Dante Alighieri

LA DIVINA COMMEDIA

PARADISO

Canto VII

mercoledì 13 aprile Cielo II: Mercurio 
Intelligenze motrici: Arcangeli
Beatrice, Dante Spiriti attivi: splendori che si muovono come pesci in peschiera; cantano e danzano manifestando la loro gioia con aumento di fulgore. 
Giustiniano svanisce cantando l'Osanna, Deus sabaòth.
Comincia il canto settimo del Paradiso. Nel quale Beatrice chiarisce all'autore come giusta vendetta fosse giustamente vengiata; e appresso perché a Dio, a rilevare l'umana generazione dalla colpa del primo padre, piacque più di dare se medesimo che altro modo; e ultimamente perché gli elementi sieno corruttibili.
       «Osanna, sanctus Deus sabaòth, 
superillustrans claritate tua 
felices ignes horum malacòth
!». 
       Così, volgendosi a la nota sua, 
fu viso a me cantare essa sustanza, 
sopra la qual doppio lume s'addua: 
       ed essa e l'altre mossero a sua danza, 
e quasi velocissime faville, 
mi si velar di sùbita distanza. 
       Io dubitava e dicea 'Dille, dille!' 
fra me, 'dille', dicea, 'a la mia donna 
che mi diseta con le dolci stille'. 
       Ma quella reverenza che s'indonna 
di tutto me, pur per Be e per ice
mi richinava come l'uom ch'assonna. 
       Poco sofferse me cotal Beatrice 
e cominciò, raggiandomi d'un riso 
tal, che nel foco faria l'uom felice: 
       «Secondo mio infallibile avviso, 
come giusta vendetta giustamente 
punita fosse, t'ha in pensier miso; 
       ma io ti solverò tosto la mente; 
e tu ascolta, ché le mie parole 
di gran sentenza ti faran presente. 
       Per non soffrire a la virtù che vole 
freno a suo prode, quell'uom che non nacque,
dannando sé, dannò tutta sua prole; 
       onde l'umana specie inferma giacque 
giù per secoli molti in grande errore, 
fin ch'al Verbo di Dio discender piacque 
       u' la natura, che dal suo fattore 
s'era allungata, unì a sé in persona 
con l'atto sol del suo etterno amore. 
       Or drizza il viso a quel ch'or si ragiona: 
questa natura al suo fattore unita, 
qual fu creata, fu sincera e buona; 
       ma per sé stessa pur fu ella sbandita 
di paradiso, però che si torse 
da via di verità e da sua vita. 
       La pena dunque che la croce porse 
s'a la natura assunta si misura, 
nulla già mai sì giustamente morse; 
       e così nulla fu di tanta ingiura, 
guardando a la persona che sofferse, 
in che era contratta tal natura. 
       Però d'un atto uscir cose diverse: 
ch'a Dio e a' Giudei piacque una morte; 
per lei tremò la terra e 'l ciel s'aperse. 
       Non ti dee oramai parer più forte, 
quando si dice che giusta vendetta 
poscia vengiata fu da giusta corte. 
       Ma io veggi' or la tua mente ristretta 
di pensiero in pensier dentro ad un nodo, 
del qual con gran disio solver s'aspetta. 
       Tu dici: "Ben discerno ciò ch'i' odo; 
ma perché Dio volesse, m'è occulto, 
a nostra redenzion pur questo modo". 
       Questo decreto, frate, sta sepulto 
a li occhi di ciascuno il cui ingegno 
ne la fiamma d'amor non è adulto. 
       Veramente, però ch'a questo segno 
molto si mira e poco si discerne, 
dirò perché tal modo fu più degno. 
       La divina bontà, che da sé sperne 
ogne livore, ardendo in sé, sfavilla 
