occhi pur testé dal sol percossi, 
sanza la vista alquanto esser mi fée. 
      Ma poi ch'al poco il viso riformossi 
(e dico 'al poco' per rispetto al molto 
sensibile onde a forza mi rimossi), 
      vidi 'n sul braccio destro esser rivolto 
lo glorioso essercito, e tornarsi 
col sole e con le sette fiamme al volto. 
      Come sotto li scudi per salvarsi 
volgesi schiera, e sé gira col segno, 
prima che possa tutta in sé mutarsi; 
      quella milizia del celeste regno 
che procedeva, tutta trapassonne 
pria che piegasse il carro il primo legno. 
      Indi a le rote si tornar le donne, 
e 'l grifon mosse il benedetto carco 
sì, che però nulla penna crollonne. 
      La bella donna che mi trasse al varco 
e Stazio e io seguitavam la rota 
che fé l'orbita sua con minore arco. 
      Sì passeggiando l'alta selva vòta, 
colpa di quella ch'al serpente crese, 
temprava i passi un'angelica nota. 
      Forse in tre voli tanto spazio prese 
disfrenata saetta, quanto eramo 
rimossi, quando Beatrice scese. 
      Io senti' mormorare a tutti «Adamo»; 
poi cerchiaro una pianta dispogliata 
di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo. 
      La coma sua, che tanto si dilata 
più quanto più è sù, fora da l'Indi 
ne' boschi lor per altezza ammirata. 
      «Beato se', grifon, che non discindi 
col becco d'esto legno dolce al gusto, 
poscia che mal si torce il ventre quindi». 
      Così dintorno a l'albero robusto 
gridaron li altri; e l'animal binato: 
«Sì si conserva il seme d'ogne giusto». 
      E vòlto al temo ch'elli avea tirato, 
trasselo al piè de la vedova frasca, 
e quel di lei a lei lasciò legato. 
      Come le nostre piante, quando casca 
giù la gran luce mischiata con quella 
che raggia dietro a la celeste lasca, 
      turgide fansi, e poi si rinovella 
di suo color ciascuna, pria che 'l sole 
giunga li suoi corsier sotto altra stella; 
      men che di rose e più che di viole 
colore aprendo, s'innovò la pianta, 
che prima avea le ramora sì sole. 
      Io non lo 'ntesi, né qui non si canta 
l'inno che quella gente allor cantaro, 
né la nota soffersi tutta quanta. 
      S'io potessi ritrar come assonnaro 
li occhi spietati udendo di Siringa, 
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro; 
      come pintor che con essempro pinga, 
disegnerei com'io m'addormentai; 
ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga. 
      Però trascorro a quando mi svegliai, 
e dico ch'un splendor mi squarciò 'l velo 
del sonno e un chiamar: «Surgi: che fai?». 
      Quali a veder de' fioretti del melo 
che del suo pome li angeli fa ghiotti 
e perpetue nozze fa nel cielo, 
      Pietro e Giovanni e Iacopo condotti 
e vinti, ritornaro a la parola 
da la qual furon maggior sonni rotti, 
      e videro scemata loro scuola 
così di Moisè come d'Elia, 
e al maestro suo cangiata stola; 
tal torna' io, e vidi quella pia 
sovra me starsi che conducitrice 
fu de' miei passi lungo 'l fiume pria. 
E tutto in dubbio dissi: «Ov'è Beatrice?». 
Ond'ella: «Vedi lei sotto la fronda 
nova sedere in su la sua radice. 
      Vedi la compagnia che la circonda: 
li altri dopo 'l grifon sen vanno suso 
con più dolce canzone e più profonda». 
      E se più fu lo suo parlar diffuso, 
non so, però che già ne li occhi m'era 
quella ch'ad altro intender m'avea chiuso. 
      Sola sedeasi in su la terra vera, 
come guardia lasciata lì del plaustro 
che legar vidi a la biforme fera. 
      In cerchio le facean di sé claustro 
le sette ninfe, con quei lumi in mano 
che son sicuri d'Aquilone e d'Austro. 
      «Qui sarai tu poco tempo silvano; 
e sarai meco sanza fine cive 
di quella Roma onde Cristo è romano. 
      Però, in pro del mondo che mal vive, 
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, 
ritornato di là, fa che tu scrive». 
      Così Beatrice; e io, che tutto ai piedi 
d'i suoi comandamenti era divoto, 
la mente e li occhi ov'ella volle diedi. 
      Non scese mai con sì veloce moto 
foco di spessa nube, quando piove 
da quel confine che più va remoto, 
      com'io vidi calar l'uccel di Giove 
per l'alber giù, rompendo de la scorza, 
non che d'i fiori e de le foglie nove; 
      e ferì 'l carro di tutta sua forza; 
ond'el piegò come nave in fortuna, 
vinta da l'onda, or da poggia, or da orza. 
      Poscia vidi avventarsi ne la cuna 
del triunfal veiculo una volpe 
che d'ogne pasto buon parea digiuna; 
      ma, riprendendo lei di laide colpe, 
la donna mia la volse in tanta futa 
quanto sofferser l'ossa sanza polpe. 
      Poscia per indi ond'era pria venuta, 
l'aguglia vidi scender giù ne l'arca 
del carro e lasciar lei di sé pennuta; 
      e qual esce di cuor che si rammarca, 
tal voce uscì del cielo e cotal disse: 
«O navicella mia, com'mal se' carca!». 
      Poi parve a me che la terra s'aprisse 
tr'ambo le ruote, e vidi uscirne un drago 
che per lo carro sù la coda fisse; 
      e come vespa che ritragge l'ago, 
a sé traendo la coda maligna, 
trasse del fondo, e gissen vago vago. 
      Quel che rimase, come da gramigna 
vivace terra, da la piuma, offerta 
forse con intenzion sana e benigna, 
      si ricoperse, e funne ricoperta 
e l'una e l'altra rota e 'l temo, in tanto 
che più tiene un sospir la bocca aperta. 
      Trasformato così 'l dificio santo 
mise fuor teste per le parti sue, 
tre sovra 'l temo e una in ciascun canto. 
      Le prime eran cornute come bue, 
ma le quattro un sol corno avean per fronte: 
simile mostro visto ancor non fue. 
      Sicura, quasi rocca in alto monte, 
seder sovresso una puttana sciolta 
m'apparve con le ciglia intorno pronte; 
      e come perché non li fosse tolta, 
vidi di costa a lei dritto un gigante; 
e baciavansi insieme alcuna volta. 
      Ma perché l'occhio cupido e vagante 
a me rivolse, quel feroce drudo 
la flagellò dal capo infin le piante; 
      poi, di sospetto pieno e d'ira crudo, 
disciolse il mostro, e trassel per la selva, 
tanto che sol di lei mi fece scudo 
      a la puttana e a la nova belva.
 
