Dante Alighieri

LA DIVINA COMMEDIA

PURGATORIO

Canto XIX

martedì 12 aprile, all'alba cornice IV 
una scala porta alla cornice V
Adriano V (parla anche della nipote Alagia) Poco prima dell'alba appare in sogno a Dante una femmina balbuziente, guercia, pallida e deforme che si trasforma in una bellissima donna senza difetti. 
accidiosi: devono correre frettolosamente per la cornice, gridando esempi di sollecitudine e di accidia punita. 
L'Angelo cancella la quarta P
Avari e prodighi: giacciono bocconi con il viso rivolto a terra, con mani e piedi legati e piangono ripetendo un versetto del Salmo 118 e gridando del loro vizio e della virtù premiata.
Comincia il canto decimonono del Purgatoro. Nel quale l'autore discrive una vision d'una femina contrafatta, veduta da lui; e appresso come perviene nel quinto girone, ove si purga il peccato dell'avarizia; e quivi truova peccatori a giacere vòlti in giù e legati, e parla con un papa di que' dal Fiesco.
      Ne l'ora che non può 'l calor diurno 
intepidar più 'l freddo de la luna, 
vinto da terra, e talor da Saturno 
      - quando i geomanti lor Maggior Fortuna 
veggiono in or‹ente, innanzi a l'alba, 
surger per via che poco le sta bruna -, 
      mi venne in sogno una femmina balba, 
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, 
con le man monche, e di colore scialba. 
      Io la mirava; e come 'l sol conforta 
le fredde membra che la notte aggrava, 
così lo sguardo mio le facea scorta 
      la lingua, e poscia tutta la drizzava 
in poco d'ora, e lo smarrito volto, 
com' amor vuol, così le colorava. 
      Poi ch'ell' avea 'l parlar così disciolto, 
cominciava a cantar sì, che con pena 
da lei avrei mio intento rivolto. 
      «Io son», cantava, «io son dolce serena, 
che' marinari in mezzo mar dismago; 
tanto son di piacere a sentir piena! 
      Io volsi Ulisse del suo cammin vago 
al canto mio; e qual meco s'ausa, 
rado sen parte; sì tutto l'appago!». 
      Ancor non era sua bocca richiusa, 
quand' una donna apparve santa e presta 
lunghesso me per far colei confusa. 
      «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?», 
fieramente dicea; ed el venìa 
con li occhi fitti pur in quella onesta. 
      L'altra prendea, e dinanzi l'apria 
fendendo i drappi, e mostravami 'l ventre; 
quel mi svegliò col puzzo che n'uscia. 
      Io mossi li occhi, e 'l buon maestro: «Almen tre
voci t'ho messe!», dicea, «Surgi e vieni; 
troviam l'aperta per la qual tu entre». 
      Sù mi levai, e tutti eran già pieni 
de l'alto dì i giron del sacro monte, 
e andavam col sol novo a le reni. 
      Seguendo lui, portava la mia fronte 
come colui che l'ha di pensier carca, 
che fa di sé un mezzo arco di ponte; 
      quand' io udi' «Venite; qui si varca» 
parlare in modo soave e benigno, 
qual non si sente in questa mortal marca. 
      Con l'ali aperte, che parean di cigno, 
volseci in sù colui che sì parlonne 
tra due pareti del duro macigno. 
      Mosse le penne poi e ventilonne, 
'Qui lugent' affermando esser beati, 
ch'avran di consolar l'anime donne. 
      «Che hai che pur inver' la terra guati?», 
la guida mia incominciò a dirmi, 
poco amendue da l'angel sormontati. 
      E io: «Con tanta sospeccion fa irmi 
novella vis‹on ch'a sé mi piega, 
sì ch'io non posso dal pensar partirmi». 
      «Vedesti», disse, «quell'antica strega 
che sola sovr' a noi omai si piagne; 
vedesti come l'uom da lei si slega. 
