Dante Alighieri
LA DIVINA COMMEDIA
INFERNO
sabato 9 aprile, verso l'alba | cerchio VII, girone 3°, landa circondata dalla selva dei suicidi, costituita da un sabbione infuocato su cui cadono fiocchi di fuoco come di neve in alpe sanza vento | Capaneo, Virgilio spiega a Dante l'origine dei fiumi | violenti contro Dio: divisi in tre schiere: bestemmiatori, sodomiti e usurai; su tutti cade la pioggia di fuoco dalla quale invano si proteggono con le mani: i bestemmiatori stanno supini a terra, i sodomiti sono costretti a camminare, gli usurai siedono lungo il bordo del girone e fissano la borsa che pende al loro collo con lo stemma della famiglia di appartenenza. |
Comincia il canto decimoquarto dello 'Nferno. Nel quale l'autor mostra sé esser venuto sovra un sabbione ardente, sopra il qual piovono continue fiamme, e dove si puniscono quegli che violentemente hanno adoperato incontro a Dio e contro alla natura, e avanti agli altri vede punir Capaneo. Poi gli dimostra Virgilio come d'una statua di diversi metalli si creano tutti i fiumi dello 'nferno. |
Poi che la carità del
natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte, e rendele a colui, chera già fioco. Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte. A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa che dal suo letto ogne pianta rimove. La dolorosa selva lè ghirlanda intorno, come l fosso tristo ad essa: quivi fermammo i passi a randa a randa. Lo spazzo era una rena arida e spessa, non daltra foggia fatta che colei che fu da piè di Caton già soppressa. O vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge ciò che fu manifesto a li occhi miei! Danime nude vidi molte gregge che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge. Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta, e altra andava continuamente. Quella che giva intorno era più molta, e quella men che giacea al tormento, ma più al duolo avea la lingua sciolta. Sovra tutto l sabbion, dun cader lento, piovean di foco dilatate falde, come di neve in alpe sanza vento. Quali Alessandro in quelle parti calde dIndia vide sopra l suo stuolo fiamme cadere infino a terra salde, per chei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, acciò che lo vapore mei si stingueva mentre chera solo: tale scendeva letternale ardore; onde la rena saccendea, comesca sotto focile, a doppiar lo dolore. Sanza riposo mai era la tresca de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da sé larsura fresca. I cominciai: «Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che demon duri cha lintrar de la porta incontra uscinci, chi è quel grande che non par che curi lo ncendio e giace dispettoso e torto, sì che la pioggia non par che l marturi?». E quel medesmo, che si fu accorto chio domandava il mio duca di lui, gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto. Se Giove stanchi l suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta onde lultimo dì percosso fui; o selli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra, chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!", sì comel fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza, non ne potrebbe aver vendetta allegra». Allora il duca mio parlò di forza tanto, chi non lavea sì forte udito: «O Capaneo, in ciò che non sammorza la tua superbia, se tu più punito: nullo martiro, fuor che la tua rabbia, sarebbe al tuo furor dolor compito». Poi si rivolse a me con miglior labbia dicendo: «Quei fu lun di sette regi chassiser Tebe; ed ebbe e par chelli abbia Dio in disdegno, e poco par che l pregi; ma, comio dissi lui, li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi. Or mi vien dietro, e guarda che non metti, ancor, li piedi ne la rena arsiccia; ma sempre al bosco tien li piedi stretti». Tacendo divenimmo là ve spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia. Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giù sen giva quello. Lo fondo suo e ambo le pendici fattera n pietra, e margini dallato; per chio maccorsi che l passo era lici. «Tra tutto laltro chi tho dimostrato, poscia che noi intrammo per la porta lo cui sogliare a nessuno è negato, cosa non fu da li tuoi occhi scorta notabile comè l presente rio, che sovra sé tutte fiammelle ammorta». Queste parole fuor del duca mio; per chio l pregai che mi largisse l pasto di cui largito mavea il disio. «In mezzo mar siede un paese guasto», disselli allora, «che sappella Creta, sotto l cui rege fu già l mondo casto. Una montagna vè che già fu lieta dacqua e di fronde, che si chiamò Ida: or è diserta come cosa vieta. Rea la scelse già per cuna fida del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida. Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inver Dammiata e Roma guarda come suo speglio. La sua testa è di fin oro formata, e puro argento son le braccia e l petto, poi è di rame infino a la forcata; da indi in giuso è tutto ferro eletto, salvo che l destro piede è terra cotta; e sta n su quel più che n su laltro, eretto. Ciascuna parte, fuor che loro, è rotta duna fessura che lagrime goccia, le quali, accolte, foran quella grotta. Lor corso in questa valle si diroccia: fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; poi sen van giù per questa stretta doccia infin, là ove più non si dismonta fanno Cocito; e qual sia quello stagno tu lo vedrai, però qui non si conta». E io a lui: «Se l presente rigagno si diriva così dal nostro mondo, perché ci appar pur a questo vivagno?». Ed elli a me: «Tu sai che l loco è tondo; e tutto che tu sie venuto molto, pur a sinistra, giù calando al fondo, non se ancor per tutto il cerchio vòlto: per che, se cosa napparisce nova, non de addur maraviglia al tuo volto». E io ancor: «Maestro, ove si trova Flegetonta e Letè? ché de lun taci, e laltro di che si fa desta piova». «In tutte tue question certo mi piaci», rispuose; «ma l bollor de lacqua rossa dovea ben solver luna che tu faci. Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, là dove vanno lanime a lavarsi quando la colpa pentuta è rimossa». Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne: li margini fan via, che non son arsi, e sopra loro ogne vapor si spegne». |