 

 
 

 
 
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Canto XXXIII

mercoledì 13 aprile, mezzogiorno Paradiso terrestre Matelda, Stazio Le sette donne intonano il canto Deus, venerunt gentes. Beatrice esorta Dante a ricordare ciò che ha visto e sentito. A mezzogiorno Matelda conduce Dante nel fiume Eunoè, che procura in lui un totale rinnovamento.
Comincia il canto trigesimoterzo del Purgatoro. Nel quale l'autore significa certe cose future a lui da Beatrice predette, e come da Matelda bagnato in Eunoè, puro tornò a Beatrice. Qui finisce la seconda parte della Cantica, overo Commedia di Dante Alighieri chiamata Purgatoro
      'Deus, venerunt gentes', alternando 
or tre or quattro dolce salmodia, 
le donne incominciaro, e lagrimando; 
      e Beatrice sospirosa e pia, 
quelle ascoltava sì fatta, che poco 
più a la croce si cambiò Maria. 
      Ma poi che l'altre vergini dier loco 
a lei di dir, levata dritta in pè, 
rispuose, colorata come foco: 
      'Modicum, et non videbitis me
et iterum, sorelle mie dilette, 
modicum, et vos videbitis me'. 
      Poi le si mise innanzi tutte e sette, 
e dopo sé, solo accennando, mosse 
me e la donna e 'l savio che ristette. 
      Così sen giva; e non credo che fosse 
lo decimo suo passo in terra posto, 
quando con li occhi li occhi mi percosse; 
      e con tranquillo aspetto «Vien più tosto», 
mi disse, «tanto che, s'io parlo teco, 
ad ascoltarmi tu sie ben disposto». 
      Sì com'io fui, com'io dovea, seco, 
dissemi: «Frate, perché non t'attenti 
a domandarmi omai venendo meco?». 
      Come a color che troppo reverenti 
dinanzi a suo maggior parlando sono, 
che non traggon la voce viva ai denti. 
      avvenne a me, che sanza intero suono 
incominciai: «Madonna, mia bisogna 
voi conoscete, e ciò ch'ad essa è buono». 
      Ed ella a me: «Da tema e da vergogna 
voglio che tu omai ti disviluppe, 
sì che non parli più com'om che sogna. 
      Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe 
fu e non è; ma chi n'ha colpa, creda 
che vendetta di Dio non teme suppe. 
      Non sarà tutto tempo sanza reda 
l'aguglia che lasciò le penne al carro, 
per che divenne mostro e poscia preda; 
      ch'io veggio certamente, e però il narro, 
a darne tempo già stelle propinque, 
secure d'ogn'intoppo e d'ogni sbarro, 
      nel quale un cinquecento diece e cinque, 
messo di Dio, anciderà la fuia 
con quel gigante che con lei delinque. 
      E forse che la mia narrazion buia, 
qual Temi e Sfinge, men ti persuade, 
perch'a lor modo lo 'ntelletto attuia; 
      ma tosto fier li fatti le Naiade, 
che solveranno questo enigma forte 
sanza danno di pecore o di biade. 
      Tu nota; e sì come da me son porte, 
così queste parole segna a' vivi 
del viver ch'è un correre a la morte. 
      E aggi a mente, quando tu le scrivi, 
di non celar qual hai vista la pianta 
ch'è or due volte dirubata quivi. 
      Qualunque ruba quella o quella schianta, 
con bestemmia di fatto offende a Dio, 
che solo a l'uso suo la creò santa. 
      Per morder quella, in pena e in disio 
cinquemilia anni e più l'anima prima 
bramò colui che 'l morso in sé punio. 
      Dorme lo 'ngegno tuo, se non estima 
per singular cagione esser eccelsa 
