Dante Alighieri

LA DIVINA COMMEDIA

INFERNO

Canto XVII

sabato 9 aprile, alba cerchio VII, girone 3°, bordo di pietra del VII cerchio, dal quale si vede in basso il sabbione infuocato Reginaldo degli Scrovegni, Catello dei Gianfigliazzi, Obriachi, Gerione violenti contro l'arte (nipote di Dio): usurai, costretti a stare seduti contro l'argine fissando una borsa che pende dal collo, con lo stemma della famiglia di appartenenza. - Passaggio del fiume sopra Gerione.
Comincia il canto decimosettimo dello 'Nferno. Nel quale l'autore descrive la forma della fraude e il tormento degli usurieri, e come, saliti sovra Gerione, passarono il fiume.
      «Ecco la fiera con la coda aguzza, 
che passa i monti, e rompe i muri e l’armi! 
Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!». 
      Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; 
e accennolle che venisse a proda 
vicino al fin d’i passeggiati marmi. 
      E quella sozza imagine di froda 
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto, 
ma ’n su la riva non trasse la coda. 
      La faccia sua era faccia d’uom giusto, 
tanto benigna avea di fuor la pelle, 
e d’un serpente tutto l’altro fusto; 
      due branche avea pilose insin l’ascelle; 
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste 
dipinti avea di nodi e di rotelle. 
      Con più color, sommesse e sovraposte 
non fer mai drappi Tartari né Turchi, 
né fuor tai tele per Aragne imposte. 
      Come tal volta stanno a riva i burchi, 
che parte sono in acqua e parte in terra, 
e come là tra li Tedeschi lurchi 
      lo bivero s’assetta a far sua guerra, 
così la fiera pessima si stava 
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra. 
      Nel vano tutta sua coda guizzava, 
torcendo in sù la venenosa forca 
ch’a guisa di scorpion la punta armava. 
      Lo duca disse: «Or convien che si torca 
la nostra via un poco insino a quella 
bestia malvagia che colà si corca». 
      Però scendemmo a la destra mammella, 
e diece passi femmo in su lo stremo, 
per ben cessar la rena e la fiammella. 
      E quando noi a lei venuti semo, 
poco più oltre veggio in su la rena 
gente seder propinqua al loco scemo. 
      Quivi ’l maestro «Acciò che tutta piena 
esperienza d’esto giron porti», 
mi disse, «va, e vedi la lor mena. 
      Li tuoi ragionamenti sian là corti: 
mentre che torni, parlerò con questa, 
che ne conceda i suoi omeri forti». 
      Così ancor su per la strema testa 
di quel settimo cerchio tutto solo 
andai, dove sedea la gente mesta. 
      Per li occhi fora scoppiava lor duolo; 
è di qua, di là soccorrien con le mani 
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo: 
      non altrimenti fan di state i cani 
or col ceffo, or col piè, quando son morsi 
o da pulci o da mosche o da tafani. 
      Poi che nel viso a certi li occhi porsi, 
ne’ quali ’l doloroso foco casca, 
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi 
      che dal collo a ciascun pendea una tasca 
ch’avea certo colore e certo segno, 
e quindi par che ’l loro occhio si pasca. 
      E com’io riguardando tra lor vegno, 
in una borsa gialla vidi azzurro 
che d’un leone avea faccia e contegno. 