sì che dispiega le bellezze etterne. 
       Ciò che da lei sanza mezzo distilla 
non ha poi fine, perché non si move 
la sua imprenta quand'ella sigilla. 
       Ciò che da essa sanza mezzo piove 
libero è tutto, perché non soggiace 
a la virtute de le cose nove. 
       Più l'è conforme, e però più le piace; 
ché l'ardor santo ch'ogne cosa raggia, 
ne la più somigliante è più vivace. 
       Di tutte queste dote s'avvantaggia 
l'umana creatura; e s'una manca, 
di sua nobilità convien che caggia. 
       Solo il peccato è quel che la disfranca 
e falla dissìmile al sommo bene, 
per che del lume suo poco s'imbianca; 
       e in sua dignità mai non rivene, 
se non riempie, dove colpa vòta, 
contra mal dilettar con giuste pene. 
       Vostra natura, quando peccò tota 
nel seme suo, da queste dignitadi, 
come di paradiso, fu remota; 
       né ricovrar potiensi, se tu badi 
ben sottilmente, per alcuna via, 
sanza passar per un di questi guadi: 
       o che Dio solo per sua cortesia 
dimesso avesse, o che l'uom per sé isso 
avesse sodisfatto a sua follia. 
       Ficca mo l'occhio per entro l'abisso 
de l'etterno consiglio, quanto puoi 
al mio parlar distrettamente fisso. 
       Non potea l'uomo ne' termini suoi 
mai sodisfar, per non potere ir giuso 
con umiltate obediendo poi, 
       quanto disobediendo intese ir suso; 
e questa è la cagion per che l'uom fue 
da poter sodisfar per sé dischiuso. 
       Dunque a Dio convenia con le vie sue 
riparar l'omo a sua intera vita, 
dico con l'una, o ver con amendue. 
       Ma perché l'ovra tanto è più gradita 
da l'operante, quanto più appresenta 
de la bontà del core ond'ell'è uscita, 
       la divina bontà che 'l mondo imprenta, 
di proceder per tutte le sue vie, 
a rilevarvi suso, fu contenta. 
       Né tra l'ultima notte e 'l primo die 
sì alto o sì magnifico processo, 
o per l'una o per l'altra, fu o fie: 
       ché più largo fu Dio a dar sé stesso 
per far l'uom sufficiente a rilevarsi, 
che s'elli avesse sol da sé dimesso; 
       e tutti li altri modi erano scarsi 
a la giustizia, se 'l Figliuol di Dio 
non fosse umiliato ad incarnarsi. 
       Or per empierti bene ogni disio, 
ritorno a dichiararti in alcun loco, 
perché tu veggi lì così com'io. 
       Tu dici: "Io veggio l'acqua, io veggio il foco, 
l'aere e la terra e tutte lor misture 
venire a corruzione, e durar poco; 
       e queste cose pur furon creature; 
per che, se ciò ch'è detto è stato vero, 
esser dovrien da corruzion sicure". 
       Li angeli, frate, e 'l paese sincero 
nel qual tu se', dir si posson creati, 
sì come sono, in loro essere intero; 
       ma li elementi che tu hai nomati 
e quelle cose che di lor si fanno 
da creata virtù sono informati. 
       Creata fu la materia ch'elli hanno; 
creata fu la virtù informante 
in queste stelle che 'ntorno a lor vanno. 
       L'anima d'ogne bruto e de le piante 
di complession potenziata tira 
lo raggio e 'l moto de le luci sante; 
       ma vostra vita sanza mezzo spira 
la somma beninanza, e la innamora 
di sé sì che poi sempre la disira. 
       E quinci puoi argomentare ancora 
vostra resurrezion, se tu ripensi 
come l'umana carne fessi allora 
       che li primi parenti intrambo fensi».
 