      Bastiti, e batti a terra le calcagne; 
li occhi rivolgi al logoro che gira 
lo rege etterno con le rote magne». 
      Quale 'l falcon, che prima a' pié si mira, 
indi si volge al grido e si protende 
per lo disio del pasto che là il tira, 
      tal mi fec' io; e tal, quanto si fende 
la roccia per dar via a chi va suso, 
n'andai infin dove 'l cerchiar si prende. 
      Com'io nel quinto giro fui dischiuso, 
vidi gente per esso che piangea, 
giacendo a terra tutta volta in giuso. 
      'Adhaesit pavimento anima mea
sentia dir lor con sì alti sospiri, 
che la parola a pena s'intendea. 
      «O eletti di Dio, li cui soffriri 
e giustizia e speranza fa men duri, 
drizzate noi verso li alti saliri». 
      «Se voi venite dal giacer sicuri, 
e volete trovar la via più tosto, 
le vostre destre sien sempre di fori». 
      Così pregò 'l poeta, e sì risposto 
poco dinanzi a noi ne fu; per ch'io 
nel parlare avvisai l'altro nascosto, 
      e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: 
ond' elli m'assentì con lieto cenno 
ciò che chiedea la vista del disio. 
      Poi ch'io potei di me fare a mio senno, 
trassimi sovra quella creatura 
le cui parole pria notar mi fenno, 
      dicendo: «Spirto in cui pianger matura 
quel sanza 'l quale a Dio tornar non pòssi, 
sosta un poco per me tua maggior cura. 
      Chi fosti e perché vòlti avete i dossi 
al sù, mi dì, e se vuo' ch'io t'impetri 
cosa di là ond' io vivendo mossi». 
      Ed elli a me: «Perché i nostri diretri 
rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima 
scias quod ego fui successor Petri
      Intra Sestri e Chiaveri s'adima 
una fiumana bella, e del suo nome 
lo titol del mio sangue fa sua cima. 
      Un mese è poco più prova' io come 
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda, 
che piuma sembran tutte l'altre some. 
      La mia convers‹one, omè!, fu tarda; 
ma, come fatto fui roman pastore, 
così scopersi la vita bugiarda. 
      Vidi che lì non s'acquetava il core, 
né più salir potiesi in quella vita; 
er che di questa in me s'accese amore. 
      Fino a quel punto misera e partita 
da Dio anima fui, del tutto avara; 
or, come vedi, qui ne son punita. 
      Quel ch'avarizia fa, qui si dichiara 
in purgazion de l'anime converse; 
e nulla pena il monte ha più amara. 
      Sì come l'occhio nostro non s'aderse 
in alto, fisso a le cose terrene, 
così giustizia qui a terra il merse. 
      Come avarizia spense a ciascun bene 
lo nostro amore, onde operar perdési, 
così giustizia qui stretti ne tene, 
      ne' piedi e ne le man legati e presi; 
e quanto fia piacer del giusto Sire, 
tanto staremo immobili e distesi». 
      Io m'era inginocchiato e volea dire; 
ma com' io cominciai ed el s'accorse, 
solo ascoltando, del mio reverire, 
      «Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?». 
E io a lui: «Per vostra dignitate 
mia cosc‹enza dritto mi rimorse». 
      «Drizza le gambe, lèvati sù, frate!», 
rispuose; «non errar: conservo sono 
teco e con li altri ad una podestate. 
      Se mai quel santo evangelico suono 
che dice 'Neque nubent' intendesti, 
ben puoi veder perch'io così ragiono. 
      Vattene omai: non vo' che più t'arresti; 
ché la tua stanza mio pianger disagia, 
col qual maturo ciò che tu dicesti. 
      Nepote ho io di là c'ha nome Alagia, 
buona da sé, pur che la nostra casa 
non faccia lei per essempro malvagia; 
      e questa sola di là m'è rimasa».
 
