Dante Alighieri

LA DIVINA COMMEDIA

PURGATORIO

Canto XXII

martedì 12 aprile, fra le 10 e le 11 antimeridiane cornice VI, uno strano albero dai frutti dolci e profumati, dalla forma di un abete rovesciato; dalla parete della roccia sgorga un'acqua limpida che si spande sulle foglie. Stazio, Angelo della giustizia l'angelo della V cornice toglia la quinta P dalla fronte di Dante. 
golosi: orribilmente smagriti, passano sotto alberi carichi di frutta profumata e fresca d'acqua, senza poterla toccare, soffrendo la fame e la sete, mentre in vita si abbandonarono ai piaceri raffinati del bere e del mangiare.
Comincia il canto vigesimosecondo del Purgatoro. Nel quale l'autore mostra come, venuti nel sesto girone, e andando Virgilio e Stazio ragionando di varie cose trovarono uno albero nella strada, del quale sentiro certe voci venire verso di loro, le quali sonavano in laude della sobrietà.
      Già era l'angel dietro a noi rimaso, 
l'angel che n'avea vòlti al sesto giro, 
avendomi dal viso un colpo raso; 
      e quei c'hanno a giustizia lor disiro 
detto n'avea beati, e le sue voci 
con 'sitiunt', sanz'altro, ciò forniro. 
      E io più lieve che per l'altre foci 
m'andava, sì che sanz'alcun labore 
seguiva in sù li spiriti veloci; 
      quando Virgilio incominciò: «Amore, 
acceso di virtù, sempre altro accese, 
pur che la fiamma sua paresse fore; 
      onde da l'ora che tra noi discese 
nel limbo de lo 'nferno Giovenale, 
che la tua affezion mi fé palese, 
      mia benvoglienza inverso te fu quale 
più strinse mai di non vista persona, 
sì ch'or mi parran corte queste scale. 
      Ma dimmi, e come amico mi perdona 
se troppa sicurtà m'allarga il freno, 
e come amico omai meco ragiona: 
      come poté trovar dentro al tuo seno 
loco avarizia, tra cotanto senno 
di quanto per tua cura fosti pieno?». 
      Queste parole Stazio mover fenno 
un poco a riso pria; poscia rispuose: 
«Ogne tuo dir d'amor m'è caro cenno. 
      Veramente più volte appaion cose 
che danno a dubitar falsa matera 
per le vere ragion che son nascose. 
      La tua dimanda tuo creder m'avvera 
esser ch'i' fossi avaro in l'altra vita, 
forse per quella cerchia dov'io era. 
      Or sappi ch'avarizia fu partita 
troppo da me, e questa dismisura 
migliaia di lunari hanno punita. 
      E se non fosse ch'io drizzai mia cura, 
quand'io intesi là dove tu chiame, 
crucciato quasi a l'umana natura: 
      'Per che non reggi tu, o sacra fame 
de l'oro, l'appetito de' mortali?', 
voltando sentirei le giostre grame. 
      Allor m'accorsi che troppo aprir l'ali 
potean le mani a spendere, e pente'mi 
così di quel come de li altri mali. 
      Quanti risurgeran coi crini scemi 
per ignoranza, che di questa pecca 
toglie 'l penter vivendo e ne li stremi! 
      E sappie che la colpa che rimbecca 
per dritta opposizione alcun peccato, 
con esso insieme qui suo verde secca; 
      però, s'io son tra quella gente stato 
che piange l'avarizia, per purgarmi, 
per lo contrario suo m'è incontrato». 
      «Or quando tu cantasti le crude armi 
de la doppia trestizia di Giocasta», 
disse 'l cantor de' buccolici carmi, 
      «per quello che Cliò teco lì tasta, 
non par che ti facesse ancor fedele 
la fede, sanza qual ben far non basta. 
      Se così è, qual sole o quai candele 
ti stenebraron sì, che tu drizzasti 
poscia di retro al pescator le vele?». 
      Ed elli a lui: «Tu prima m'inviasti 
verso Parnaso a ber ne le sue grotte, 