 

 
 

 
 
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Canto VIII

mercoledì 13 aprile Cielo III: Venere 
Intelligenze motrici: Principati
Carlo Martello Spiriti amanti: lumi che si muovono danzando e cantando Osanna con grandissima velocità, maggiore o minore a seconda di lor viste interne.
Comincia il canto ottavo del Paradiso. Nel quale l'autor mostra come salisser nel terzo cielo; e quivi parla con Carlo Martello, il quale gli dichiara come di dolce seme possa nascere amaro frutto.
       Solea creder lo mondo in suo periclo 
che la bella Ciprigna il folle amore 
raggiasse, volta nel terzo epiciclo; 
       per che non pur a lei faceano onore 
di sacrificio e di votivo grido 
le genti antiche ne l'antico errore; 
       ma Dione onoravano e Cupido, 
quella per madre sua, questo per figlio, 
e dicean ch'el sedette in grembo a Dido; 
       e da costei ond'io principio piglio 
pigliavano il vocabol de la stella 
che 'l sol vagheggia or da coppa or da ciglio. 
       Io non m'accorsi del salire in ella; 
ma d'esservi entro mi fé assai fede 
la donna mia ch'i' vidi far più bella. 
       E come in fiamma favilla si vede, 
e come in voce voce si discerne, 
quand'una è ferma e altra va e riede, 
       vid'io in essa luce altre lucerne 
muoversi in giro più e men correnti, 
al modo, credo, di lor viste interne. 
       Di fredda nube non disceser venti, 
o visibili o no, tanto festini, 
che non paressero impediti e lenti 
       a chi avesse quei lumi divini 
veduti a noi venir, lasciando il giro 
pria cominciato in li alti Serafini; 
       e dentro a quei che più innanzi appariro 
sonava 'Osanna' sì, che unque poi 
di riudir non fui sanza disiro. 
       Indi si fece l'un più presso a noi 
e solo incominciò: «Tutti sem presti 
al tuo piacer, perché di noi ti gioi. 
       Noi ci volgiam coi principi celesti 
d'un giro e d'un girare e d'una sete, 
ai quali tu del mondo già dicesti: 
       'Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete'; 
e sem sì pien d'amor, che, per piacerti, 
non fia men dolce un poco di quiete». 
       Poscia che li occhi miei si fuoro offerti 
a la mia donna reverenti, ed essa 
fatti li avea di sé contenti e certi, 
       rivolsersi a la luce che promessa 
tanto s'avea, e «Deh, chi siete?» fue 
la voce mia di grande affetto impressa. 
       E quanta e quale vid'io lei far piùe 
per allegrezza nova che s'accrebbe, 
quando parlai, a l'allegrezze sue! 
       Così fatta, mi disse: «Il mondo m'ebbe 
giù poco tempo; e se più fosse stato, 
molto sarà di mal, che non sarebbe. 
       La mia letizia mi ti tien celato 
che mi raggia dintorno e mi nasconde 
quasi animal di sua seta fasciato. 
       Assai m'amasti, e avesti ben onde; 
che s'io fossi giù stato, io ti mostrava 
di mio amor più oltre che le fronde. 
       Quella sinistra riva che si lava 
di Rodano poi ch'è misto con Sorga, 
per suo segnore a tempo m'aspettava, 
       e quel corno d'Ausonia che s'imborga 
di Bari e di Gaeta e di Catona 
da ove Tronto e Verde in mare sgorga. 
       Fulgeami già in fronte la corona 
di quella terra che 'l Danubio riga 
poi che le ripe tedesche abbandona. 
       E la bella Trinacria, che caliga 
tra Pachino e Peloro, sopra 'l golfo 