 

 
 

 
 
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Canto XX

martedì 12 aprile, prime ore del mattino cornice V Ugo Capeto Avari e prodighi: giacciono bocconi con il viso rivolto a terra, con mani e piedi legati e piangono ripetendo un versetto del Salmo 118 e gridando del loro vizio e della virtù premiata. 
canto: Gloria in excelsis Deo
Trema la montagna del Purgatorio.
Comincia il canto vigesimo del Purgatoro. Nel quale l'autore mostra d'aver parlato tra gli avari con Ugo Ciappetta, il quale gli dice come di lui son discesi li presenti reali di Francia e, oltre a ciò, alcune vituperevoli opere fatte e che far debbono, e, oltre a ciò, gli mostra come il dì cantano laudevoli cose della povertà, e la notte vituperevoli dell'avarizia; e ultimamente come sentì tutto tremare il monte.
      Contra miglior voler voler mal pugna; 
onde contra 'l piacer mio, per piacerli, 
trassi de l'acqua non sazia la spugna. 
      Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li 
luoghi spediti pur lungo la roccia, 
come si va per muro stretto a' merli; 
      ché la gente che fonde a goccia a goccia 
per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa, 
da l'altra parte in fuor troppo s'approccia. 
      Maladetta sie tu, antica lupa, 
che più che tutte l'altre bestie hai preda 
per la tua fame sanza fine cupa! 
      O ciel, nel cui girar par che si creda 
le condizion di qua giù trasmutarsi, 
quando verrà per cui questa disceda? 
      Noi andavam con passi lenti e scarsi, 
e io attento a l'ombre, ch'i' sentia 
pietosamente piangere e lagnarsi; 
      e per ventura udi' «Dolce Maria!» 
dinanzi a noi chiamar così nel pianto 
come fa donna che in parturir sia; 
      e seguitar: «Povera fosti tanto, 
quanto veder si può per quello ospizio 
dove sponesti il tuo portato santo». 
      Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio, 
con povertà volesti anzi virtute 
che gran ricchezza posseder con vizio». 
      Queste parole m'eran sì piaciute, 
ch'io mi trassi oltre per aver contezza 
di quello spirto onde parean venute. 
      Esso parlava ancor de la larghezza 
che fece Niccolò a le pulcelle, 
per condurre ad onor lor giovinezza. 
      «O anima che tanto ben favelle, 
dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola 
tu queste degne lode rinovelle. 
      Non fia sanza mercé la tua parola, 
s'io ritorno a compiér lo cammin corto 
di quella vita ch'al termine vola». 
      Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto 
ch'io attenda di là, ma perché tanta 
grazia in te luce prima che sie morto. 
      Io fui radice de la mala pianta 
che la terra cristiana tutta aduggia, 
sì che buon frutto rado se ne schianta. 
      Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia 
potesser, tosto ne saria vendetta; 
e io la cheggio a lui che tutto giuggia. 
      Chiamato fui di là Ugo Ciappetta; 
di me son nati i Filippi e i Luigi 
per cui novellamente è Francia retta. 
      Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi: 
quando li regi antichi venner meno 
tutti, fuor ch'un renduto in panni bigi, 
      trova'mi stretto ne le mani il freno 
del governo del regno, e tanta possa 
di nuovo acquisto, e sì d'amici pieno, 
      ch'a la corona vedova promossa 
la testa di mio figlio fu, dal quale 
cominciar di costor le sacrate ossa. 
      Mentre che la gran dota provenzale 
al sangue mio non tolse la vergogna, 
poco valea, ma pur non facea male. 
      Lì cominciò con forza e con menzogna 
la sua rapina; e poscia, per ammenda, 