e prima appresso Dio m'alluminasti. 
      Facesti come quei che va di notte, 
che porta il lume dietro e sé non giova, 
ma dopo sé fa le persone dotte, 
      quando dicesti: 'Secol si rinova; 
torna giustizia e primo tempo umano, 
e progenie scende da ciel nova'. 
      Per te poeta fui, per te cristiano: 
ma perché veggi mei ciò ch'io disegno, 
a colorare stenderò la mano: 
      Già era 'l mondo tutto quanto pregno 
de la vera credenza, seminata 
per li messaggi de l'etterno regno; 
      e la parola tua sopra toccata 
si consonava a' nuovi predicanti; 
ond'io a visitarli presi usata. 
      Vennermi poi parendo tanto santi, 
che, quando Domizian li perseguette, 
sanza mio lagrimar non fur lor pianti; 
      e mentre che di là per me si stette, 
io li sovvenni, e i lor dritti costumi 
fer dispregiare a me tutte altre sette. 
      E pria ch'io conducessi i Greci a' fiumi 
di Tebe poetando, ebb'io battesmo; 
ma per paura chiuso cristian fu'mi, 
      lungamente mostrando paganesmo; 
e questa tepidezza il quarto cerchio 
cerchiar mi fé più che 'l quarto centesmo. 
      Tu dunque, che levato hai il coperchio 
che m'ascondeva quanto bene io dico, 
mentre che del salire avem soverchio, 
      dimmi dov'è Terrenzio nostro antico, 
Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai: 
dimmi se son dannati, e in qual vico». 
      «Costoro e Persio e io e altri assai», 
rispuose il duca mio, «siam con quel Greco 
che le Muse lattar più ch'altri mai, 
      nel primo cinghio del carcere cieco: 
spesse fiate ragioniam del monte 
che sempre ha le nutrice nostre seco. 
      Euripide v'è nosco e Antifonte, 
Simonide, Agatone e altri piùe 
Greci che già di lauro ornar la fronte. 
      Quivi si veggion de le genti tue 
Antigone, Deifile e Argia, 
e Ismene sì trista come fue. 
      Védeisi quella che mostrò Langia; 
èvvi la figlia di Tiresia, e Teti 
e con le suore sue Deidamia». 
      Tacevansi ambedue già li poeti, 
di novo attenti a riguardar dintorno, 
liberi da saliri e da pareti; 
      e già le quattro ancelle eran del giorno 
rimase a dietro, e la quinta era al temo, 
drizzando pur in sù l'ardente corno, 
      quando il mio duca: «Io credo ch'a lo stremo 
le destre spalle volger ne convegna, 
girando il monte come far solemo». 
      Così l'usanza fu lì nostra insegna, 
e prendemmo la via con men sospetto 
per l'assentir di quell'anima degna. 
      Elli givan dinanzi, e io soletto 
di retro, e ascoltava i lor sermoni, 
ch'a poetar mi davano intelletto. 
      Ma tosto ruppe le dolci ragioni 
un alber che trovammo in mezza strada, 
con pomi a odorar soavi e buoni; 
      e come abete in alto si digrada 
di ramo in ramo, così quello in giuso, 
cred'io, perché persona sù non vada. 
      Dal lato onde 'l cammin nostro era chiuso, 
cadea de l'alta roccia un liquor chiaro 
e si spandeva per le foglie suso. 
      Li due poeti a l'alber s'appressaro; 
e una voce per entro le fronde 
gridò: «Di questo cibo avrete caro». 
      Poi disse: «Più pensava Maria onde 
fosser le nozze orrevoli e intere, 
ch'a la sua bocca, ch'or per voi risponde. 
      E le Romane antiche, per lor bere, 
contente furon d'acqua; e Daniello 
dispregiò cibo e acquistò savere. 
      Lo secol primo, quant'oro fu bello, 
fé savorose con fame le ghiande, 
e nettare con sete ogne ruscello. 
      Mele e locuste furon le vivande 
che nodriro il Batista nel diserto; 
per ch'elli è glorioso e tanto grande 
      quanto per lo Vangelio v'è aperto».
 