che riceve da Euro maggior briga, 
       non per Tifeo ma per nascente solfo, 
attesi avrebbe li suoi regi ancora, 
nati per me di Carlo e di Ridolfo, 
       se mala segnoria, che sempre accora 
li popoli suggetti, non avesse 
mosso Palermo a gridar: "Mora, mora!". 
       E se mio frate questo antivedesse, 
l'avara povertà di Catalogna 
già fuggeria, perché non li offendesse; 
       ché veramente proveder bisogna 
per lui, o per altrui, sì ch'a sua barca 
carcata più d'incarco non si pogna. 
       La sua natura, che di larga parca 
discese, avria mestier di tal milizia 
che non curasse di mettere in arca». 
       «Però ch'i' credo che l'alta letizia 
che 'l tuo parlar m'infonde, segnor mio, 
là 've ogne ben si termina e s'inizia, 
       per te si veggia come la vegg'io, 
grata m'è più; e anco quest'ho caro 
perché 'l discerni rimirando in Dio. 
       Fatto m'hai lieto, e così mi fa chiaro, 
poi che, parlando, a dubitar m'hai mosso 
com'esser può, di dolce seme, amaro». 
       Questo io a lui; ed elli a me: «S'io posso 
mostrarti un vero, a quel che tu dimandi 
terrai lo viso come tien lo dosso. 
       Lo ben che tutto il regno che tu scandi 
volge e contenta, fa esser virtute 
sua provedenza in questi corpi grandi. 
       E non pur le nature provedute 
sono in la mente ch'è da sé perfetta, 
ma esse insieme con la lor salute: 
       per che quantunque quest'arco saetta 
disposto cade a proveduto fine, 
sì come cosa in suo segno diretta. 
       Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine 
producerebbe sì li suoi effetti, 
che non sarebbero arti, ma ruine; 
       e ciò esser non può, se li 'ntelletti 
che muovon queste stelle non son manchi, 
e manco il primo, che non li ha perfetti. 
       Vuo' tu che questo ver più ti s'imbianchi?». 
E io: «Non già; ché impossibil veggio 
che la natura, in quel ch'è uopo, stanchi». 
       Ond'elli ancora: «Or di': sarebbe il peggio 
per l'omo in terra, se non fosse cive?». 
«Sì», rispuos'io; «e qui ragion non cheggio». 
       «E puot'elli esser, se giù non si vive 
diversamente per diversi offici? 
Non, se 'l maestro vostro ben vi scrive». 
       Sì venne deducendo infino a quici; 
poscia conchiuse: «Dunque esser diverse 
convien di vostri effetti le radici: 
       per ch'un nasce Solone e altro Serse, 
altro Melchisedèch e altro quello 
che, volando per l'aere, il figlio perse. 
       La circular natura, ch'è suggello 
a la cera mortal, fa ben sua arte, 
ma non distingue l'un da l'altro ostello. 
       Quinci addivien ch'Esaù si diparte 
per seme da Iacòb; e vien Quirino 
da sì vil padre, che si rende a Marte. 
       Natura generata il suo cammino 
simil farebbe sempre a' generanti, 
se non vincesse il proveder divino. 
       Or quel che t'era dietro t'è davanti: 
ma perché sappi che di te mi giova, 
un corollario voglio che t'ammanti. 
       Sempre natura, se fortuna trova 
discorde a sé, com'ogne altra semente 
fuor di sua region, fa mala prova. 
       E se 'l mondo là giù ponesse mente 
al fondamento che natura pone, 
seguendo lui, avria buona la gente. 
       Ma voi torcete a la religione 
tal che fia nato a cignersi la spada, 
e fate re di tal ch'è da sermone; 
       onde la traccia vostra è fuor di strada».
 
