Giuseppe Bonghi

Biografia
di
Giacomo Leopardi

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Quarta parte
La ginestra

Addio Recanati

         La mattina del 30 aprile 1830 lascia Recanati per l’ultima volta, perché non vi farà più ritorno e non vedrà più i suoi parenti; sua madre e Paolina lo abbracciarono teneramente, Carlo non c’era, il padre nemmeno, perchè forse non avrebbe retto al dolore per la partenza del figlio, che aveva salutato quasi di sfuggita la sera precedente. Sosterà a Bologna dal 3 al 9 maggio all’albergo della Pace in strada Santo Stefano e passerà qualche ora serena in casa Tommasini, uno dei migliori medici dell’Università di Bologna, conosciuto come paziente e in breve tempo divenuto amico, insieme alla moglie Antonietta e alla figlia sposata, la delicata e romantica Adelaide Maestri, di cui abbiamo già fatto cenno. Il 10 maggio giunge a Firenze e si ferma alla locanda della Fontana; il 10 giugno va ad abitare in Borgo degli Albizi ed alla fine dell’estate in via del Fosso (ora via Verdi), in due stanze presso le sorelle Busdraghi.
         La fallita rivoluzione napoletana del 1820 e dei moti libertari sia del ’21 che del ’31, gli suggerisce una narrazione burlesca degli eventi, i Paralipomeni della Batracomiomachia, prendendo spunto proprio dalla Storia del Reame di Napoli di Pietro Colletta, che l’autore stesso leggeva a Leopardi per averne un disinteressato parere o qualche correzione. La Batracomiomachia riguarda la guerra tra Rane e Topi e la sconfitta di questi; nei Topi venivano raffigurati gli italiani insorti, nei Granchi gli austriaci della Santa Alleanza e nelle Rane i preti.
         Sono mesi che comunque Leopardi vive nel timore d’essere costretto, se fosse venuto a mancare il sussidio dei 18 francesconi di Colletta e del suoi amici, a tornare nell’odiato sepolcro di Recanati. Per aiutarlo gli amici decidono di aiutarlo a pubblicare in Firenze un’edizione dei suoi Canti e nel luglio 1830 e redigono un manifesto di presentazione e di sottoscrizione in cui per la prima volta compare il titolo Canti con cui conosciamo gli idilli leopardiani; riportiamo il testo:

            Si pubblicherà in breve un volume intitolato Canti di Giacomo Leopardi. Saranno parte ristampati, parte nuovi: gli stampati si troveranno riformati molto dall’autore. Tutte le poesie pubblicate dal medesimo per lo passato, che non si leggeranno in questo volume, e così le altre edizioni fatte, sono rifiutate. Le prose che nelle altre edizioni andavano colle poesie, parimente essendo rifiutate, non si ristamperanno: ma in quella vece si darà una lunga prosa nuova, di argomento compagno a quello di uno di questi Canti. Alcune poche note si troveranno appiè di ciaschedun Canto a cui fossero a proposito.
         La valuta d’ogni esemplare ordinario, per quelli che saranno associati alla stampa, la quale sarà nitida di caratteri e di carta consisterà in Paoli cinque di moneta toscana, cioè in franchi 2,80.
        
Le associazioni si ricevono in Firenze al Gabinetto Scientifico-letterario G.P. Vieusseux; nelle altre Città della Toscana presso i principali librai.

            Le associazioni alla stampa si ricevevano anche a Milano, Venezia, Torino, Genova, Roma, Napoli e perfino Palermo. L’autore avrebbe dovuto promuovere il suo libro procurandosi un certo numero di sottoscrizioni (che ai primi di settembre sono di circa seicento) e manda il manifesto anche alla sorella Paolina, ad Adelaide Maestri, a Papadopoli, Carlo Pepoli ed altri conoscenti. Pietro Colletta si interessa anche alle trattative con il tipografo Guglielmo Piatti, con il quale viene stipulato un accordo difficile che prevede il pagamento per Leopardi un compenso di ottanta zecchini
         La lunga prosa nuova comunque al momento della consegna del manoscritto non c’è perché Leopardi si convince che è meglio un’edizione di soli versi, anche perché impedito da una nuova malattia agli occhi a comporre una nuova prosa, una malattia dichiarata alla sorella in una lettera del ventuno agosto, in cui si dichiara vittima di una semicecità che gli impedisce comunque di lavorare e di scrivere lettere e quindi di potersi tenere in relazione con gli stessi familiari: la malattia gli impediva di "scrivere e dettare lungamente", ed era una debolezza che si presentava in modo intermittente, tanto che la sua reale malattia resta ancor oggi un mistero per tutti.
         Il volume uscirà nell’aprile 1831, con la celebre dedica Agli amici suoi di Toscana:

Agli amici suoi di Toscana

La mia favola breve è già compita,
E fornito il mio tempo a mezzo gli anni
PETRARCA

Amici miei cari,
         Sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al presente (né posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato dalle lettere e dagli studi. Sperai che questi cari studi avrebbero sostenuta la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene, che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho potuto leggere, e per emendarle m’è convenuto servirmi degli occhi e della mano d’altri. Non mi so più dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l’uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi e la compagnia vostra, che n’è in luogo degli studi e in luogo d’ogni diletto e di ogni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di goderla quant’io vorrei; e s’io non conoscessi che la mia fortuna assai tosto mi priverà di questa ancora, costringendomi a consumar gli anni che mi avanzano, abbandonato da ogni conforto della civiltà, in luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L’amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi rimarrà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio

Il vostro LEOPARDI

            In quello stesso mese, ricevuti i soldi pattuiti per la stampa, viene a cessare la da parte degli amici di Toscana la rata mensile dei 18 francesconi, ma Leopardi in quella dolcissima primavera non ne risentì molto, il suo timore per l’avvenire, di fronte a una salute migliore (finalmente respirava abbastanza bene) che per il passato, era molto scemato, e soprattutto di fronte alla soddisfazione che gli veniva dalla frequentazione dei salotti di Firenze: il futuro non gli metteva in quei mesi nessuna angoscia

Fanny

            A Firenze rallenta molto la vita letteraria, ma aumenta la vita di società; la sua salute non lo fa soffrire molto e la sua cera è quasi buona, non tale comunque da far pensare a un uomo malato. È in questo periodo che l’amico Alessandro Poerio lo accompagna nel salotto di Fanny Ronchivecchi, moglie del professor Antonio Targioni Tozzetti, nata nel 1805 (all’epoca aveva quindi venticinque anni) e morta nel 1889, donna assai in vista nella società fiorentina per la sua bellezza e per le sue pretese letterarie, ma anche per i pettegolezzi che circolavano sul suo conto (si racconta che quando la conosce Leopardi avesse ben quattro amanti contemporaneamente) per la quale concepirà un amore appassionato e come al solito pieno di sottomissione che gli ispirerà i cinque canti del cosiddetto "ciclo di Aspasia" (Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia). Ma Fanny appartiene all’orizzonte di Ranieri "e appena un riflesso si accorge di Leopardi. È una donna attraente che con esemplare civetteria giunge ad accusarsi in una lettera ad Antonio Ranieri del novembre 1831, di "ocaggine" e di essere vittima di un destino che l’ha "fatta più per soffrire che per godere". Giacomo può innamorarsi di lei in virtù del suo legame con il bel napoletano e attirarne l’attenzione affettuosa soltanto in un ruolo secondario (Damiani, 405)". D’altronde la Fanny non avrebbe potuto, lei così bella e affascinante, restare incantata da un personaggio che aveva così poca cura della sua persona ("Leopardi non stà bene di occhi, ed è ostinato non voler far niente, mi sembra anche poco tenerli netti...", scrive nel marzo 1833 a Ranieri che si trovava a Napoli mentre Leopardi era ancora a Firenze, lei che pure soffriva in quel periodo agli occhi, ma non sono nemica dell’acqua. in che modo avrebbe potuto provare del tenero la Fanny per un simile uomo?).
         A Fanny Leopardi regala una copia dell’edizione Piatti dei suoi Canti, "legata in marocchino e oro", che molti anni dopo verrà comprata per cinquecento lire da Benedetto Croce e collocata nella sua Biblioteca. I rapporti tra Fanny e Giacomo sono sempre stati abbastanza cordiali, ma mai avrebbero potuto sfociare in "amore" per una sorta di naturale repulsione fisica che la donna, come abbiamo visto, provava per il poeta, per il quale sentiva comunque ammirazione e una specie di affetto che sicuramente era qualcosa di diverso dall’amicizia e dall’affetto fraterno. Sicuramente il Leopardi un giorno le ha confessato il suo amore, e questo ci viene confermato da una delle lettere di Fanny al Ranieri, nella quale si dice chiaramente che il poeta fu uno dei suoi ammiratori, che lei lo respinse con tale garbo che tra i due non vi fu nessuna rottura, ma continuò una certa "amicizia". Così scrive infatti Fanny al Ranieri nel 1833:

            E di Leopardi che ne è? io già sono nella sua disgrazia non è vero?, e il grande amore si convertì in ira; ciò mi è accaduto sovente, perché nella filsa dei miei adoratori ho avuto certi camorri (persona uggiosa e seccante, oltre che persona malaticcia, ndr) da far paura; e con quelli che non erano in questa categoria è perché non ho potuto mai spogliarmi da quel maledetto, e brutto pensar volgare del quale mi avete sempre accusata.

            Conosciuta la notizia della morte di Leopardi così scrive a Ranieri, dopo un periodo di un paio d’anni di silenzio, il 24 giugno 1837:

            La disgrazia della morte del povero nostro Leopardi mi ha annientata; sì pel bene che gli volevo, sì pella perdita fatta; sì pell’interesse che io prendo, a tutto ciò che vi riguarda. Io partecipo grandemente al vostro dolore, io sento il vuoto che proverete nelle vostre abitudini, e quel male che cagiona la perdita d’un’amico che si amava, e stimava, male che le parole non valgono ad esprimere, male che il tempo non basta a dissipare. Quantunque io sappia e creda fermamente che io non sono nulla per voi, pure pagherei non so cosa per potervi vedere almeno un’ora in questa circostanza! mi pare che io sarei più contenta, perché potrei non fosse altro accertarmi del genere di dolore che patite, e non figurarmi sempre il peggio come io faccio. Voi sarete forse in collera meco perché non vi ho scritto, ma la vostra ultima lettera era tale, da diacciare un cuore più freddo del mio, da reprimere ogni espansione amichevole, da farmi sentire che per certi sentimenti noi siamo agli antipodi, che voi non avete mai letto nella mia anima, e che non vi leggerete mai più... Nella dolorosa circostanza però in cui vi trovate spero che non vorrete disdegnare affatto l’espressione del mio cordoglio e che non saprete pagar d’ironia l’ironia che viene a partecipare il vostro dolore...