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sabato 9 aprile, verso l'alba | cerchio VII, girone 3°, landa circondata dalla selva dei suicidi, costituita da un sabbione infuocato | Brunetto Latini, Prisciano, Andrea de' Mozzi, Francesco d'Accorso | violenti contro natura (figlia di Dio): i sodomiti sono costretti a camminare nel sabbione infuocato mentre scende implacabile su di loro una pioggia di fuoco dalla quale inutilmente si riparano con le mani. |
Comincia il canto decimoquinto dello 'Nferno. Nel quale l'autore discrive il tormento de' sogdomiti, e truova ser Brunetto Latino, il quale gli predice alcuna cosa della sua futura vita. |
Ora cen porta lun
de duri margini; e l fummo del ruscel di sopra aduggia, sì che dal foco salva lacqua e li argini. Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo l fiotto che nver lor savventa, fanno lo schermo perché l mar si fuggia; e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta: a tale imagine eran fatti quelli, tutto che né sì alti né sì grossi, qual che si fosse, lo maestro felli. Già eravam da la selva rimossi tanto, chi non avrei visto dovera, perchio in dietro rivolto mi fossi, quando incontrammo danime una schiera che venìan lungo largine, e ciascuna ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna; e sì ver noi aguzzavan le ciglia come l vecchio sartor fa ne la cruna. Così adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!». E io, quando l suo braccio a me distese, ficcai li occhi per lo cotto aspetto, sì che l viso abbrusciato non difese la conoscenza sua al mio ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna n dietro e lascia andar la traccia». I dissi lui: «Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi masseggia, faròl, se piace a costui che vo seco». «O figliuol», disse, «qual di questa greggia sarresta punto, giace poi centanni sanzarrostarsi quando l foco il feggia. Però va oltre: i ti verrò a panni; e poi rigiugnerò la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni». I non osava scender de la strada per andar par di lui; ma l capo chino tenea comuom che reverente vada. El cominciò: «Qual fortuna o destino anzi lultimo dì qua giù ti mena? e chi è questi che mostra l cammino?». «Là sù di sopra, in la vita serena», rispuosio lui, «mi smarri in una valle, avanti che letà mia fosse piena. Pur ier mattina le volsi le spalle: questi mapparve, tornandio in quella, e reducemi a ca per questo calle». Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto, se ben maccorsi ne la vita bella; e sio non fossi sì per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, dato tavrei a lopera conforto. Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno, ti si farà, per tuo ben far, nimico: ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico. Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gentè avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi. La tua fortuna tanto onor ti serba, che luna parte e laltra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco lerba. Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, salcuna surge ancora in lor letame, in cui riviva la sementa santa di que Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tanta». «Se fosse tutto pieno il mio dimando», rispuosio lui, «voi non sareste ancora de lumana natura posto in bando; ché n la mente mè fitta, e or maccora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora minsegnavate come luom setterna: e quantio labbia in grado, mentrio vivo convien che ne la mia lingua si scerna. Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo a donna che saprà, sa lei arrivo. Tanto voglio che vi sia manifesto, pur che mia coscienza non mi garra, che a la Fortuna, come vuol, son presto. Non è nuova a li orecchi miei tal arra: per giri Fortuna la sua rota come le piace, e l villan la sua marra». Lo mio maestro allora in su la gota destra si volse in dietro, e riguardommi; poi disse: «Bene ascolta chi la nota». Né per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni più noti e più sommi. Ed elli a me: «Saper dalcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci, ché l tempo sarìa corto a tanto suono. In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, dun peccato medesmo al mondo lerci. Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco dAccorso anche; e vedervi, savessi avuto di tal tigna brama, colui potei che dal servo de servi fu trasmutato dArno in Bacchiglione, dove lasciò li mal protesi nervi. Di più direi; ma l venire e l sermone più lungo esser non può, però chi veggio là surger nuovo fummo del sabbione. Gente vien con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro nel qual io vivo ancora, e più non cheggio». Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde. |