      Poi, procedendo di mio sguardo il curro, 
vidine un’altra come sangue rossa, 
mostrando un’oca bianca più che burro. 
      E un che d’una scrofa azzurra e grossa 
segnato avea lo suo sacchetto bianco, 
mi disse: «Che fai tu in questa fossa? 
      Or te ne va; e perché se’ vivo anco, 
sappi che ’l mio vicin Vitaliano 
sederà qui dal mio sinistro fianco. 
      Con questi Fiorentin son padoano: 
spesse fiate mi ’ntronan li orecchi 
gridando: "Vegna ’l cavalier sovrano, 
      che recherà la tasca con tre becchi!"». 
Qui distorse la bocca e di fuor trasse 
la lingua, come bue che ’l naso lecchi. 
      E io, temendo no ’l più star crucciasse 
lui che di poco star m’avea ’mmonito, 
torna’ mi in dietro da l’anime lasse. 
      Trova’ il duca mio ch’era salito 
già su la groppa del fiero animale, 
e disse a me: «Or sie forte e ardito. 
      Omai si scende per sì fatte scale: 
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo, 
sì che la coda non possa far male». 
      Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo 
de la quartana, c’ha già l’unghie smorte, 
e triema tutto pur guardando ’l rezzo, 
      tal divenn’io a le parole porte; 
ma vergogna mi fé le sue minacce, 
che innanzi a buon segnor fa servo forte. 
      I’ m’assettai in su quelle spallacce; 
sì volli dir, ma la voce non venne 
com’io credetti: ’Fa che tu m’abbracce’. 
      Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne 
ad altro forse, tosto ch’i’ montai 
con le braccia m’avvinse e mi sostenne; 
      e disse: «Gerion, moviti omai: 
le rote larghe e lo scender sia poco: 
pensa la nova soma che tu hai». 
      Come la navicella esce di loco 
in dietro in dietro, sì quindi si tolse; 
e poi ch’al tutto si sentì a gioco, 
      là ’v’era ’l petto, la coda rivolse, 
e quella tesa, come anguilla, mosse, 
e con le branche l’aere a sé raccolse. 
      Maggior paura non credo che fosse 
quando Fetonte abbandonò li freni, 
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse; 
      né quando Icaro misero le reni 
sentì spennar per la scaldata cera, 
gridando il padre a lui «Mala via tieni!», 
      che fu la mia, quando vidi ch’i’ era 
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta 
ogne veduta fuor che de la fera. 
      Ella sen va notando lenta lenta: 
rota e discende, ma non me n’accorgo 
se non che al viso e di sotto mi venta. 
      Io sentia già da la man destra il gorgo 
far sotto noi un orribile scroscio, 
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo. 
      Allor fu’ io più timido a lo stoscio, 
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti; 
ond’io tremando tutto mi raccoscio. 
      E vidi poi, ché nol vedea davanti, 
lo scendere e ’l girar per li gran mali 
che s’appressavan da diversi canti. 
      Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali, 
che sanza veder logoro o uccello 
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!», 
      discende lasso onde si move isnello, 
per cento rote, e da lunge si pone 
dal suo maestro, disdegnoso e fello; 
      così ne puose al fondo Gerione 
al piè al piè de la stagliata rocca 
e, discarcate le nostre persone, 
      si dileguò come da corda cocca.
 