Pontì e Normandia prese e Guascogna. 
      Carlo venne in Italia e, per ammenda, 
vittima fé di Curradino; e poi 
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda. 
      Tempo vegg'io, non molto dopo ancoi, 
che tragge un altro Carlo fuor di Francia, 
per far conoscer meglio e sé e ' suoi. 
      Sanz'arme n'esce e solo con la lancia 
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta 
sì ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia. 
      Quindi non terra, ma peccato e onta 
guadagnerà, per sé tanto più grave, 
quanto più lieve simil danno conta. 
      L'altro, che già uscì preso di nave, 
veggio vender sua figlia e patteggiarne 
come fanno i corsar de l'altre schiave. 
      O avarizia, che puoi tu più farne, 
poscia c'ha' il mio sangue a te sì tratto, 
che non si cura de la propria carne? 
      Perché men paia il mal futuro e 'l fatto, 
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, 
e nel vicario suo Cristo esser catto. 
      Veggiolo un'altra volta esser deriso; 
veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele, 
e tra vivi ladroni esser anciso. 
      Veggio il novo Pilato sì crudele, 
che ciò nol sazia, ma sanza decreto 
portar nel Tempio le cupide vele. 
      O Segnor mio, quando sarò io lieto 
a veder la vendetta che, nascosa, 
fa dolce l'ira tua nel tuo secreto? 
      Ciò ch'io dicea di quell'unica sposa 
de lo Spirito Santo e che ti fece 
verso me volger per alcuna chiosa, 
      tanto è risposto a tutte nostre prece 
quanto 'l dì dura; ma com'el s'annotta, 
contrario suon prendemo in quella vece. 
      Noi repetiam Pigmalion allotta, 
cui traditore e ladro e paricida 
fece la voglia sua de l'oro ghiotta; 
      e la miseria de l'avaro Mida, 
che seguì a la sua dimanda gorda, 
per la qual sempre convien che si rida. 
      Del folle Acàn ciascun poi si ricorda, 
come furò le spoglie, sì che l'ira 
di Iosuè qui par ch'ancor lo morda. 
      Indi accusiam col marito Saffira; 
lodiam i calci ch'ebbe Eliodoro; 
e in infamia tutto 'l monte gira 
      Polinestòr ch'ancise Polidoro; 
ultimamente ci si grida: "Crasso, 
dilci, che 'l sai: di che sapore è l'oro?". 
      Talor parla l'uno alto e l'altro basso, 
secondo l'affezion ch'ad ir ci sprona 
ora a maggiore e ora a minor passo: 
      però al ben che 'l dì ci si ragiona, 
dianzi non era io sol; ma qui da presso 
non alzava la voce altra persona». 
      Noi eravam partiti già da esso, 
e brigavam di soverchiar la strada 
tanto quanto al poder n'era permesso, 
      quand'io senti', come cosa che cada, 
tremar lo monte; onde mi prese un gelo 
qual prender suol colui ch'a morte vada. 
      Certo non si scoteo sì forte Delo, 
pria che Latona in lei facesse 'l nido 
a parturir li due occhi del cielo. 
      Poi cominciò da tutte parti un grido 
tal, che 'l maestro inverso me si feo, 
dicendo: «Non dubbiar, mentr'io ti guido». 
      'Gloria in excelsis' tutti 'Deo
dicean, per quel ch'io da' vicin compresi, 
onde intender lo grido si poteo. 
      No' istavamo immobili e sospesi 
come i pastor che prima udir quel canto, 
fin che 'l tremar cessò ed el compiési. 
      Poi ripigliammo nostro cammin santo, 
guardando l'ombre che giacean per terra, 
tornate già in su l'usato pianto. 
      Nulla ignoranza mai con tanta guerra 
mi fé desideroso di sapere, 
se la memoria mia in ciò non erra, 
      quanta pareami allor, pensando, avere; 
né per la fretta dimandare er'oso, 
né per me lì potea cosa vedere: 
      così m'andava timido e pensoso.
 