            Nella successiva lettera Fanny con Ranieri è anche più affettuoso, ma ancora una volta la sua attenzione non è rivolta al Leopardi, come uomo o come poeta, ma all’amico Ranieri, per il quale io suo cuore aveva tremato d’amore, anche se di un amore che non si realizzerà mai oltre il sentimento "platonico". Fanny conforta l’amico spinta dal dolore che questi prova per la perdita dell’amico, ma non usa nessuna parola di ricordo affettuoso per un uomo che di lei si era sicuramente innamorato e che questo amore aveva espresso in versi di grande poesia nel ciclo di Aspasia.
         Proprio l’identificazione con Aspasia Fanny cerca con forza di respingere; e quando Ranieri le scrive affermando di vedere proprio in lei l’Aspasia leopardiana, così gli risponde la donna il 20 gennaio 1838:

            Se non vi conoscessi così propenso al farmi arrabbiare, e canzonare direi che siete stato cattivo nel tentare di darmi un dispiacere colla risposta sull’Aspasia. Voi più d’ogni altro sapete se mai diedi la menoma lusinga a quel pover’uomo del Leo..., e se il mio carattere è tale da prendersi gioco d’un infelice, e d’un brav’uomo come lui. Quando me ne parlava, in certi tempi, io m’inquietavo, e non volevo, manco credere vere certe cose, come non le credo ancora, ed il bene che io gli volevo glie lo voglio ancora tal quale, abbenché ei più non esista. Siate dunque buono per me, vi prego, non mi dite più delle simili sciocchezze, e risparmiate una pena al mio cuore, nel togliermi l’idea che senza volerlo potei dar trista idea di me stessa a persona così disgraziata

            Fanny, donna "famosa" per bellezza, innamorata della vita con malinconico piacere, amata con maggiore o minor fortuna da molti uomini, si svela donna di buon senso, lontana dal suscitare sogni irrealizzabili, concreta e sensibile, ma sempre animata da una certa ragionevolezza, con la quale affrontava la vita e le amicizie. E proprio in conto di questa ragionevolezza la Fanny non avrebbe mai potuto accettare l’amore di Leopardi, ma l’avrebbe sempre trattato con gentilezza e un certo affetto anche perché amico del bel napoletano del quale la donna aveva sentito un certo trasporto amoroso mai scaduto nella volgarità. Certamente la donna non negò al Leopardi l’affetto che viene dalla stima e forse anche per la pietà che derivava dalle sofferenze di cui era intessuta l’esistenza del poeta: ma di questo amore il Leopardi non sapeva che farsene. Di qui parte quell’idealizzazione che ritroviamo nel ciclo di Aspasia, una idealizzazione che nasce anche dall’impaccio del poeta con le donne in generale e con Fanny in particolare, come risulta dalla lettera che le invia durante il soggiorno romano

            Cara Fanny. Non vi ho scritto fin qui per non darvi noia, sapendo quanto siete occupata. Ma in fine non vorrei che il silenzio vi paresse dimenticanza, benché forse sappiate che il dimenticar voi non è facile. Mi pare che mi diceste un giorno, che spesso ai vostri amici migliori non rispondevate, agli altri sì, perché di quelli eravate sicura che non si offenderebbero, come gli altri del vostro silenzio. Fatemi tanto onore di trattarmi come uno de’ vostri migliori amici; e se siete molto occupata, e se lo scrivere vi affatica, non mi rispondete. Io desidero grandemente le vostre nuove, ma sarò contento di averne da Ranieri o dal Gozzani, ai quali ne domando.
         Delle nuove da me non credo che vi aspettiate. Sapete ch’io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gl’individui sono infelici sotto ogni forma di governo; colpa della natura che ha fatti gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici. Molto meno potrei parlarvi di notizie letterarie, perché vi confesso che sto in gran sospetto di perdere la cognizione delle lettere dell’abbiccì, mediante il disuso del leggere e dello scrivere. I miei amici si scandalizzano; ed essi hanno ragione di cercar gloria e di beneficare gli uomini; ma io che non presumo di beneficare, e che non aspiro alla gloria, non ho torto di passare la mia giornata disteso su un sofà, senza battere una palpebra. E trovo molto ragionevole l’usanza dei Turchi e degli altri Orientali, che si contentano di sedere sulle loro gambe tutto il giorno, e guardare stupidamente in viso questa ridicola esistenza.
         Ma io ho ben torto di scrivere queste cose a voi, che siete bella, e privilegiata dalla natura a risplendere nella vita, e trionfare del destino umano. So che ancor voi siete inclinata alla malinconia, come sono state sempre e come saranno in eterno tutte le anime gentili e d’ingegno. Ma con tutta sincerità, e non ostante la mia filosofia nera e disperata, io credo che a voi la malinconia non convenga, cioè che quantunque naturale, non sia del tutto ragionevole. – Almeno così vorrei che fosse.
        
... Addio, cara Fanny: salutatemi le bambine. Se vi degnate di comandarmi, sapete che a me, come agli altri che vi conoscono, è una gioia e una gloria il servirvi.