 

 
 

 
 
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Canto XVIII

sabato 9 aprile, presso il levar del sole cerchio VIII, bolgia I, delimitata da argini di pietra e separata dall'alto Inferno da una parete di roccia; bolgia II, fondo cupo pieno di sterco con le pareti ingrommate di sozza muffa Venedico Caccianemico, Alessio Interminelli, Giasone, Taide, demoni ruffiani e seduttori, frustati con violenza dai diavoli e distinti in due schiere che camminano in senso contrario di marcia; 
adulatori: immersi nello sterco compiono inutili gesti di disperazione nel tentativo di ripulirsi dalla lordura.
Comincia il canto decimottavo dello 'Nferno. Nel quale l'autore prima descrive come sia fatto Malebolge; e appresso mostra come i ruffiani siano con iscuriate battuti da demòni; e ultimamente come i lusinghieri piangano in uno sterco.
      Luogo è in inferno detto Malebolge, 
tutto di pietra di color ferrigno, 
come la cerchia che dintorno il volge. 
      Nel dritto mezzo del campo maligno 
vaneggia un pozzo assai largo e profondo, 
di cui suo loco dicerò l’ordigno. 
      Quel cinghio che rimane adunque è tondo 
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura, 
e ha distinto in dieci valli il fondo. 
      Quale, dove per guardia de le mura 
più e più fossi cingon li castelli, 
la parte dove son rende figura, 
      tale imagine quivi facean quelli; 
e come a tai fortezze da’ lor sogli 
a la ripa di fuor son ponticelli, 
      così da imo de la roccia scogli 
movien che ricidien li argini e ’ fossi 
infino al pozzo che i tronca e raccogli. 
      In questo luogo, de la schiena scossi 
di Gerion, trovammoci; e ’l poeta 
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi. 
      A la man destra vidi nova pieta, 
novo tormento e novi frustatori, 
di che la prima bolgia era repleta. 
      Nel fondo erano ignudi i peccatori; 
dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto, 
di là con noi, ma con passi maggiori, 
      come i Roman per l’essercito molto, 
l’anno del giubileo, su per lo ponte 
hanno a passar la gente modo colto, 
      che da l’un lato tutti hanno la fronte 
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro; 
da l’altra sponda vanno verso ’l monte. 
      Di qua, di là, su per lo sasso tetro 
vidi demon cornuti con gran ferze, 
che li battien crudelmente di retro. 
      Ahi come facean lor levar le berze 
a le prime percosse! già nessuno 
le seconde aspettava né le terze. 
      Mentr’io andava, li occhi miei in uno 
furo scontrati; e io sì tosto dissi: 
«Già di veder costui non son digiuno». 
      Per ch’io a figurarlo i piedi affissi; 
e ’l dolce duca meco si ristette, 
e assentio ch’alquanto in dietro gissi. 
      E quel frustato celar si credette 
bassando ’l viso; ma poco li valse, 
ch’io dissi: «O tu che l’occhio a terra gette, 
      se le fazion che porti non son false, 
Venedico se’ tu Caccianemico. 
Ma che ti mena a sì pungenti salse?». 
      Ed elli a me: «Mal volentier lo dico; 
ma sforzami la tua chiara favella, 
che mi fa sovvenir del mondo antico. 
      I’ fui colui che la Ghisolabella 
condussi a far la voglia del marchese, 
come che suoni la sconcia novella. 
      E non pur io qui piango bolognese; 
anzi n’è questo luogo tanto pieno, 