lei tanto e sì travolta ne la cima. 
      E se stati non fossero acqua d'Elsa 
li pensier vani intorno a la tua mente, 
e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa, 
      per tante circostanze solamente 
la giustizia di Dio, ne l'interdetto, 
conosceresti a l'arbor moralmente. 
      Ma perch'io veggio te ne lo 'ntelletto 
fatto di pietra e, impetrato, tinto, 
sì che t'abbaglia il lume del mio detto, 
      voglio anco, e se non scritto, almen dipinto, 
che 'l te ne porti dentro a te per quello 
che si reca il bordon di palma cinto». 
      E io: «Sì come cera da suggello, 
che la figura impressa non trasmuta, 
segnato è or da voi lo mio cervello. 
      Ma perché tanto sovra mia veduta 
vostra parola disiata vola, 
che più la perde quanto più s'aiuta?». 
      «Perché conoschi», disse, «quella scuola 
c'hai seguitata, e veggi sua dottrina 
come può seguitar la mia parola; 
      e veggi vostra via da la divina 
distar cotanto, quanto si discorda 
da terra il ciel che più alto festina». 
      Ond'io rispuosi lei: «Non mi ricorda 
ch'i' straniasse me già mai da voi, 
né honne coscienza che rimorda». 
      «E se tu ricordar non te ne puoi», 
sorridendo rispuose, «or ti rammenta 
come bevesti di Letè ancoi; 
      e se dal fummo foco s'argomenta, 
cotesta oblivion chiaro conchiude 
colpa ne la tua voglia altrove attenta. 
      Veramente oramai saranno nude 
le mie parole, quanto converrassi 
quelle scovrire a la tua vista rude». 
      E più corusco e con più lenti passi 
teneva il sole il cerchio di merigge, 
che qua e là, come li aspetti, fassi 
      quando s'affisser, sì come s'affigge 
chi va dinanzi a gente per iscorta 
se trova novitate o sue vestigge, 
      le sette donne al fin d'un'ombra smorta, 
qual sotto foglie verdi e rami nigri 
sovra suoi freddi rivi l'Alpe porta. 
      Dinanzi ad esse Eufratès e Tigri 
veder mi parve uscir d'una fontana, 
e, quasi amici, dipartirsi pigri. 
      «O luce, o gloria de la gente umana, 
che acqua è questa che qui si dispiega 
da un principio e sé da sé lontana?». 
      Per cotal priego detto mi fu: «Priega 
Matelda che 'l ti dica». E qui rispuose, 
come fa chi da colpa si dislega, 
      la bella donna: «Questo e altre cose 
dette li son per me; e son sicura 
che l'acqua di Letè non gliel nascose». 
      E Beatrice: «Forse maggior cura, 
che spesse volte la memoria priva, 
fatt'ha la mente sua ne li occhi oscura. 
      Ma vedi Eunoè che là diriva: 
menalo ad esso, e come tu se' usa, 
la tramortita sua virtù ravviva». 
      Come anima gentil, che non fa scusa, 
ma fa sua voglia de la voglia altrui 
tosto che è per segno fuor dischiusa; 
      così, poi che da essa preso fui, 
la bella donna mossesi, e a Stazio 
donnescamente disse: «Vien con lui». 
      S'io avessi, lettor, più lungo spazio 
da scrivere, i' pur cantere' in parte 
lo dolce ber che mai non m'avrìa sazio; 
      ma perché piene son tutte le carte 
ordite a questa cantica seconda, 
non mi lascia più ir lo fren de l'arte. 
      Io ritornai da la santissima onda 
rifatto sì come piante novelle 
rinnovellate di novella fronda, 
      puro e disposto a salire alle stelle.
 
 

 
 

 
 
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998