 

 
 

 
 
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Canto XXIII

martedì 12 aprile, dopo mezzogiorno cornice VI, uno strano albero dai frutti dolci e profumati, dalla forma di un abete rovesciato; dalla parete della roccia sgorga un'acqua limpida che si spande sulle foglie. Stazio, Forese Donati golosi: orribilmente smagriti, passano sotto alberi carichi di frutta profumata e fresca d'acqua, senza poterla toccare, soffrendo la fame e la sete, mentre in vita si abbandonarono ai piaceri raffinati del bere e del mangiare. 
canto: «Labia mea, Domine». 
- L'ombra di Stazio abbandona il Purgatorio.
Comincia il canto vigesimo terzoo del Purgatoro. Nel quale l'autore mostra purgarsi il vizio della gola; e, trovato Forese Donati, ode da lui certe cose, e, tra l'altre, alcune cose future, contra la disonestà delle donne fiorentine.
      Mentre che li occhi per la fronda verde 
ficcava io sì come far suole 
chi dietro a li uccellin sua vita perde, 
      lo più che padre mi dicea: «Figliuole, 
vienne oramai, ché 'l tempo che n'è imposto 
più utilmente compartir si vuole». 
      Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto, 
appresso i savi, che parlavan sìe, 
che l'andar mi facean di nullo costo. 
      Ed ecco piangere e cantar s'udìe 
'Labia mea, Domine' per modo 
tal, che diletto e doglia parturìe. 
      «O dolce padre, che è quel ch'i' odo?», 
comincia' io; ed elli: «Ombre che vanno 
forse di lor dover solvendo il nodo». 
      Sì come i peregrin pensosi fanno, 
giugnendo per cammin gente non nota, 
che si volgono ad essa e non restanno, 
      così di retro a noi, più tosto mota, 
venendo e trapassando ci ammirava 
d'anime turba tacita e devota. 
      Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, 
palida ne la faccia, e tanto scema, 
che da l'ossa la pelle s'informava. 
      Non credo che così a buccia strema 
Erisittone fosse fatto secco, 
per digiunar, quando più n'ebbe tema. 
      Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco 
la gente che perdé Ierusalemme, 
quando Maria nel figlio diè di becco!' 
      Parean l'occhiaie anella sanza gemme: 
chi nel viso de li uomini legge 'omo' 
ben avria quivi conosciuta l'emme. 
      Chi crederebbe che l'odor d'un pomo 
sì governasse, generando brama, 
e quel d'un'acqua, non sappiendo como? 
      Già era in ammirar che sì li affama, 
per la cagione ancor non manifesta 
di lor magrezza e di lor trista squama, 
      ed ecco del profondo de la testa 
volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso; 
poi gridò forte: «Qual grazia m'è questa?». 
      Mai non l'avrei riconosciuto al viso; 
ma ne la voce sua mi fu palese 
ciò che l'aspetto in sé avea conquiso. 
      Questa favilla tutta mi raccese 
mia conoscenza a la cangiata labbia, 
e ravvisai la faccia di Forese. 
      «Deh, non contendere a l'asciutta scabbia 
che mi scolora», pregava, «la pelle, 
né a difetto di carne ch'io abbia; 
      ma dimmi il ver di te, di' chi son quelle 
due anime che là ti fanno scorta; 
non rimaner che tu non mi favelle!». 
      «La faccia tua, ch'io lagrimai già morta, 
mi dà di pianger mo non minor doglia», 