che tante lingue non son ora apprese 
      a dicer ’sipa’ tra Sàvena e Reno; 
e se di ciò vuoi fede o testimonio, 
rècati a mente il nostro avaro seno». 
      Così parlando il percosse un demonio 
de la sua scuriada, e disse: «Via, 
ruffian! qui non son femmine da conio». 
      I’ mi raggiunsi con la scorta mia; 
poscia con pochi passi divenimmo 
là ’v’uno scoglio de la ripa uscia. 
      Assai leggeramente quel salimmo; 
e vòlti a destra su per la sua scheggia, 
da quelle cerchie etterne ci partimmo. 
      Quando noi fummo là dov’el vaneggia 
di sotto per dar passo a li sferzati, 
lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia 
      lo viso in te di quest’altri mal nati, 
ai quali ancor non vedesti la faccia 
però che son con noi insieme andati». 
      Del vecchio ponte guardavam la traccia 
che venìa verso noi da l’altra banda, 
e che la ferza similmente scaccia. 
      E ’l buon maestro, sanza mia dimanda, 
mi disse: «Guarda quel grande che vene, 
e per dolor non par lagrime spanda: 
      quanto aspetto reale ancor ritene! 
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno 
li Colchi del monton privati féne. 
      Ello passò per l’isola di Lenno, 
poi che l’ardite femmine spietate 
tutti li maschi loro a morte dienno. 
      Ivi con segni e con parole ornate 
Isifile ingannò, la giovinetta 
che prima avea tutte l’altre ingannate. 
      Lasciolla quivi, gravida, soletta; 
tal colpa a tal martiro lui condanna; 
e anche di Medea si fa vendetta. 
      Con lui sen va chi da tal parte inganna: 
e questo basti de la prima valle 
sapere e di color che ’n sé assanna». 
      Già eravam là ’ve lo stretto calle 
con l’argine secondo s’incrocicchia, 
e fa di quello ad un altr’arco spalle. 
      Quindi sentimmo gente che si nicchia 
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa, 
e sé medesma con le palme picchia. 
      Le ripe eran grommate d’una muffa, 
per l’alito di giù che vi s’appasta, 
che con li occhi e col naso facea zuffa. 
      Lo fondo è cupo sì, che non ci basta 
loco a veder sanza montare al dosso 
de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta. 
      Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso 
vidi gente attuffata in uno sterco 
che da li uman privadi parea mosso. 
      E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, 
vidi un col capo sì di merda lordo, 
che non parea s’era laico o cherco. 
      Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo 
di riguardar più me che li altri brutti?». 
E io a lui: «Perché, se ben ricordo, 
      già t’ho veduto coi capelli asciutti, 
e se’ Alessio Interminei da Lucca: 
però t’adocchio più che li altri tutti». 
      Ed elli allor, battendosi la zucca: 
«Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe 
ond’io non ebbi mai la lingua stucca». 
      Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe», 
mi disse «il viso un poco più avante, 
sì che la faccia ben con l’occhio attinghe 
      di quella sozza e scapigliata fante 
che là si graffia con l’unghie merdose, 
e or s’accoscia e ora è in piedi stante. 
      Taide è, la puttana che rispuose 
al drudo suo quando disse "Ho io grazie 
grandi apo te?": "Anzi maravigliose!". 
      E quinci sien le nostre viste sazie».
 