            È una lettera venata di impaccio e timidezza, che rivela una certa sottomissione che non sempre è sintomo evidente di amore. Noi pensiamo che la coscienza della propria deformità, le disillusioni provate negli anni precedenti e infine un bisogno di tenerezza raggelato dalla freddezza della madre, abbia provocato in Giacomo una profonda sfiducia in se stesso e inibito la naturalezza dei rapporti con le donne creando una sorta di timore di essere considerato ridicolo. Anche se la lontananza da Fanny durante il soggiorno romano gli fu quasi intollerabile, questo non lo si può capire né da questa lettera né dai pochi altri indizi che abbiamo.

Ranieri

            All’inizio dell’autunno, in settembre, ancora una volta con la presenza del Poerio, comincia la sua amicizia, che durerà fino alla morte, con Antonio Ranieri, quasi un eroe romantico, anche se dal carattere estroverso e loquace: esule dalla patria e viaggiatore attraverso l’Europa, e quindi conquistatore di cuori femminili. Il Ranieri decide allora di "prendersi cura" di Leopardi, ma il suo non è un vero atteggiamento da mecenate, preso com’era un lato dalla vita brillante e dall’altro dalle stesse difficoltà economiche del poeta: nell’aprile 1831 sarebbe scaduta l’ultima rata dei 18 francesconi degli amici toscani e in luglio Ranieri veniva privato dell’assegno mensile paterno. Il 23 ottobre conosce Louis De Sinner, un trentenne filologo svizzero, laureato presso l’Università di Tubinga, col quale stringerà un rapporto abbastanza amichevole e che agli occhi di Giacomo appare proficuo perché avrebbe potuto allargare all’Europa la fama di Leopardi.
         Il 4 marzo un’assemblea di cinquantaquattro notabili, giunti a Bologna da diversi luoghi in cui si era verificata la sollevazione contro il governo pontificio, proclamava il "Governo delle Province unite italiane", affidando a Terenzio Mamiani il ministero degli Interni e al professor Orioli quello di ministro dell’istruzione. Il territorio viene diviso in distretti e ogni distretto avrebbe dovuto nominare un rappresentante deputato. Anche il paese di Recanati viene elevato al rango di distretto e il 20 marzo nomina proprio Leopardi Deputato rappresentante all’Assemblea di Bologna. Il Comitato, presieduto dal conte di Colloredo, manda a Leopardi un caloroso messaggio invitandolo ad andare a Bologna a ritirare le relative credenziali presso l’avvocato Brighenti che Giacomo conosceva bene e che nessuno credeva fosse anche una spia al soldo degli austriaci e del papa. Il poeta, comunque, sulla spinta degli eventi (gli austriaci stavano conquistando l’Emilia ed erano ormai a Cento) e del padre, mette un freno all’iniziativa; così infatti scrive al Comitato che lo aveva eletto:

Sono infinitamente sensibile all’onore fattomi dalle V.e Signorie Illustrissime e dal Consiglio di cotesta Città, di eleggermi a loro Rappresentante nell’Assemblea nazionale che era per tenersi a Bologna, secondo mi viene notificato dal lor venerato dispaccio del 21 cadente. Suppongo ora le SS. VV. informate della occupazione di Bologna fatta già molti giorni addietro dalle truppe austriache, e della partenza del Governo Provvisorio da quella città, per porre la sua residenza in luogo più sicuro. Di questo luogo, il quale anco sembra cambiarsi di giorno in giorno, non è facile qui aver notizia precisa, e impossibile sarebbe poi ottenere passaporti a quella volta. Le circostanze cambiate rendono dunque, almeno per il momento, ineseguibili le disposizioni delle SS. VV. Ill.me a me relative, ma non distruggono né la gratitudine ben viva che io sento alla confidenza dimostratami da esse SS. VV., né il desiderio ardentissimo di servire cotesta mia patria, a qualunque mio costo e fatica, ogni volta che lo consentano i tempi, e che l’opera mia non paia dover essere, come in questo caso, del tutto fuori di luogo.

         Il mandato di fatto verrà annullato con l’arrivo degli Austriaci a Bologna.

         Il primo ottobre 1831 parte con l’amico Ranieri alla volta di Roma, insieme all’amante di questi, l’attrice Maria Maddalena Signorini di Pelzet della compagnia Mascherpa, dove giunge la sera del 5 e si stabilisce al numero 63 di via delle Carrozze e in Novembre si trasferisce con l’amico in via Condotti 81. Ma vi restano pochi mesi: il 17 marzo 1832 marzo successivo tornano a Firenze, dove arrivano il 22, sempre seguendo la compagnia Mascherpa, dopo che Giacomo aveva scritto al padre chiedendo un disperato aiuto economico, mentre gli restavano soldi per vivere a Firenze solo per una settimana. Arrivati a Firenze si deve accontentare di un umido alloggio presso una certa Teresa Terreni e il giorno dopo riceve dal padre un aiuto di sessanta scudi; in aprile va a vivere in un una camera in via dei Banchi che ha due finestre su piazza Santa Maria Novella
         Dal 1832 rallenta molto la sua attività letteraria per le condizioni fisiche che peggiorano inesorabilmente. Trascorre da solo l’estate, mentre l’amico Ranieri è a Bologna, occupato in quel suo amore che, secondo il Leopardi, lo fa soffrire e lo rende infelice. Le condizioni economiche sono diventate ormai disperate: il 3 luglio scrive al padre quella lettera d’aiuto che mai avrebbe scritto, orgoglioso com’era, se non fosse stato ridotto dal destino all’ultimo vero passo. Riportiamo quasi per intero questa drammatica lettera:

         Io credo ch’Ella sia persuasa degli estremi sforzi ch’io ho fatti per sette anni affine di proccurarmi i mezzi di sussistere da me stesso. Ella sa che l’ultima distruzione della mia salute venne dalle fatiche sostenute quattro anni fa, per lo Stella, al detto fine. Ridotto a non poter più nè leggere nè scrivere nè pensare (e per più di un anno nè anche parlare), non mi perdetti di coraggio, e quantunque non potessi più fare, pur solamente col già fatto, aiutandomi gli amici, tentai di continuare a trovar qualche mezzo. E forse l’avrei trovato, parte in Italia, parte fuori, se l’infelicità straordinaria de’ tempi non fosse venuta a congiurare colle altre difficoltà, ed a renderle finalmente vincitrici. La letteratura è annientata in Europa: i librai, chi fallito, chi per fallire, chi ridotto ad un solo torchio, chi costretto ad abbandonare le imprese meglio avviate. In Italia sarebbe ridicolo ora il presumere di vender nulla con onore in materie letterarie, e di proporre ai librai delle imprese nuove: da Francia, Germania, Olanda dove io aveva mandata una gran quantità di mss. filologici con fondatissime speranze di profitto, non ricevo, invece di danari, che articoli di Giornali, biografie e traduzioni. Mi trovo dunque, com’Ella può ben pensare, senza i mezzi di andare innanzi.
         Se mai persona desiderò la morte così sinceramente e vivamente come la desidero io da gran tempo, certamente nessuna in ciò mi fu superiore. Chiamo Iddio in testimonio della verità di queste mie parole. Egli sa quante ardentissime preghiere io gli abbia fatte (sino a far tridui e novene) per ottener questa grazia; e come ad ogni leggera speranza di pericolo vicino o lontano, mi brilli il cuore dall’allegrezza. Se la morte fosse in mia mano, chiamo di nuovo Iddio in testimonio ch’io non le avrei mai fatto questo discorso: perchè la vita
in qualunque luogo mi è abbominevole e tormentosa. Ma non piacendo ancora a Dio d’esaudirmi, io tornerei costà a finire i miei giorni, se il vivere in Recanati, soprattutto nella mia attuale impossibilità di occuparmi, non superasse le gigantesche forze ch’io ho di soffrire. Questa verità (della quale io credo persuasa per l’ultima acerba esperienza ancor Lei), mi è talmente fissa nell’animo, che malgrado del gran dolore ch’io provo stando lontano da Lei, dalla Mamma e dai fratelli, io sono invariabilmente risoluto di non tornare stabilmente costà se non morto. Io ho un estremo desiderio di riabbracciarla, e solo la mancanza de’ mezzi di viaggiare ha potuto e potrà nelle stagioni propizie impedirmelo: ma tornar costà senza la materiale certezza di avere il modo di riuscirne dopo uno o due mesi, questo è ciò sopra di cui il mio partito è preso, e spero che Ella mi perdonerà se le mie forze e il mio coraggio non si estendono fino a tollerare una vita impossibile a tollerarsi.
         Non so se le circostanze della famiglia permetteranno a Lei di farmi un piccolo assegnamento di dodici scudi il mese. Con dodici scudi non si vive umanamente neppure in Firenze, che è la città d’Italia dove il vivere è più economico. Ma io non cerco di vivere umanamente: farò tali privazioni, che a calcolo fatto, dodici scudi mi basteranno. Meglio varrebbe la morte, ma la morte bisogna aspettarla da Dio. In caso che Ella potesse e volesse questo, non avrebbe che a porre di due in due mesi a mia disposizione la somma di 24 scudi presso qualche suo corrispondente in Roma, avvisandomi la persona; sopra la quale io trarrei di qua la detta somma per cambiale. Avrei caro che il suo ordine fosse per 24 francesconi, il che a Lei non porterebbe grande aumento di spesa, e a me farebbe gran divario, essendoci ora grandissima perdita nel cambio degli scudi romani o colonnati con francesconi. Ed Ella sa che i francesconi si spendono qui come costà i colonnati.
         Se le circostanze, mio caro Papà, non le consentiranno di soddisfare a questa mia domanda, la prego con ogni possibile sincerità e calore a non farsi una minima difficoltà di rigettarla. Io mi appiglierò ad un altro partito: e forse a questo avrei dovuto appigliarmi senza altrimenti annoiar Lei con questo discorso: ma come il partito ch’io dico, è tale, che stante la mia salute, non è verisimile che io in breve tempo non vi soccomba, ho temuto che Ella avesse a fare un rimprovero alla mia memoria dell’averlo abbracciato senza prima confidarmi con Lei sopra le cose che le ho esposte. Del rimanente, io da un lato provo tanto dolore nel dar noia a Lei, e dall’altro sono così lontano da ogni fine capriccioso e da ogni lieta speranza nel voler vivere fuori di costà che ho perfino desiderato, ed ancora desidererei, che mi fosse tolta la possibilità di ogni ricorso alla mia famiglia, acciocchè non potendo io mantenermi da me, e molto meno essendomi possibile il mendicare, io mi trovassi nella materiale, precisa e rigorosa necessità di morir di fame.
         Scusi, mio caro Papà, questo malinconico discorso che mi è convenuto tenerle per la prima e l’ultima volta della mia vita. Si accerti della mia estremissima indifferenza circa il mio avvenire su questa terra, e se la mia domanda le riesce eccessiva, o importuna, o non conveniente, non ne faccia alcun caso.