rispuos'io lui, «veggendola sì torta. 
      Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia; 
non mi far dir mentr'io mi maraviglio, 
ché mal può dir chi è pien d'altra voglia». 
      Ed elli a me: «De l'etterno consiglio 
cade vertù ne l'acqua e ne la pianta 
rimasa dietro ond'io sì m'assottiglio. 
      Tutta esta gente che piangendo canta 
per seguitar la gola oltra misura, 
in fame e 'n sete qui si rifà santa. 
      Di bere e di mangiar n'accende cura 
l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo 
che si distende su per sua verdura. 
      E non pur una volta, questo spazzo 
girando, si rinfresca nostra pena: 
io dico pena, e dovrìa dir sollazzo, 
      ché quella voglia a li alberi ci mena 
che menò Cristo lieto a dire 'Elì', 
quando ne liberò con la sua vena». 
      E io a lui: «Forese, da quel dì 
nel qual mutasti mondo a miglior vita, 
cinq'anni non son vòlti infino a qui. 
      Se prima fu la possa in te finita 
di peccar più, che sovvenisse l'ora 
del buon dolor ch'a Dio ne rimarita, 
      come se' tu qua sù venuto ancora? 
Io ti credea trovar là giù di sotto 
dove tempo per tempo si ristora». 
      Ond'elli a me: «Sì tosto m'ha condotto 
a ber lo dolce assenzo d'i martìri 
la Nella mia con suo pianger dirotto. 
      Con suoi prieghi devoti e con sospiri 
tratto m'ha de la costa ove s'aspetta, 
e liberato m'ha de li altri giri. 
      Tanto è a Dio più cara e più diletta 
la vedovella mia, che molto amai, 
quanto in bene operare è più soletta; 
      ché la Barbagia di Sardigna assai 
ne le femmine sue più è pudica 
che la Barbagia dov'io la lasciai. 
      O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica? 
Tempo futuro m'è già nel cospetto, 
cui non sarà quest'ora molto antica, 
      nel qual sarà in pergamo interdetto 
a le sfacciate donne fiorentine 
l'andar mostrando con le poppe il petto. 
      Quai barbare fuor mai, quai saracine, 
cui bisognasse, per farle ir coperte, 
o spiritali o altre discipline? 
      Ma se le svergognate fosser certe 
di quel che 'l ciel veloce loro ammanna, 
già per urlare avrian le bocche aperte; 
      ché se l'antiveder qui non m'inganna, 
prima fien triste che le guance impeli 
colui che mo si consola con nanna. 
      Deh, frate, or fa che più non mi ti celi! 
vedi che non pur io, ma questa gente 
tutta rimira là dove 'l sol veli». 
      Per ch'io a lui: «Se tu riduci a mente 
qual fosti meco, e qual io teco fui, 
ancor fia grave il memorar presente. 
      Di quella vita mi volse costui 
che mi va innanzi, l'altr'ier, quando tonda 
vi si mostrò la suora di colui», 
      e 'l sol mostrai; «costui per la profonda 
notte menato m'ha d'i veri morti 
con questa vera carne che 'l seconda. 
      Indi m'han tratto sù li suoi conforti, 
salendo e rigirando la montagna 
che drizza voi che 'l mondo fece torti. 
      Tanto dice di farmi sua compagna, 
che io sarò là dove fia Beatrice; 
quivi convien che sanza lui rimagna. 
      Virgilio è questi che così mi dice», 
e addita'lo; «e quest'altro è quell'ombra 
per cui scosse dianzi ogne pendice 
      lo vostro regno, che da sé lo sgombra».
 