 

 
 

 
 
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Canto XIX

sabato 9 aprile, presso il levar del sole cerchio VIII, bolgia III: pareti e fondo rocciosi, di difficile accesso; nella pietra si aprono fori regolari molto profondi. Niccolò III simoniaci: ecclesiastici che hanno sfruttato la loro posizione per arricchire se stessi e la propria famiglia; sono capovolti nei fori e i piedi bruciano di una fiamma rossastra; quando sopraggiunge un nuovo dannato, prende posto facendo sprofondare in basso gli altri.
Comincia il canto decimonono dello 'Nferno. Nel quale l'autore, disceso nella terza bolgia, dimostra qual sia lo tormento de' simoniaci, e parla con Papa Niccola, il quale gli predice d'alcun papa futuro simoniaco, e quindi esclama l'autore contro al detto papa.
      O Simon mago, o miseri seguaci 
che le cose di Dio, che di bontate 
deon essere spose, e voi rapaci 
      per oro e per argento avolterate, 
or convien che per voi suoni la tromba, 
però che ne la terza bolgia state. 
      Già eravamo, a la seguente tomba, 
montati de lo scoglio in quella parte 
ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba. 
      O somma sapienza, quanta è l’arte 
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, 
e quanto giusto tua virtù comparte! 
      Io vidi per le coste e per lo fondo 
piena la pietra livida di fóri, 
d’un largo tutti e ciascun era tondo. 
      Non mi parean men ampi né maggiori 
che que’ che son nel mio bel San Giovanni, 
fatti per loco d’i battezzatori; 
      l’un de li quali, ancor non è molt’anni, 
rupp’io per un che dentro v’annegava: 
e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni. 
      Fuor de la bocca a ciascun soperchiava 
d’un peccator li piedi e de le gambe 
infino al grosso, e l’altro dentro stava. 
      Le piante erano a tutti accese intrambe; 
per che sì forte guizzavan le giunte, 
che spezzate averien ritorte e strambe. 
      Qual suole il fiammeggiar de le cose unte 
muoversi pur su per la strema buccia, 
tal era lì dai calcagni a le punte. 
      «Chi è colui, maestro, che si cruccia 
guizzando più che li altri suoi consorti», 
diss’io, «e cui più roggia fiamma succia?». 
      Ed elli a me: «Se tu vuo’ ch’i’ ti porti 
là giù per quella ripa che più giace, 
da lui saprai di sé e de’ suoi torti». 
      E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace: 
tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto 
dal tuo volere, e sai quel che si tace». 
      Allor venimmo in su l’argine quarto: 
volgemmo e discendemmo a mano stanca 
là giù nel fondo foracchiato e arto. 
      Lo buon maestro ancor de la sua anca 
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto 
di quel che si piangeva con la zanca. 
      «O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto, 
anima trista come pal commessa», 
comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto». 
      Io stava come ’l frate che confessa 
lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto, 
richiama lui, per che la morte cessa. 
      Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto, 
se’ tu già costì ritto, Bonifazio? 
Di parecchi anni mi mentì lo scritto. 
      Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio 
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno 
la bella donna, e poi di farne strazio?». 
      Tal mi fec’io, quai son color che stanno, 
per non intender ciò ch’è lor risposto, 
quasi scornati, e risponder non sanno. 
      Allor Virgilio disse: «Dilli tosto: 
"Non son colui, non son colui che credi"»; 
e io rispuosi come a me fu imposto. 
      Per che lo spirto tutti storse i piedi; 
poi, sospirando e con voce di pianto, 
mi disse: «Dunque che a me richiedi? 
      Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto, 
che tu abbi però la ripa corsa, 
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto; 
      e veramente fui figliuol de l’orsa, 
cupido sì per avanzar li orsatti, 
che sù l’avere e qui me misi in borsa. 
      Di sotto al capo mio son li altri tratti 
che precedetter me simoneggiando, 
per le fessure de la pietra piatti. 
      Là giù cascherò io altresì quando 
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi 
allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando. 
      Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi 
e ch’i’ son stato così sottosopra, 
ch’el non starà piantato coi piè rossi: 
      ché dopo lui verrà di più laida opra 
di ver’ ponente, un pastor sanza legge, 
tal che convien che lui e me ricuopra. 
      Novo Iasón sarà, di cui si legge 
ne’ Maccabei; e come a quel fu molle 
suo re, così fia lui chi Francia regge». 
       Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle, 
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro: 
«Deh, or mi dì : quanto tesoro volle 
      Nostro Segnore in prima da san Pietro 
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa? 
Certo non chiese se non "Viemmi retro". 
      Né Pier né li altri tolsero a Matia 
oro od argento, quando fu sortito 
al loco che perdé l’anima ria. 
      Però ti sta, ché tu se’ ben punito; 
e guarda ben la mal tolta moneta 
ch’esser ti fece contra Carlo ardito. 
      E se non fosse ch’ancor lo mi vieta 
la reverenza delle somme chiavi 
che tu tenesti ne la vita lieta, 
      io userei parole ancor più gravi; 
ché la vostra avarizia il mondo attrista, 
calcando i buoni e sollevando i pravi. 
      Di voi pastor s’accorse il Vangelista, 
quando colei che siede sopra l’acque 
puttaneggiar coi regi a lui fu vista; 
      quella che con le sette teste nacque, 
e da le diece corna ebbe argomento, 
fin che virtute al suo marito piacque. 
      Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento; 
e che altro è da voi a l’idolatre, 
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento? 
       Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, 
non la tua conversion, ma quella dote 
che da te prese il primo ricco patre!». 
      E mentr’io li cantava cotai note, 
o ira o coscienza che ’l mordesse, 
forte spingava con ambo le piote. 
      I’ credo ben ch’al mio duca piacesse, 
con sì contenta labbia sempre attese 
lo suon de le parole vere espresse. 
      Però con ambo le braccia mi prese; 
e poi che tutto su mi s’ebbe al petto, 
rimontò per la via onde discese. 
      Né si stancò d’avermi a sé distretto, 
sì men portò sovra ’l colmo de l’arco 
che dal quarto al quinto argine è tragetto. 
      Quivi soavemente spuose il carco, 
soave per lo scoglio sconcio ed erto 
che sarebbe a le capre duro varco. 
      Indi un altro vallon mi fu scoperto.
 
 

 
 

 
 
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998