 

 
 

 
 
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Canto XXI

martedì 12 aprile, mattina cornice V Stazio Avari e prodighi: giacciono bocconi con il viso rivolto a terra, con mani e piedi legati e piangono ripetendo un versetto del Salmo 118 e gridando del loro vizio e della virtù premiata. 
Dubbio di Dante sul terremoto che ha fatto tremare la montagna del Purgatorio
Comincia il canto vigesimoprimo del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra come Stazio, apparito tra loro, dice la cagion del tremar del monte, e poi se medesimo manifesta, e conosce Virgilio.
      La sete natural che mai non sazia 
se non con l'acqua onde la femminetta 
samaritana domandò la grazia, 
      mi travagliava, e pungeami la fretta 
per la 'mpacciata via dietro al mio duca, 
e condoleami a la giusta vendetta. 
      Ed ecco, sì come ne scrive Luca 
che Cristo apparve a' due ch'erano in via, 
già surto fuor de la sepulcral buca, 
      ci apparve un'ombra, e dietro a noi venìa, 
dal piè guardando la turba che giace; 
né ci addemmo di lei, sì parlò pria, 
      dicendo; «O frati miei, Dio vi dea pace». 
Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio 
rendéli 'l cenno ch'a ciò si conface. 
      Poi cominciò: «Nel beato concilio 
ti ponga in pace la verace corte 
che me rilega ne l'etterno essilio». 
      «Come!», diss'elli, e parte andavam forte: 
«se voi siete ombre che Dio sù non degni, 
chi v'ha per la sua scala tanto scorte?». 
      E 'l dottor mio: «Se tu riguardi a' segni 
che questi porta e che l'angel profila, 
ben vedrai che coi buon convien ch'e' regni. 
      Ma perché lei che dì e notte fila 
non li avea tratta ancora la conocchia 
che Cloto impone a ciascuno e compila, 
      l'anima sua, ch'è tua e mia serocchia, 
venendo sù, non potea venir sola, 
però ch'al nostro modo non adocchia. 
      Ond'io fui tratto fuor de l'ampia gola 
d'inferno per mostrarli, e mosterrolli 
oltre, quanto 'l potrà menar mia scola. 
      Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli 
diè dianzi 'l monte, e perché tutto ad una 
parve gridare infino a' suoi piè molli». 
      Sì mi diè, dimandando, per la cruna 
del mio disio, che pur con la speranza 
si fece la mia sete men digiuna. 
      Quei cominciò: «Cosa non è che sanza 
ordine senta la religione 
de la montagna, o che sia fuor d'usanza. 
      Libero è qui da ogne alterazione: 
di quel che 'l ciel da sé in sé riceve 
esser ci puote, e non d'altro, cagione. 
      Per che non pioggia, non grando, non neve, 
non rugiada, non brina più sù cade 
che la scaletta di tre gradi breve; 
      nuvole spesse non paion né rade, 
né coruscar, né figlia di Taumante, 
che di là cangia sovente contrade; 
      secco vapor non surge più avante 
ch'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai, 
dov'ha 'l vicario di Pietro le piante. 
      Trema forse più giù poco o assai; 
ma per vento che 'n terra si nasconda, 
non so come, qua sù non tremò mai. 
      Tremaci quando alcuna anima monda 
sentesi, sì che surga o che si mova 
per salir sù; e tal grido seconda. 
      De la mondizia sol voler fa prova, 
che, tutto libero a mutar convento, 
l'alma sorprende, e di voler le giova. 
      Prima vuol ben, ma non lascia il talento 
che divina giustizia, contra voglia, 
come fu al peccar, pone al tormento. 
      E io, che son giaciuto a questa doglia 
cinquecent'anni e più, pur mo sentii 
libera volontà di miglior soglia: 
      però sentisti il tremoto e li pii 
spiriti per lo monte render lode 
a quel Segnor, che tosto sù li 'nvii». 
      Così ne disse; e però ch'el si gode 
tanto del ber quant'è grande la sete. 
non saprei dir quant'el mi fece prode. 
      E 'l savio duca: «Omai veggio la rete 
che qui v'impiglia e come si scalappia, 
perché ci trema e di che congaudete. 
      Ora chi fosti, piacciati ch'io sappia, 
e perché tanti secoli giaciuto 
qui se', ne le parole tue mi cappia». 
      «Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto 
del sommo rege, vendicò le fóra 
ond'uscì 'l sangue per Giuda venduto, 
      col nome che più dura e più onora 
era io di là», rispuose quello spirto, 
«famoso assai, ma non con fede ancora. 
      Tanto fu dolce mio vocale spirto, 
che, tolosano, a sé mi trasse Roma, 
dove mertai le tempie ornar di mirto. 
      Stazio la gente ancor di là mi noma: 
cantai di Tebe, e poi del grande Achille; 
ma caddi in via con la seconda soma. 
      Al mio ardor fuor seme le faville, 
che mi scaldar, de la divina fiamma 
onde sono allumati più di mille; 
      de l'Eneida dico, la qual mamma 
fummi e fummi nutrice poetando: 
sanz'essa non fermai peso di dramma. 
      E per esser vivuto di là quando 
visse Virgilio, assentirei un sole 
più che non deggio al mio uscir di bando». 
      Volser Virgilio a me queste parole 
con viso che, tacendo, disse 'Taci'; 
ma non può tutto la virtù che vuole; 
      ché riso e pianto son tanto seguaci 
a la passion di che ciascun si spicca, 
che men seguon voler ne' più veraci. 
      Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca; 
per che l'ombra si tacque, e riguardommi 
ne li occhi ove 'l sembiante più si ficca; 
      e «Se tanto labore in bene assommi», 
disse, «perché la tua faccia testeso 
un lampeggiar di riso dimostrommi?». 
      Or son io d'una parte e d'altra preso: 
l'una mi fa tacer, l'altra scongiura 
ch'io dica; ond'io sospiro, e sono inteso 
      dal mio maestro, e «Non aver paura», 
mi dice, «di parlar; ma parla e digli 
quel ch'e' dimanda con cotanta cura». 
      Ond'io: «Forse che tu ti maravigli, 
antico spirto, del rider ch'io fei; 
ma più d'ammirazion vo' che ti pigli. 
      Questi che guida in alto li occhi miei, 
è quel Virgilio dal qual tu togliesti 
forza a cantar de li uomini e d'i dèi. 
      Se cagion altra al mio rider credesti, 
lasciala per non vera, ed esser credi 
quelle parole che di lui dicesti». 
      Già s'inchinava ad abbracciar li piedi 
al mio dottor, ma el li disse: «Frate, 
non far, ché tu se' ombra e ombra vedi». 
      Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate 
comprender de l'amor ch'a te mi scalda, 
quand'io dismento nostra vanitate, 
      trattando l'ombre come cosa salda».
 
 

 
 

 
 
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998