         Al Leopardi, vissuto per più d’un anno alla cessazione dell’assegno procurato dal Colletta, falliti tutti i piani di sopravvivenza senza l’aiuto della famiglia, non riuscendo a guadagnarsi da vivere coi suoi scritti a causa della profonda crisi editoriale che sconvolgeva tutta l’Europa, il padre, dopo aver aspettato un mese, concede al figlio il permesso di firmare una cambialina per la cifra richiesta: era la stessa cifra concessa a Carlo quando se ne era andato via da casa e promessa da Francesco Ranieri al figlio Antonio. L’estate viene trascorsa nella solitudine, mentre Ranieri rincorreva il suo amore e la Fanny si trovava fuori Firenze. In novembre a Giacomo giunge l’assenso definitivo con l’avallo della madre.

Napoli

         Il 2 settembre 1833 parte con Ranieri da Firenze in compagnia di Luigi Minchioni, un viaggio in sette tappe, scandito da pernottamenti nelle migliori locande e da laute cene. Il 9 settembre giungono a Roma e si fermano nella capitale fino alla fine del mese; lo zio Carlo Antici gli versa l’assegno del padre con l’aggiunta di 20 scudi (bontà paterna) da utilizzare per il viaggio, e intanto la salute migliora leggermente ottenendo un beneficio attraverso il cambiamento di clima. Nel frattempo si diffonde la falsa notizia di un suo arresto, subito smentita (c’era stato uno scambio di persona e l’arrestato si chiamava Pier Silvio Leopardi, collegato a Mazzini).
         Il viaggio riprende il 30 settembre, su una comoda carrozza costata più di 24 scudi, e i due giungono a Napoli il 2 ottobre, andando ad alloggiare in un appartamentino di Costantino Margaris, amico di Antonio e Paolina Ranieri, in via San Mattia 88 al secondo piano del palazzo Berio vicino piazza San Ferdinando a pochi passi da Toledo. Il soggiorno napoletano viene caratterizzato quasi subito da difficoltà finanziarie, visto che non usufruiva più dei famosi dodici ducati che il padre gli aveva concesso; per questo è costretto ben presto a rivolgersi nuovamente al padre e allo zio Carlo Antici. Lo stesso Ranieri, forse assorbito dall’assistenza che doveva all’amico, non guadagnava più di tanto col suo lavoro di avvocato presso il foro napoletano.
         L’anno successivo, abbandonato l’appartamento di via San Mattia, perché la proprietaria, quasi inorridiva quando vedeva Leopardi perché lo riteneva ammalato di tisi, a causa del suo aspetto macilento, i due amici vanno ad abitare nel palazzo Cammarota, al numero 35 della strada nuova Santa Maria Ognibene, sotto la Certosa San Martino. Nel maggio 1835 i due amici lasciano anche palazzo Cammarota e vanno ad abitare in un alloggio nuovo a Capodimonte in una delle zone meno affollate di Napoli, dove la salute di Leopardi subisce qualche miglioramento. Intanto Paolina, la sorella di Ranieri, ottiene finalmente di andare a vivere coi due amici e la sua presenza ha indubbiamente qualche benefico effetto sul poeta anche perché nel nome e nella devozione gli riporta alla mente la sorella rimasta a Recanati. D’altronde Leopardi non era un ospite facile né un paziente docile per i suoi numerosi disturbi fisici e per la sua irritabilità
         In estate Leopardi compone Aspasia dopo la Palinodia al Marchese Gino Capponi, una satira politica e sociale in versi sciolti, rivolta contro le aspirazioni e le illusioni dei suoi vecchi amici fiorentini e in particolare contro i vantaggi del progresso materiale e scientifico: non vede di buon occhio la diffusione della stampa, le nascenti "strade ferrate" o i palloni aerostatici; la Palinodia verrà pubblicata nell’edizione Starita del 1835 insieme ai canti per Aspasia e a due nuove canzoni sepolcrali composte in quella primavera: Sopra un bassorilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna, scolpito nel monumento sepolcrale della medesima, con i temi fondamentali della poetica leopardiana: l’inevitabile fine della bellezza e il contrasto tra le illusioni dell’uomo e la natura inesorabile. Forse in questo stesso lavora ai Paralipomeni della Batracomiomachia cominciati già nel ’31, sui quali lavorerà fino alla morte.
         Il 9 maggio 1835 si trasferisce col Ranieri in una casa del Rione Sanità, al n. 2 di Vico Pero; il 9 luglio conclude un contratto con l’editore Saverio Starita, che si impegna a pubblicare entro dieci mesi tutte le opere del Leopardi in 6 volumi e in estate esce la celebre edizione napoletana dei Canti, la cosiddetta edizione Starita, che sarà sequestrata nel 1836 per ordine del governo borbonico. Nel gennaio 1836, sempre presso Saverio Starita, esce la terza edizione delle Operette morali, anch’essa sequestrata; in aprile, per sfuggire al colera, va ad abitare con Ranieri e Paolina, nella villa Ferrigni, di proprietà dell’avvocato Giuseppe Ferrigni, cognato del Ranieri), alle pendici del Vesuvio fra Torre del Greco e Torre Annunziata: forse in questo periodo compone la sua ultima poesia, La ginestra, l’affermazione definitiva della dura realtà dell’infelicità umana e della distruzione definitiva di ogni illusione ma anche l’accettazione "eroica" dell’esistenza.