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sabato 9 aprile, verso l'alba | cerchio VII, girone 3°, landa circondata dalla selva dei suicidi, costituita da un sabbione infuocato | Iacopo Rusticucci, Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi, Guglielmo Borsiere | violenti contro natura (figlia di Dio), sodomiti, costretti a camminare nel sabbione infuocato mentre scende implacabile su di loro una pioggia di fuoco dalla quale inutilmente si riparano con le mani. - Episodio della corda, lanciata la quale, compare Gerione. |
Comincia il canto decimosesto dello 'Nferno. Nel quale l'autor parla. in quel medesimo luogo che di sopra, con tre spiriti; poi, data una corda a Virgilio, mostra come egli, con quella pescando, facesse venir fuori Gerione. |
Già era in loco onde
sudìa l rimbombo de lacqua che cadea ne laltro giro, simile a quel che larnie fanno rombo, quando tre ombre insieme si partiro, correndo, duna torma che passava sotto la pioggia de laspro martiro. Venian ver noi, e ciascuna gridava: «Sòstati tu cha labito ne sembri esser alcun di nostra terra prava». Ahimè, che piaghe vidi ne lor membri ricenti e vecchie, da le fiamme incese! Ancor men duol pur chi me ne rimembri. A le lor grida il mio dottor sattese; volse l viso ver me, e: «Or aspetta», disse «a costor si vuole esser cortese. E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta». Ricominciar, come noi restammo, ei lantico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di sé tutti e trei. Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti, così rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, sì che n contraro il collo faceva ai piè continuo viaggio. E «Se miseria desto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi», cominciò luno «e l tinto aspetto e brollo, la fama nostra il tuo animo pieghi a dirne chi tu se, che i vivi piedi così sicuro per lo nferno freghi. Questi, lorme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada, fu di grado maggior che tu non credi: nepote fu de la buona Gualdrada; Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada. Laltro, chappresso me la rena trita, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce nel mondo sù dovrìa esser gradita. E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui; e certo la fiera moglie più chaltro mi nuoce». Si fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che l dottor lavrìa sofferto; ma perchio mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto. Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia, tosto che questo mio segnor mi disse parole per le quali i mi pensai che qual voi siete, tal gente venisse. Di vostra terra sono, e sempre mai lovra di voi e li onorati nomi con affezion ritrassi e ascoltai. Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca; ma nfino al centro pria convien chi tomi». «Se lungamente lanima conduca le membra tue», rispuose quelli ancora, «e se la fama tua dopo te luca, cortesia e valor dì se dimora ne la nostra città sì come suole, o se del tutto se nè gita fora; ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va là coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole». «La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni». Così gridai con la faccia levata; e i tre, che ciò inteser per risposta, guardar lun laltro comal ver si guata. «Se laltre volte sì poco ti costa», rispuoser tutti «il satisfare altrui, felice te se sì parli a tua posta! Però, se campi desti luoghi bui e torni a riveder le belle stelle, quando ti gioverà dicere "I fui", fa che di noi a la gente favelle». Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle. Un amen non saria potuto dirsi tosto così come fuoro spariti; per chal maestro parve di partirsi. Io lo seguiva, e poco eravam iti, che l suon de lacqua nera sì vicino, che per parlar saremmo a pena uditi. Come quel fiume cha proprio cammino prima dal Monte Viso nver levante, da la sinistra costa dApennino, che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giù nel basso letto, e a Forlì di quel nome è vacante, rimbomba là sovra San Benedetto de lAlpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto; così, giù duna ripa discoscesa, trovammo risonar quellacqua tinta, sì che n pocora avria lorecchia offesa. Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta. Poscia chio lebbi tutta da me sciolta, sì come l duca mavea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta. Ondei si volse inver lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda la gittò giuso in quellalto burrato. E pur convien che novità risponda dicea fra me medesmo al novo cenno che l maestro con locchio sì seconda. Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur lovra, ma per entro i pensier miran col senno! El disse a me: «Tosto verrà di sovra ciò chio attendo e che il tuo pensier sogna: tosto convien chal tuo viso si scovra». Sempre a quel ver cha faccia di menzogna de luom chiuder le labbra fin chel puote, però che sanza colpa fa vergogna; ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comedìa, lettor, ti giuro, selle non sien di lunga grazia vòte, chi vidi per quellaere grosso e scuro venir notando una figura in suso, maravigliosa ad ogne cor sicuro, sì come torna colui che va giuso talora a solver làncora chaggrappa o scoglio o altro che nel mare è chiuso, che n sù si stende, e da piè si rattrappa. |
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© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998