 

 
 

 
 
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Canto XXIV

martedì 12 aprile, prime due ore pomeridiane cornice VI Stazio, Forese Donati, Bonagiunta Orbicciani, Martino IV, Ubaldino degli Ubaldini, Bonifazio Fieschi, Marchese degli Argogliosi;  
Angelo dell'astinenza
golosi: orribilmente smagriti, passano sotto alberi carichi di frutta profumata e fresca d'acqua, senza poterla toccare, soffrendo la fame e la sete, mentre in vita si abbandonarono ai piaceri raffinati del bere e del mangiare.
Comincia il canto vigesimoquarto del Purgatoro. Nel quale l'autore, continuando il suo ragionar con Forese, ode nominare più altri spiriti che quivi erano, tra' quali Bonagiunta Orbicciani gli predice lui doversi innamorare in Lucca, e similmente Forese il disfacimento d'alcun fiorentino. Poi truova un altro albero, e ode cose in vitupèro della gola, e da un agnolo sono inviati al girone superiore.
      Né 'l dir l'andar, né l'andar lui più lento 
facea, ma ragionando andavam forte, 
sì come nave pinta da buon vento; 
      e l'ombre, che parean cose rimorte, 
per le fosse de li occhi ammirazione 
traean di me, di mio vivere accorte. 
      E io, continuando al mio sermone, 
dissi: «Ella sen va sù forse più tarda 
che non farebbe, per altrui cagione. 
      Ma dimmi, se tu sai, dov'è Piccarda; 
dimmi s'io veggio da notar persona 
tra questa gente che sì mi riguarda». 
      «La mia sorella, che tra bella e buona 
non so qual fosse più, triunfa lieta 
ne l'alto Olimpo già di sua corona». 
      Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta 
di nominar ciascun, da ch'è sì munta 
nostra sembianza via per la dieta. 
      Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta, 
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia 
di là da lui più che l'altre trapunta 
      ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: 
dal Torso fu, e purga per digiuno 
l'anguille di Bolsena e la vernaccia». 
      Molti altri mi nomò ad uno ad uno; 
e del nomar parean tutti contenti, 
sì ch'io però non vidi un atto bruno. 
      Vidi per fame a vòto usar li denti 
Ubaldin da la Pila e Bonifazio 
che pasturò col rocco molte genti. 
      Vidi messer Marchese, ch'ebbe spazio 
già di bere a Forlì con men secchezza, 
e sì fu tal, che non si sentì sazio. 
      Ma come fa chi guarda e poi s'apprezza 
più d'un che d'altro, fei a quel da Lucca, 
che più parea di me aver contezza. 
      El mormorava; e non so che «Gentucca» 
sentiv'io là, ov'el sentia la piaga 
de la giustizia che sì li pilucca. 
      «O anima», diss'io, «che par sì vaga 
di parlar meco, fa sì ch'io t'intenda, 
e te e me col tuo parlare appaga». 
      «Femmina è nata, e non porta ancor benda», 
cominciò el, «che ti farà piacere 
la mia città, come ch'om la riprenda. 
      Tu te n'andrai con questo antivedere: 
se nel mio mormorar prendesti errore, 
dichiareranti ancor le cose vere. 
      Ma dì s'i' veggio qui colui che fore 
trasse le nove rime, cominciando 
'Donne ch'avete intelletto d'amore'». 
      E io a lui: «I' mi son un che, quando 
Amor mi spira, noto, e a quel modo 
ch'e' ditta dentro vo significando». 
      «O frate, issa vegg'io», diss'elli, «il nodo 
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne 
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo! 
      Io veggio ben come le vostre penne 
di retro al dittator sen vanno strette, 
che de le nostre certo non avvenne; 
      e qual più a gradire oltre si mette, 
non vede più da l'uno a l'altro stilo»; 
e, quasi contentato, si tacette. 
      Come li augei che vernan lungo 'l Nilo, 
alcuna volta in aere fanno schiera, 
poi volan più a fretta e vanno in filo, 