         "L’uomo è nudo e nullo; vani sono i suoi sogni di dominazione, di progresso, d’immortalità; ma se accetta questa verità, e ne attribuisce la colpa alla "rea natura", che ci è stata "madre di parto e di voler matrigna, potrà trovare conforto nell’umana compagnia", ricondotto
         Da verace saper, l’onesto e il retto
         Conversar cittadino
         E giustizia e pietade..
.
         È questa affermazione che, come nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, rappresenta il vero testamento del Leopardi: il suo dono agli uomini non d’amore, ma di compassione e fratellanza" (Origo, p. 393)

         Leopardi ha occupato un posto abbastanza importante nella cultura napoletana, anche se il suo aspetto e il suo atteggiamento non sempre sono stati accettati. Fra coloro che lo hanno stimato ricordiamo almeno Francesco De Sanctis, il primo che attribuisce al poeta di Recanati il posto che merita nel panorama della letteratura italiana, in un misto di critica letteraria e di incondizionato entusiasmo che è ben messo in luce nella sua opera autobiografica: "Si recitavano i suoi Canti, - scrive ne "La giovinezza", - tutti con eguale ammirazione; non c’era ancora un gusto così squisito da fare distinzioni; e poi ci sarebbe parsa un’irriverenza".

La fine

         Il 16 febbraio del 1837 rientra a Napoli nell’appartamento di Vico Pero, mentre il colera non era ancora stato debellato del tutto. Il rinfocolarsi dell’epidemia li consiglia a ripartire per Torre del Greco, ma per molte settimane Giacomo e Ranieri rimandano la partenza, anche perché trattenuti dalle condizioni fisiche del poeta che si aggravano sempre più, tanto da non permettergli agevolmente il viaggio. Il 27 maggio scrive la sua ultima lettera al padre, e la conclude così:

         Se scamperò dal cholèra e subito che la mia salute lo permetterà, io farò ogni possibile per rivederla in qualunque stagione, perchè ancor io mi do fretta, persuaso oramai dai fatti di quello che sempre ho preveduto che il termine prescritto da Dio alla mia vita non sia molto lontano. I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l’età ad un grado tale che non possono più crescere: spero che superata finalmente la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio corpo, mi condurranno all’eterno riposo che invoco caldamente ogni giorno non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo.
        
Ringrazio teneramente Lei e la Mamma del dono dei dieci scudi, bacio le mani ad ambedue loro, abbraccio i fratelli, e prego loro tutti a raccomandarmi a Dio acciocchè dopo ch’io gli avrò riveduti una buona e pronta morte ponga fine ai miei mali fisici che non possono guarire altrimenti. Il suo amorosissimo figlio Giacomo.

         Giacomo si spegne il 14 giugno; è il pomeriggio inoltrato, quando il cocchiere giunge davanti al portone per riportarlo a villa Ferrigni, il poeta si accinge a mettersi a tavola per pranzare, un denso brodo previsto nel suo menù di malato; chiede a Paolina un sorbetto al limone, che lo aiutasse a digerire i confetti sulmonesi che il giorno precedente aveva mangiato in abbondanza, ma non riesce più a continuare a mangiare. Sente l’asma crescere e dice a Ranieri che desidera vedere il medico; Ranieri esce in cerca del medico e con la carrozza va a prendere il dottore a casa sua. Il medico lo visita sommariamente e si rende subito conto della situazione. Così Ranieri racconterà questi ultimi momenti di vita del poeta in Supplemento alla notizia intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi:

         ... Si rallegrò del nostro arrivo, ci sorrise; e, benché con voce alquanto più fioca e interrotta dell’usato, disputò dolcemente col Mannella del suo mal di nervi, della certezza di mitigarlo col cibo, della noia del latte d’asina, de’ miracoli delle gite e del voler di presente levarsi per andarne in villa. Ma il Mannella, tiratomi destramente da parte, mi ammonì di mandare incontanente per un prete; che di altro non v’era tempo. Ed io incontanente mandai e rimandai e tornai a rimandare al prossimo convento degli agostiniani scalzi. In questo mezzo, il Leopardi, mentre tutti i miei gli erano intorno, la Paolina gli sosteneva il capo e gli asciugava il sudore che veniva giù a goccioli dall’ampissima fronte, ed io, veggendolo soprappreso da un certo infausto e tenebroso stupore, tentavo di ridestarlo con gli aliti eccitanti or di questa or di quella essenza spiritosa; aperti più dell’usato gli occhi mi guardò più fisso che mai. Poscia: - Io non ti veggo più – mi disse come sospirando. E cessò di respirare; e il polso né il cuore non battevano più; ed entrava in quel momento stesso nella camera frate Felice di Sant’Agostino, agostiniano scalzo; mentre io, come fuori di me, chiamavo ad alta voce il mio amico e fratello e padre, che più non mi rispondeva, benché ancora pareva che mi guardasse. ...