 

 
 

 
 
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Canto IX

mercoledì 13 aprile Cielo III: Venere 
Intelligenze motrici: Principati
Carlo Martello, Cunizza da Romano, Folchetto di Marsiglia, Raab Spiriti amanti: lumi che si muovono danzando e cantando Osanna con grandissima velocità, maggiore o minore a seconda di lor viste interne.
Comincia il canto nono del Paradiso. Nel quale l'autor discrive come Madonna Cuniza alcune cose gli predice contra i lombardi, e appresso Folco contro a' pastori della Chiesa.
       Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, 
m'ebbe chiarito, mi narrò li 'nganni 
che ricever dovea la sua semenza; 
       ma disse: «Taci e lascia muover li anni»; 
sì ch'io non posso dir se non che pianto 
giusto verrà di retro ai vostri danni. 
       E già la vita di quel lume santo 
rivolta s'era al Sol che la riempie 
come quel ben ch'a ogne cosa è tanto. 
       Ahi anime ingannate e fatture empie, 
che da sì fatto ben torcete i cuori, 
drizzando in vanità le vostre tempie! 
       Ed ecco un altro di quelli splendori 
ver' me si fece, e 'l suo voler piacermi 
significava nel chiarir di fori. 
       Li occhi di Beatrice, ch'eran fermi 
sovra me, come pria, di caro assenso 
al mio disio certificato fermi. 
       «Deh, metti al mio voler tosto compenso, 
beato spirto», dissi, «e fammi prova 
ch'i' possa in te refletter quel ch'io penso!». 
       Onde la luce che m'era ancor nova, 
del suo profondo, ond'ella pria cantava, 
seguette come a cui di ben far giova: 
       «In quella parte de la terra prava 
italica che siede tra Rialto 
e le fontane di Brenta e di Piava, 
       si leva un colle, e non surge molt'alto, 
là onde scese già una facella 
che fece a la contrada un grande assalto. 
       D'una radice nacqui e io ed ella: 
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo 
perché mi vinse il lume d'esta stella; 
       ma lietamente a me medesma indulgo 
la cagion di mia sorte, e non mi noia; 
che parria forse forte al vostro vulgo. 
       Di questa luculenta e cara gioia 
del nostro cielo che più m'è propinqua, 
grande fama rimase; e pria che moia, 
       questo centesimo anno ancor s'incinqua: 
vedi se far si dee l'omo eccellente, 
sì ch'altra vita la prima relinqua. 
       E ciò non pensa la turba presente 
che Tagliamento e Adice richiude, 
né per esser battuta ancor si pente; 
       ma tosto fia che Padova al palude 
cangerà l'acqua che Vincenza bagna, 
per essere al dover le genti crude; 
       e dove Sile e Cagnan s'accompagna, 
tal signoreggia e va con la testa alta, 
che già per lui carpir si fa la ragna. 
       Piangerà Feltro ancora la difalta 
de l'empio suo pastor, che sarà sconcia 
sì, che per simil non s'entrò in malta. 
       Troppo sarebbe larga la bigoncia 
che ricevesse il sangue ferrarese, 
e stanco chi 'l pesasse a oncia a oncia, 
       che donerà questo prete cortese 
per mostrarsi di parte; e cotai doni 
conformi fieno al viver del paese. 
       Sù sono specchi, voi dicete Troni, 
onde refulge a noi Dio giudicante; 
sì che questi parlar ne paion buoni». 
       Qui si tacette; e fecemi sembiante 
che fosse ad altro volta, per la rota 
in che si mise com'era davante. 
       L'altra letizia, che m'era già nota 
per cara cosa, mi si fece in vista 
qual fin balasso in che lo sol percuota. 
       Per letiziar là sù fulgor s'acquista, 
sì come riso qui; ma giù s'abbuia 
l'ombra di fuor, come la mente è trista. 
       «Dio vede tutto, e tuo veder s'inluia», 
diss'io, «beato spirto, sì che nulla 
voglia di sé a te puot'esser fuia. 
       Dunque la voce tua, che 'l ciel trastulla 
sempre col canto di quei fuochi pii 
che di sei ali facen la coculla, 
       perché non satisface a' miei disii? 
Già non attendere' io tua dimanda, 
s'io m'intuassi, come tu t'inmii». 
       «La maggior valle in che l'acqua si spanda», 
incominciaro allor le sue parole, 
«fuor di quel mar che la terra inghirlanda, 
       tra ' discordanti liti contra 'l sole 
tanto sen va, che fa meridiano 
là dove l'orizzonte pria far suole. 
       Di quella valle fu' io litorano 
tra Ebro e Macra, che per cammin corto 
parte lo Genovese dal Toscano. 
       Ad un occaso quasi e ad un orto 
Buggea siede e la terra ond'io fui, 
che fé del sangue suo già caldo il porto. 
       Folco mi disse quella gente a cui 
fu noto il nome mio; e questo cielo 
di me s'imprenta, com'io fe' di lui; 
       ché più non arse la figlia di Belo, 
noiando e a Sicheo e a Creusa, 
di me, infin che si convenne al pelo; 
       né quella Rodopea che delusa 
fu da Demofoonte, né Alcide 
quando Iole nel core ebbe rinchiusa. 
       Non però qui si pente, ma si ride, 
non de la colpa, ch'a mente non torna, 
ma del valor ch'ordinò e provide. 
       Qui si rimira ne l'arte ch'addorna 
cotanto affetto, e discernesi 'l bene 
per che 'l mondo di sù quel di giù torna. 
       Ma perché tutte le tue voglie piene 
ten porti che son nate in questa spera, 
proceder ancor oltre mi convene. 
       Tu vuo' saper chi è in questa lumera 
che qui appresso me così scintilla, 
come raggio di sole in acqua mera. 
       Or sappi che là entro si tranquilla 
Raab; e a nostr'ordine congiunta, 
di lei nel sommo grado si sigilla. 
       Da questo cielo, in cui l'ombra s'appunta 
che 'l vostro mondo face, pria ch'altr'alma 
del triunfo di Cristo fu assunta. 
       Ben si convenne lei lasciar per palma 
in alcun cielo de l'alta vittoria 
che s'acquistò con l'una e l'altra palma, 
       perch'ella favorò la prima gloria 
di Iosuè in su la Terra Santa, 
che poco tocca al papa la memoria. 
       La tua città, che di colui è pianta 
che pria volse le spalle al suo fattore 
e di cui è la 'nvidia tanto pianta, 
       produce e spande il maladetto fiore 
c'ha disviate le pecore e li agni, 
però che fatto ha lupo del pastore. 
       Per questo l'Evangelio e i dottor magni 
son derelitti, e solo ai Decretali 
si studia, sì che pare a' lor vivagni. 
       A questo intende il papa e ' cardinali; 
non vanno i lor pensieri a Nazarette, 
là dove Gabriello aperse l'ali. 
       Ma Vaticano e l'altre parti elette 
di Roma che son state cimitero 
a la milizia che Pietro seguette, 
       tosto libere fien de l'avoltero».
 
 

 
 

 
 
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998