      così tutta la gente che lì era, 
volgendo 'l viso, raffrettò suo passo, 
e per magrezza e per voler leggera. 
      E come l'uom che di trottare è lasso, 
lascia andar li compagni, e sì passeggia 
fin che si sfoghi l'affollar del casso, 
      sì lasciò trapassar la santa greggia 
Forese, e dietro meco sen veniva, 
dicendo: «Quando fia ch'io ti riveggia?». 
      «Non so», rispuos'io lui, «quant'io mi viva; 
ma già non fia il tornar mio tantosto, 
ch'io non sia col voler prima a la riva; 
      però che 'l loco u' fui a viver posto, 
di giorno in giorno più di ben si spolpa, 
e a trista ruina par disposto». 
      «Or va», diss'el; «che quei che più n'ha colpa,
vegg'io a coda d'una bestia tratto 
inver' la valle ove mai non si scolpa. 
      La bestia ad ogne passo va più ratto, 
crescendo sempre, fin ch'ella il percuote, 
e lascia il corpo vilmente disfatto. 
      Non hanno molto a volger quelle ruote», 
e drizzò li ochi al ciel, «che ti fia chiaro 
ciò che 'l mio dir più dichiarar non puote. 
      Tu ti rimani omai; ché 'l tempo è caro 
in questo regno, sì ch'io perdo troppo 
venendo teco sì a paro a paro». 
      Qual esce alcuna volta di gualoppo 
lo cavalier di schiera che cavalchi, 
e va per farsi onor del primo intoppo, 
      tal si partì da noi con maggior valchi; 
e io rimasi in via con esso i due 
che fuor del mondo sì gran marescalchi. 
      E quando innanzi a noi intrato fue, 
che li occhi miei si fero a lui seguaci, 
come la mente a le parole sue, 
      parvermi i rami gravidi e vivaci 
d'un altro pomo, e non molto lontani 
per esser pur allora vòlto in laci. 
      Vidi gente sott'esso alzar le mani 
e gridar non so che verso le fronde, 
quasi bramosi fantolini e vani, 
      che pregano, e 'l pregato non risponde, 
ma, per fare esser ben la voglia acuta, 
tien alto lor disio e nol nasconde. 
      Poi si partì sì come ricreduta; 
e noi venimmo al grande arbore adesso, 
che tanti prieghi e lagrime rifiuta. 
      «Trapassate oltre sanza farvi presso: 
legno è più sù che fu morso da Eva, 
e questa pianta si levò da esso». 
      Sì tra le frasche non so chi diceva; 
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, 
oltre andavam dal lato che si leva. 
      «Ricordivi», dicea, «d'i maladetti 
nei nuvoli formati, che, satolli, 
Teseo combatter co' doppi petti; 
      e de li Ebrei ch'al ber si mostrar molli, 
per che no i volle Gedeon compagni, 
quando inver' Madian discese i colli». 
      Sì accostati a l'un d'i due vivagni 
passammo, udendo colpe de la gola 
seguite già da miseri guadagni. 
      Poi, rallargati per la strada sola, 
ben mille passi e più ci portar oltre, 
contemplando ciascun sanza parola. 
      «Che andate pensando sì voi sol tre?». 
sùbita voce disse; ond'io mi scossi 
come fan bestie spaventate e poltre. 
      Drizzai la testa per veder chi fossi; 
e già mai non si videro in fornace 
vetri o metalli sì lucenti e rossi, 
      com'io vidi un che dicea: «S'a voi piace 
montare in sù, qui si convien dar volta; 
quinci si va chi vuole andar per pace». 
      L'aspetto suo m'avea la vista tolta; 
per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori, 
com'om che va secondo ch'elli ascolta. 
      E quale, annunziatrice de li albori, 
l'aura di maggio movesi e olezza, 
tutta impregnata da l'erba e da' fiori; 
      tal mi senti' un vento dar per mezza 
la fronte, e ben senti' mover la piuma, 
che fé sentir d'ambrosia l'orezza. 
      E senti' dir: «Beati cui alluma 
tanto di grazia, che l'amor del gusto 
nel petto lor troppo disir non fuma, 
      esuriendo sempre quanto è giusto!». 
 
 

 
 

 
 
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998