         Padre Felice da Cerignola recita le preghiere per i defunti, mentre il Ranieri continua a chiamare ad alta voce l’amico. Il Ranieri riesce a stento a sottrarre il corpo dell’amico alla fossa comune, che era la destinazione imposta dalle autorità proprio a causa della violenta epidemia di colera. Ottiene dall’amico Marchese di Pietracolle e dal ministro del Carretta una specie di assenso, o perlomeno di non opposizione affinché il poeta non fosse sepolto nel cimitero; convoca un imbalsamatore per ritardare la decomposizione del cadavere e chiede allo scultore Angelini di modellare la maschera del volto. Quindi si fa prestare due carrozze e al buio, la sera del 15, la salma viene quasi di nascosto accompagnata verso la chiesa di San Vitale Fuorigrotta, nella diocesi di Pozzuoli; il parroco, che aveva ricevuto in regalo un cesto di calamari e di triglie, apre la chiesa e la bara viene deposta nella cripta.
         In San Vitale la bara resta per sette anni, quando la cassa viene trasferita nel vestibolo della chiesa; fa murare la cassa a proprie spese sotto un piccolo monumento su quale fa incidere sulla lapide questa epigrafe che dettata dall’amico abate Pietro Giordani:

AL CONTE GIACOMO LEOPARDI RECANATESE
FILOLOGO AMMIRATO FUORI D’ITALIA
SCRITTORE DI FILOSOFIA E DI POESIA ALTISSIMO
DA PARAGONARE SOLAMENTE COI GRECI
CHE FINÌ DI XXXIX ANNI LA VITA
PER CONTINUE MALATTIE MISERISSIMA
FECE ANTONIO RANIERI
PER SETTE ANNI FINO ALLA ESTREMA ORA CONGIUNTO
ALL’AMICO ADORATO. MDCCCXXXVII

         A corredo del monumento c’è il disegno di un gufo, simbolo della saggezza di Atene, e due fronde, una d’alloro per il poeta e una di quercia "per il filosofo e benefattore dell’umanità".

         Il 21 luglio 1900 la tomba di Leopardi viene dichiarata monumento nazionale e sistemata nel nuovo pronao della chiesa alla presenza del ministro Mariotti in rappresentanza del Governo e di rappresentanti della famiglia Leopardi. In questa occasione si scopre con dolorosa sorpresa di tutti che dalla bara manca addirittura il teschio sostituito da un grosso pezzo di tavola.
         Infine il 2 febbraio 1939 "la cassa che conteneva le spoglie del poeta fu trasportata, in un lenzuolo piombato e sotto la stessa lapide che la sovrastava a San Vitale, sulle pendici della collina di Posillipo, che allora non era ancora circondata dal cemento armato che oggi stringe Napoli nella sua morsa. Qui, presso una piccola costruzione circolare dell’epoca romana finalmente riposa quel poco che ancora rimane del corpo di Giacomo Leopardi (Origo, p. 413).

 

Viaggi di Giacomo Leopardi

partenza

arrivo

località

17 novembre 1822 da Recanati in compagnia della famiglia di Carlo Antici

23 novembre 1822 abita a palazzo Antici-Mattei presso lo zio Carlo

Roma

fine aprile 1823 parte da Roma

3 maggio 1823

Recanati

12 luglio 1825

17 luglio 1825

Bologna

27 luglio 1825 parte da Bologna

30 luglio 1825 – alloggia in casa dell’editore Stella

Milano

27 settembre 1825

29 settembre 1825

Bologna

Il 3 novembre 1826 lascia Bologna

12 novembre 1826

Recanati

da Recanati

26 aprile 1827

Bologna

da Bologna

21 giugno 1827

Firenze

29 aprile da Recanati

3 maggio – Albergo della Pace

Bologna

9 maggio da Bologna

10 maggio

Firenze

1 ottobre con Ranieri e l’amante di questi l’attrice Maria Maddalena Pelzet

5 ottobre

Roma

da Roma

22 marzo

Firenze

2 settembre 1833 da Firenze

- 1833

Roma

1833

2 ottobre 1833

Napoli

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

- Damiani Rolando, All’apparir del vero, Vita di Giacomo Leopardi, Mondadori, Milano 1998

- Album Leopardi, con un saggio biografico e il commento alle immagini di Rolando Damiani, Ricerca iconografica di Eileen Romano, Mondadori, I Meridiani, Milano 1993

- Iris Origo, Leopardi, traduzione di Paola Ojetti, Rizzoli, Milano 1974

- Giacomo Leopardi, Lettere scelte, con un commento e con uno studio sulla Genesi e sugli elementi del dolore nell’epistolario leopardiano, del professor Giovanni Bertacchi, Sonzogno, Milano 1902

- Francesco Flora, Leopardi e Aspasia, in La Nuova Antologia, vol. CCLVII serie VII, 1928

- Francesco Moroncini, Lettere inedite di Alessandro Poerio ad Antonio Ranieri 1830-1837, in La Nuova Antologia, vol. CCLXXII, serie VII, 1930

 


Biblioteca
Progetto Leopardi
Progetto Leopardi
introduzione
bio - parte 1
bio - parte 2
bio - parte 3

Fausernet

© aprile 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 27 gennaio 1999